Capitolo 3: Under the rain.
“L’acqua non mi ricopre più come una volta.
I tempi in cui ci affogavo dentro sono completamente passati.
Naturalmente l’acqua rappresenta una metafora.
Acqua scura e torbida.
Acqua ghiacciata e dolorosa.
Acqua soffocante.
L’acqua lega tutte queste memorie, un mucchio di ricordi.
Come nei più ovvi dei cliché, al funerale di mia madre aveva piovuto, ricordo che l’acqua cadeva così violentemente al suolo che le gocce sembravano in grado di frantumare ciò che bagnavano. L’acqua quel giorno era stata la mia unica compagnia, mia nonna non mi aveva abbracciato neanche una volta, ricordo di essermi lasciata colpire da quella specie di tifone fino ad inzupparmi le ossa.
Nel momento in cui la bara veniva fatta calare, la pioggia fu così forte che tutte le persone si misero a correre per cercare un riparo. Io invece rimasi in piedi, quasi in attesa che tutta quell’acqua mi sommergesse veramente.
Per tanto tempo ci annegai dentro.
Ora le cose sono cambiate, anche dopo averti lasciato, non ci sono ricaduta dentro. Credo che questo sia fondamentalmente un vostro merito.
L’acqua, ora, rappresenta anche qualcosa di piacevole…
Dovrebbe esserlo anche per te, mi sbaglio, Bill?…”***
Scappa.
Le veniva in mente solo questo. Doveva scappare velocemente, fuggire il più lontano possibile, se non l'avesse fatto non ci sarebbe più riuscita. Voleva andarsene ma i piedi restavano inchiodati a terra, i muscoli completamente atrofizzati.
L'ansia e l'agitazione continuavano a serpeggiare animosamente dentro di lei mentre la ragione del suo desiderio di evadere si faceva sempre più vicina. Così prossima che poteva sentire, chiaramente, il suo fiato sul collo.
La cosa brutta degli incubi è che tutto ciò che non vuoi che accada inevitabilmente avviene. Nei migliori dei casi in modo rapido, così da porre fine a tutto celermente, come una tortura abbreviata per uno sprizzo di pietà da parte del carnefice.
“Svegliati, svegliati, svegliati, svegliati...” ripeteva a se stessa continuando, però, imperterrita a restare immobile, intrappolata tra le pareti di quella fantasia terrificante.
Continuava ad essere in bilico sul bordo di un abisso infinito. Il panico le impediva di essere lucida, anche se c'era da dire che non sarebbe servito a molto esserlo. Dal labirinto che è la propria mente non ci sono uscite di emergenza.
Da un momento all'altro sentiva che sarebbe precipitata ma questo non era ciò la spaventava maggiormente. Abbassò gli occhi verso le tenebre che aspettavano di inghiottirla, prima di percepire proprio dietro di lei una presenza. Talmente vicina che con un piccolo movimento si sarebbero sfiorate.
Non ebbe il coraggio di voltarsi a guardarla negli occhi mentre percepiva il tocco di una sua mano lungo la spalla. I muscoli le si contrassero simultaneamente e lei poté percepire la sensazione che l'incubo stava per finire, non in modo piacevole, ma sarebbe finito.
Fu una pressione leggera e quasi inconsistente ma bastò per farle perdere l'equilibrio, in un attimo stava già volando dentro la voragine. Non poteva fare nulla per fermarsi, non aveva modo di salvarsi, avrebbe continuato a scendere verso il basso all'infinito e questo perché, ne era certa, il fondo del baratro non esisteva.
“Tutti vogliono avere qualcuno con cui essere se stessi.”Mentre rovinava in mezzo alle ombre quella frase riecheggiò nel suo subconscio.
“Me stessa? Non so se una me se stessa esiste ancora...” si ritrovò a pensare mentre il suo corpo cadeva.
“..Nessuno vuole essere ignorato.”Precipitava sempre più giù, sempre più in fondo, in un luogo da cui non si faceva ritorno. Eppure pensava solo a quelle cose dette da lui. In un incubo in cui viveva una morte tanto angosciosa riusciva solo a pensare a quello che aveva detto.
Era vero: l'ultima cosa che desiderava era essere ignorata.
Ma non contava molto questa piccola verità, infondo stava già cadendo.
E fu allora che urlò.
Urlò con tutta la forza che poteva.
Urlò con tutta la disperazione di chi provava un dolore lacerante.
Era un grido disperato il suo, quasi fosse l''invocazione di un aiuto.
Per quanto tempo ancora avrebbe dovuto continuare a gridare prima che quella pena riuscisse a divorarle l'anima? Il tormento era qualcosa di davvero stancante.
Mentre riapriva finalmente gli occhi da quel sogno la porta della sua stanza venne spalancata con forza e la figura di sua zia Freia in vestaglia rosa pallido irruppe dal nulla.
Ella accese immediatamente la luce e si guardò attorno, in cerca di un fantomatico ladro che fosse entrato nella casa, provocando così le grida della nipote. Purtroppo per lei non c'era nessun intruso che potesse giustificare quello che era accaduto. In quella camera da letto c'era solo Lyric, sdraiata sotto le coperte.
Dovette per forza convenire che la prima cosa a cui aveva pensato non fosse la più ovvia.
Si accostò frettolosamente al letto della nipote.
“Cosa è successo?” domandò.
Lyric rimase muta, non sapendo bene cosa rispondere e nel frattempo si mise a sedere sul materasso.
Si accorse in quel momento di sentire un freddo raggelante provenire dalla sua destra. Voltò il capo per vedere se avesse erroneamente lasciato la finestra aperta prima di coricarsi, era serrata.
Eppure stava congelando. Strinse le coperte al suo corpo.
“It's too frozen here.” mormorò così piano che poteva essere scambiato per un soffio.
“Come?” zia Freia la guardò con apprensione. Aveva la netta sensazione che sua nipote fosse in stato di shock, inoltre era tutta sudata e rabbrividiva come una foglia.
“Very cold...” Lyric la guardò finalmente in faccia, si sentiva spaesata ed aveva veramente tanto freddo. Notò che le sue mani tremavano mentre stringevano convulsamente la coperta color cobalto.
“Hai gridato come un'ossessa.” Lyric tenne gli occhi spalancati mentre la zia parlava, l'immagine della caduta girava ancora nella sua mente come la pellicola di un film.
“Ah...” fu la prima cosa che le venne in mente di dire in tedesco “Scusa se ti ho svegliato.” aggiunse modo spento.
“Scusa se ti ho svegliato?” zia Freia sbatté gli occhi “Lyric, hai gridato come se ti stessero uccidendo. Avrai svegliato l'intero vicinato.” si sedette sul fianco del letto.
“Beh, allora scusa se ho svegliato anche loro...” Lyric non stava affatto scherzando mentre diceva quelle cose. Era così concentrata nel cercare di stabilizzarsi dopo l'incubo che non si rendeva conto di ciò che le usciva dalla bocca.
Zia Freia notò che Lyric stringeva i denti per impedire che tremassero. Restarono entrambe immobili, lasciando che il silenzio le abbracciasse, occhi negli occhi.
Qualche minuto dopo Lyric abbassò il capo incapace di trattenersi: cominciò a singhiozzare.
Non ce la faceva più, non aveva abbastanza energia per continuare in quel modo, persino nei sogni non aveva pace. L'aspetto più brutto della faccenda era che, nel profondo della sua volontà, per prima non volesse essere ridotta in quelle condizioni ma aveva troppa paura.
Paura di provare a superare il problema, paura di provarci e non riuscirci.
Nessuno è così forte da potersi permettere il lusso di credersi invincibile, ogni persona di questo mondo, in un punto oscuro del suo cuore, è afflitto dalla debolezza.
Se la sua vita significava pregare di non soffrire talmente tanto, se voleva dire vivere ogni giorno pregando che passasse come acqua tra le mani, se era questo il significato, allora era davvero uno schifo.
Era dentro una trappola.
Mentre questi pensieri la inondavano proprio come le sue lacrime, sentì le braccia di sua zia circondarla. Lei non le disse nulla, le rimase semplicemente accanto, non pretendendo che Lyric ricambiasse.
Una delle ragioni per cui aveva cominciato ad apprezzare sua zia era il fatto che non la sforzava mai a sputare fuori tutto quanto. Lei sosteneva il fatto che ognuno avesse la necessità di fare i conti prima con se stesso, prima di poterne fare con qualcun altro.
E poi Lyric aveva quasi la certezza che zia Freia potesse comprendere anche se non le si diceva niente, proprio come faceva suo padre.
Non ebbe il coraggio di rivelarle che aveva fatto tutto quel pandemonio per un incubo, quindi, per tutto il tempo in cui rimasero insieme non fece altro che piangere.
La mattina seguente, al suo risveglio, ricordò solo che sua zia l'aveva lasciata con una carezza tra i capelli.
***
Non era stata lei a scegliere di frequentare quella scuola, se fosse stata per sua volontà avrebbe voluto seguire delle lezioni private a casa, come aveva fatto a Boston da quando era morta la madre ma sua zia aveva insistito. Poiché era stata l'unica cosa su cui avesse fatto pressioni l'aveva assecondata.
Per niente al mondo, però, avrebbe pensato che proprio in quell'istituto avrebbe rincontrato quei due. In particolare era rimasta sconvolta dallo scoprire che quel ragazzo di nome Bill Kaulitz fosse uno dei suoi nuovi compagni di classe. Se non fosse apparsa come una pazza, nel momento stesso in cui lo aveva riconosciuto tra i volti anonimi di quella mattina, avrebbe fatto marcia indietro correndo il più lontano possibile da quel posto.
Nella settimana seguente il loro casuale incontro si era ritrovata spesso a pensare senza motivo a quell'episodio. Doveva aver vagliato almeno un centinaio di volte la gentilezza e la spontaneità dei modi che Bill aveva espresso nei suoi confronti una volta che si era ritrovata a casa loro. In tutto il tempo che aveva atteso che Steven la venisse a prendere, per qualche ragione, lui non aveva chiesto nulla riguardo l'averla vista sul ciglio di una strada a piangere.
Erano sempre rimasti da soli, Tom non aveva mostrato il suo brutto muso neanche una volta e sospettava che fosse stato per via di un ordine del fratello.
In quella frazione di tempo era stato lui a parlare per entrambi e si era stupita della voracità con cui sputava fuori un discorso dietro all'altro, senza quasi riprendere fiato tra una frase e l'altra. Con certe persone avrebbe trovato fastidioso questa mania di parlare continuamente ma quella volta, invece, l'era quasi piaciuto fare solo l'ascoltatrice. Era come se quel ragazzo avesse intuito che di discorre non ne avesse avuto molta voglia e che la facesse distrarre in quel modo dai pensieri che la tormentavano.
Forse era stato il modo in cui parlava: allegro, frizzante e diretto o forse era stato il fatto che non l'avesse fatta sentire come l'estranea che era, in tutti i modi, in quella occasione aveva lasciato da parte il senso di inadeguatezza che ultimamente l'accompagnava a braccetto.
Perfino nei momenti di silenzio non aveva sentito il senso del disagio.
Era stato un momento per nulla sgradevole. Due dettagli, per precisione, aveva rivissuto mentalmente con più frequenza degli altri: il suo sguardo e il suo sorriso.
Il primo perché aveva realizzato, imbarazzata, di essersi più volte soffermata con fare ebete a fissargli gli occhi. Si sarebbe presa a randellate con una pala da giardino per la figura idiota che aveva fatto ma nel momento in cui aveva compiuto tale azione non se ne era proprio resa conto. La ragione per cui l'aveva fatto era ancora più imbarazzante, ogni volta che ci pensava si arrossava intorno agli zigomi. Il suo sguardo le aveva fatto ricordare suo padre.
Era stato uno sguardo attento ma non invadente, vivace, limpido, semplice. Anche suo padre la guardava in quel modo, con la stessa identica intensità, ogni volta che lo faceva era come se le dicesse che era davvero interessato alla sua esistenza. Bill le aveva fatto lo stesso effetto o meglio le faceva lo stesso effetto.
Per quanto riguarda il sorriso, stentava a credere che esistesse qualcuno in grado di non rimanere colpita da una cosa simile. Era enorme: una fila infinita di denti bianchi, aperti in un'espressione così assurdamente gioiosa e infantile. Come quella dei bambini piccoli che sorridono felicemente per la più piccola stupidaggine. Era un sorriso che l'aveva spinta a chiedersi se era umano farne uno del genere.
Bill aveva sorriso spesso mentre erano insieme, tra un argomento e l'altro, come se non riuscisse proprio a trattenersi dal farlo. Nei confronti di quel sorriso, Lyric, da una parte aveva sviluppato un certa ammirazione, dall'altra un po' di fastidio.
Il motivo principale per cui gli stava alla larga da quando era entrata nella sua classe era proprio il fastidio che gli dava la presenza di Bill. Non c'entrava nulla l'averla aiutata, non c'entrava neanche lui se per questo, era tutto nella sua testolina bacata.
Il fatto era che, se gli stava troppo accanto, si sentiva come se venisse rimproverata. Lei che non ricordava neanche come si facesse più a sorridere, si biasimava da sola quando guardava Bill, sempre sorridente e sempre allegro. Non gli piaceva essere costretta a vedere in faccia la sua debolezza, sapeva di esserlo ma questo non significava che volesse averci a che fare. In particolare odiava che per colpa di uno sconosciuto dovesse affrontare i suoi problemi. Voleva tenerli tutti chiusi dentro di sé, non farli mai uscire allo scoperto, ormai aveva smesso di combattere.
Per questo ignorava Bill Kaulitz, quasi lo detestava per come riuscisse a mandarle in palla il sistema nervoso. Lui era ciò che doveva essere lei, lui era ciò che era stata un tempo lei, lui le ricordava ciò che non era più.
Era un continuo promemoria, il post-it della sua attuale condizione di, come aveva detto sua nonna, esserino malinconico. Non le piaceva, non le piaceva per niente.
Quando Tom l'aveva accusata di nascondersi non aveva avuto tutti i torti, ma non era in vena di dimostrare il contrario. Preferiva essere affiancata dall'appellativo di codarda piuttosto che dover sostenere la presenza di quell'essere umano chiamato Bill Kaulitz. Era molto più semplice che tirare fuori il coraggio.
****
La mattina seguente all'incubo notturno era particolarmente stressata.
I sorrisi luminosi, le chiacchiere spensierate e le persone che producevano tali gesti erano una vista che la urtavano. Avrebbe tanto voluto che sparissero tutti quanti, voleva solo che scomparissero quei maledetti estranei che la circondavano. Sarebbe stata in pace se li avesse visti circondarsi di una nuvola bianca, fare puff e poi non vederli più. Erano asfissianti.
Più volte nel corso della mattinata fu tentata di chiamare sua zia e farsi venire a prendere, per porre fine a quel tormento ma ogni volta una parte del suo cervello le faceva cambiare idea. Principalmente per evitare di far notare alla sua tutrice di quanta instabilità fosse pregna la sua mente e quindi evitare che a sua zia venissero strane idee: chiamare uno strizzacervelli, per esempio.
Lyric odiava gli psicologi, con tutto il suo cuore.
Odiava il modo di finta comprensione con cui la guardavano, quando in verità la studiavano di sottecchi come una cavia. Gli analisti le mettevano ansia, la facevano sentire “anormale”, sbagliata. Un'altra brutta esperienza che le aveva fatto vivere quella santa donna di sua nonna Cassandra. Aver frequentato settimanalmente, per due mesi, degli specialisti non l'aveva mai aiutata. Se solo quella matusalemme avesse compreso che bastava parlare a quattrocchi tra di loro per poterla aiutare, non avrebbe sviluppato una avversione così aggressiva nei confronti di quel tipo di medici.
Decise quindi di sopportare l'indescrivibile tortura che era la scuola.
Persino Tom non osò rivolgerle una delle sue battute abituali, quando la incrociò in mezzo ai corridoi. Forse fu più per il secco “Dì soltanto una parola e ti faccio diventare un eunuco” che Lyric gli rivolse appena lo vide avvicinarsi, a frenare la sua lingua ma di fatto il rasta ebbe la “straordinaria” sensibilità di scorgere il suo malumore.
In verità, ciò che l'aveva fermato era stato il fatto che per la prima volta da quando conosceva quella rompiballe di Lyric Hörderlin, aveva notato sul suo viso qualcosa a cui non aveva mai dato peso.
Mentre la schiena della ragazza scompariva dietro un angolo, Tom era rimasto immobile nella posizione in cui era stato lasciato, con il pensiero rivolto a ciò che aveva detto una volta Bill. Era stato un commento di una settimana precedente, al ritorno dalla sala prove.
“È sempre triste, sai?” se ne era uscito il gemello minore dopo un po' che camminavano in silenzio.
Tom non dovette nemmeno chiedere a chi si stesse riferendo.
“Lo nasconde piuttosto bene, però, dopo molto tempo passato ad osservarla me ne sono reso conto.” aveva proseguito increspando le labbra pensieroso “Lyric soffre.”
Per la prima volta Tom comprese cosa avesse voluto dire suo fratello e per la prima volta il silenzio e il gelo di Lyric gli apparvero per quello che erano: maschere.
Si sentì un vero idiota a non esserci arrivato prima. Sì sentì talmente stupido che quasi si stupiva della sua totale mancanza di spirito di osservazione. Era così sorpreso dalla scoperta della sua deficienza che soltanto una volta che la campana di fine intervallo suonò, si accorse di essere ancora piantato in mezzo al corridoio, rivolto verso il punto in cui Lyric si era volatilizzata. Il cervello gli si era così svuotato che ci mise due minuti contati prima di tornare alla realtà e comprendere di aver sprecato l'intera pausa a fare la bella statuina. Ci mise altri due minuti per rendersi conto che essendo dall'altra parte della scuola rispetto alla sua classe, avrebbe ricevuto l'ennesima paternale dal professore di tedesco sull'importanza di arrivare puntuale. Inoltre, dopo altri due minuti, mentre cominciava a incamminarsi molto lentamente, si avvide di una idea sconcertante.
“Cazzo fottuto...” esclamò rivolto a se stesso.
Già. E il re dei tonti doveva essere suo fratello.
***
L'aveva combinata grossa.
Questa volta era proprio stata una azione avventata, anzi no, l'azione più stupida fatta nella sua giovane vita e per di più aveva un'emicrania atroce. Non sapeva proprio dove trovasse la forza di stare in piedi, forse il suo corpo si muoveva per inerzia oppure era sostenuta da un'energia di conservazione a cui non aveva mai fatto caso. Magari il fatto che i suoi nervi fossero andati tutti a puttane significava che il suo corpo se ne stava là seduto solo perché, ormai vuoto come un vaso, non poteva effettivamente muoversi.
In tutti i casi il fattaccio era stato compiuto e non le restava che sostenerne le conseguenze. O accidenti alla sua dannata instabilità psico-emotiva!
E soprattutto accidenti a quella fogna ambulante di Doris Gruguer.
Se non fosse stato per il veleno che aveva sputato a mitraglietta su di lei, forse non avrebbe perso i suoi freni inibitori e forse, in quel momento, non avrebbe dovuto sostenere lo sguardo contrariato del signor Hertz. Quell'anziano signore che rappresentava la massima autorità dell'istituto, era il preside, così all'apparenza innocuo e pieno di bontà (quest'idea forse era dovuta al suo lucido cranio pelato, non sapeva perché ma riteneva che le persone pelate avessero ricevuto abbastanza disgrazie nella vita per via della perdita dei capelli, che dovevano per forza aver sviluppato una pazienza ascettica) celava un atteggiamento intimidatorio quasi marziale.
Aveva così mal di testa ed era ancora così scossa dalla rabbia che non era particolarmente ricettiva nei confronti della paura che, in teoria, avrebbe dovuto provare.
Già, evidentemente i suoi neuroni dovevano proprio godersela quella improvvisa vacanza nel paese dei balocchi. Stupidi neuroni! Stronzissimi vigliacchi! Abbandonarla a quel suo destino infame...naturalmente il fatto che facesse tali pensieri contro le sue stesse cellule celebrali denotava la sua condizione di totale follia.
“Si rende conto della gravità del suo comportamento, signorina Hörderlin?” la voce del preside Hertz si fece finalmente sentire dopo lunghi minuti di attesa.
Lyric sbatté gli occhi cercando di comprendere quello che aveva appena detto. Annuì fingendo di aver capito, il suo evidente crollo psitico le aveva succhiato via tutta l'energia. Era stanca e per di più le pareva che il suo cranio da un momento all'altro si sarebbe frantumato in tanti pezzettini. Era quasi certa di percepire le crepe che si allungavano tra le ossa.
“Stupida oca!” pensò con rabbia, rivolgendosi a Doris. L'idiota patentata all'origine del suo attuale problema
“Stupidissima deficiente...fanculo!” proseguì mentalmente.
“Episodi simili non dovrebbero verificarsi all'interno di istituti scolastici.” Lyric osservava le labbra del preside, come se avesse potuto capire cosa stava dicendo in questo modo. Peccato che non sapesse assolutamente leggere il labiale.
“Quindi se lo avessi fatto fuori dalla scuola sarebbe stato assolutamente legittimo? Me lo ricorderò la prossima volta che mi metterò a prendere a schiaffi qualcuno.”
Il preside aprì la bocca completamente allibito e non fu l'unico. Nel momento stesso in cui ebbe messo punto alla frase si era accorta di averla detta. Ma cosa le veniva in mente?
Una vena molto vicina al suo cranio cominciò a pulsare, non era un bel segnale.
“Come, prego?”
“Ho detto che la prossima volta che mi metterò a prendere a schiaffi qualcuno le assicuro che mi accerterò di essere ad almeno tre metri fuori dalla proprietà scolastica.”
Era come se si fosse sdoppiata: dentro al suo cranio, rinchiusa dentro una stanza vuota, la Lyric razionale osservava la sua vita su uno schermo gigante mentre là fuori, nel mondo reale, la Lyric che aveva il crollo di nervi agiva senza alcun tipo di controllo.
Quella che al momento stava parlando non aveva alcuna intenzione di starsene zitta. A quella là fuori non gliene fregava più niente di nessuno. Quella là fuori stava imboccando ad occhi chiusi l’autodistruzione.
“Signorina Hörderlin, mi stia a sentire…” La Lyric dentro alla testa, mettendo le mani sullo schermo, pregò con tutto il cuore che non avesse veramente intenzione di dire quello che aveva sulle punte sulle labbra. La supplicò di non dire nulla.
“No. Senta signor Hertz, stia a sentire me.” No, nulla da fare. Era lanciata, nessun freno
“Quello che ho fatto è stato assolutamente legittimo. So perfettamente che la violenza non è mai una soluzione, però non me la sento di dirle che sono dispiaciuta dell’accaduto.”
Il suo corpo vuoto, quel involucro di carne e sangue, prese a tremare. La rabbia non se ne era andata, non ancora. Bruciava ancora.
“Non mi giustificherò in nessun modo, perché non mi pento di esser venuta alle mani con quella vipera.”
Doris Gruguer, gatta morta e reginetta delle barbie snodabili della sua classe, era praticamente priva di qualunque tipo di sensibilità. Quando quel giorno le aveva rivolto la parola per stuzzicarla come al suo solito, non aveva previsto che Lyric avrebbe reagito in quel modo, non lo aveva previsto neanche la diretta interessata, figuriamoci quell'oca.
Solitamente la ignorava nel modo più calmo possibile ma quel giorno le sue parole erano state le gocce che avevano fatto traboccare il vaso. Sapete la storia delle ampolle con i senni delle persone racconta da Ariosto nel “L'Orlando furioso”? Beh, il suo senno era stato imbottigliato proprio nell'istante in cui Lyric non aveva più retto.
“Per quanto mi riguarda, se potessi farlo ancora una volta, non ci penserei due volte a prendere nuovamente Doris Gruguer e darle tutti i santi schiaffi di cui ha bisogno!” la sua voce aveva cominciato ad alterare di volume.
“Signorina Hörderlin, la prego, mantenga la calma…”
“No! Non ho alcuna intenzione di mantenere la calma!” batté i palmi delle mani sulla lucida superficie della scrivania che la divideva dal preside Hertz “Doris Gruguer ha sputato una miriade di cattiverie nei miei confronti. Cose che riguardano la mia vita privata!” Si alzò dalla sedia su cui era seduta, facendola cadere con un sonoro tonfo “Cose che non dovrebbe neanche sapere! Cose che per me sono importanti, signore. Quindi non mi venga a dire che il mio comportamento è stato scorretto!” Sembrava una fiera pronta ad attaccare. Naturalmente non lo avrebbe fatto, però restava in qualche modo inquietante che una ragazzina di quattordici anni potesse contenere una tale carica aggressiva.
Come quella gallina sapesse del fatto che i suoi genitori fossero entrambi morti lo avrebbe scoperto ma a parte questo dettaglio, niente le aveva dato il diritto di dire quelle cose.
“Poverina, dovremmo comprenderla, voglio dire: è un’orfana. Non ha nessuno al mondo, ormai. Per questo si comporta in modo tanto freddo. È completamente sola.” Veleno.
Pure gocce di veleno sparse su di lei senza preavviso.
Lyric si era bloccata, con gli occhi spalancati dalla sorpresa più totale. Completamente sconvolta. Come faceva a saperlo? Perché stava dicendo quelle cose?
Quelle domande non contarono più molto, perché quella ragazza aveva continuato a parlare di fatti suoi con voce squillante e fastidiosa, come una esperta pescivendola, davanti a tutti. Aveva sparso ai quattro venti la sua vita, la sua solitudine, i suoi sentimenti.
“Non aveva un posto dove stare. Sai, Clarisse? La famiglia di sua madre la appioppata a quella di suo padre. Mi hanno detto che li hanno praticamente costretti a sorbirsela. Non ti sembra una cosa patetica?”Da qualche parte, in un angolo del suo cervello, qualcosa si era spezzato.
“Patetica?” si era ripetuta mentre concentrava tutto il suo essere alla calma
“Chi sei tu per dirmi queste cose? Chi ti credi di essere?” Tutte quelle parole erano inutili. Erano superflue, non c’era bisogno di rivelarle al mondo. Doris Gruguer non aveva nessun diritto.
“Non ti fa pena? A me molto. Voglio dire, nemmeno la sua famiglia la vuole tra i piedi. Non la vuole proprio nessuno.” Shiaff! Diretto e conciso, proprio così, uno schiaffo perfetto. Abbastanza forte da mandarla a cozzare contro il muro di fianco e sufficientemente veloce per impedirle qualunque tipo di reazione.
Uno schiaffo perfetto.
Lyric l'aveva presa per le spalle, inchiodandola al muro
“Sei una stronza!” le aveva detto senza urlare, voleva evitare di scendere al suo livello
“Sei solo una viziata ragazzina di provincia che crede di essere superiore solo per il suo denaro. Hai sbagliato persona a cui pestare i piedi!”Doris avrebbe potuto stare zitta e evitare tutto quello che sarebbe successo dopo. Invece quelle grandissima bastarda le rivolse un sorriso maligno
“Che c’è? Difficile sopportare la verità? Mi dispiace mia cara addormentata nel bosco, la realtà fa piuttosto male. Avresti dovuto accettare la mia amicizia quando te l'avevo offerta. Ora tutti sanno che sei solo una patetica orfana.” Le persone sono in grado di compiere le più grandi nefandezze per compiacere i propri desideri. Sono in grado di calpestare qualunque cosa gli possa capitare sotto i piedi. Sono capaci di non avere pietà.
Doris Gruguer semplicemente rispondeva a questa descrizione. Se non otteneva ciò che desiderava, lo distruggeva. Lyric si era rifiutata di diventare l'ennesima amica-lecchina del suo seguito, allora doveva essere estirpata come l'erbaccia ai cigli delle strade.
Ecco, semplice.
Quello che accadde dopo, fu uno scontro piuttosto rumoroso, niente di veramente violento ma neanche una passeggiata a ciel sereno. Ci volle l'intervento di due insegnanti per fermare Lyric dal ridurre quella bambola bionda in brandelli. Non che quella si fosse lasciata assaltare senza difendersi ma tra le due Lyric era la più motivata a spezzare le ossa. Le aveva procurato parecchie abrasioni e graffi, per non parlare di un gigantesco livido sul volto. Lyric, invece, si era rimediata solo qualche graffietto sulle braccia e un segno rosso intorno al collo, marchio distintivo di quando Doris aveva cercato di strozzarla.
Naturalmente furono entrambe spedite in presidenza con effetto immediato.
Doris era stata la prima a essere ricevuta e naturalmente se ne era uscita con una lagnosa solfa da vittima tragica, il preside credendo che fosse troppo sconvolta per sostenere una spiegazione sull'accaduto, l'aveva mandata a farsi curare in infermeria. Mentre a Lyric era toccata la corte d'inquisizione.
“Mia zia glielo ha spiegato non è così?! Glielo ha spiegato il motivo per cui sono venuta in Germania?! Non è così?” Lo urlò come se comportandosi in quel modo avesse potuto spiegare tutta la sua rabbia, tutta la sua frustrazione. Come se quell'uomo avesse potuto capire anche solo per un secondo ciò che la uccideva. Ogni secondo, sempre più affondo.
“Signorina Hörderlin...io, beh...” il signor Hertz balbettò “Posso solo immaginare come si sente in questo momento. Una perdita del genere...naturalmente...”
No, non capiva. Non aveva minimamente prestato attenzione.
“Doris Gruguer ha infierito su di me raccontando ad estranei la mia vita.” parlò molto lentamente, al ritmo del suo cuore, con una stanchezza infinita “Quindi per quanti discorsi su etica, morale ed educazione può snocciolarmi non mi riterrò mai colpevole di alcun reato. Al momento me ne frego altamente di qualunque regola!”
Voleva andarsene, tornare a casa.
Casa.
Aspetta un secondo, casa non c’è più.
Non c’è più una casa dove andare a rifugiarsi, quel luogo non esiste.
Il suo corpo perse in pochi secondi il suo punto di orbita. L’emicrania esplose e lei divenne di pietra. Smise di parlare e fissò il preside non avendo più parole.
Era tutto insensato.
“Qualcuno, qualcuno venga a salvarmi.”Il preside Hertz prese un sospiro, con calma fece segno a Lyric di tornarsene a sedere. Lei ubbidì, raccattò la sedia da terra e si sedette, il suo cervello era sospeso in una nebbia.
“Comprendo che in questo momento sia sconvolta. Che ne dice se ne riparliamo una volta ripresa un po’ di calma? Chiamerò sua zia per informala della situazione e con lei discuteremo come approntare al problema.” Prese una pausa in cui Lyric lo guardò con occhi vuoti “Vada pure a casa.”
Non se lo fece dire una seconda volta. Si alzò dalla scomoda sedia di legno e si diresse alla porta senza mai voltarsi. Una volta uscita camminò come un automa, guardando dritto davanti a sé.
Senza sapere come avesse fatto era già arrivata in classe.
L’ultima campanella era già suonata da un pezzo e tutti i suoi compagni erano già andati via.
Sospirò di sollievo pensando che non sarebbe riuscita a sostenere ancora gli sguardi derisori di quei bambocci.
Ora avrebbe preso le sue cose e se ne sarebbe andata via da quell’edificio, lontana dagli avvenimenti accaduti, lontana dal resto del mondo. Entrò dentro l’aula andando dritta al suo banco, arrivata lì si mise a fissare in trance il legno del tavolo finché dopo qualche secondo cercò la sua borsa dei libri. Non c’era.
“Te lo tenuta io.” Pronunciò una voce.
Un momento, chi aveva parlato?
“Bill…” lo disse prima ancora di voltarsi a vedere chi fosse. Naturalmente qualcuno lassù si divertiva davvero tanto a prendersi gioco di lei.
Cosa ci faceva lì? L’orario scolastico era concluso da ormai mezz’ora e di solito lui scappava più veloce di un centometrista quando si trattava di andarsene.
“Quelle deficienti delle amiche della Gruguer volevano gettartela nel water. Glielo ho sottratta prima che facessero qualcosa.” Spiegò il ragazzo arricciando la bocca in una smorfia di ribrezzo, era schifato dalla meschinità di cui era capace la gente.
Bill stava dall’altra parte della stanza, seduto sopra al proprio banco e con le gambe penzolanti.
Lyric non era certa di essere tornata normale. Era ancora sospesa tra la se stessa razionale e la se stessa irrazionale. Chi al momento delle due stesse effettivamente interagendo con Bill non lo sapeva.
Di una cosa però ne era certa: l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare in quelle condizioni era proprio lui.
“Mi hai aspettato?” Lyric glielo chiese in modo brusco.
“Bhe, sì.” Bill rimase fermo, sbattendo le palpebre
“Potevi anche evitare. Cosa diamine vuoi, eh? Vuoi che ti racconti ogni singola tragedia personale che ho vissuto?! Vuoi sapere veramente se sono un'orfana e se sono stata abbandonata dalla mia famiglia?!” rabbia, solo rabbia, c'era solo questo in lei. Proprio davanti a lui che le alterava l'equilibrio emotivo, proprio con l'unico che avesse mai cercato di avere un contatto sincero con lei, proprio contro Bill non riusciva altro che riversare la sua rabbia.
Rabbia violenta e furiosa. Una rabbia che ruggiva.
“Ehi! Calma! Non pensare che io sia in grado di fare una cosa talmente insensibile!” protestò Bill alzando leggermente la voce.
“Allora cosa vuoi da me?!” Lyric alzò ancora di più il tono. La bestia nera che dimorava nel suo petto si mise a digrignare i denti, una risata divertita “Spiegami cosa vuoi che faccia?!” abbassò il volto verso il pavimento. Ci fu una pausa di qualche nanosecondo, la sua mente vagò in un indefinito spazio di confusione.
“Perché non mi accetti per quello che sono?” lamentò in una supplica.
“...io non ho mai fatto niente del genere. Lyric, di cosa stai parlando?” Bill ebbe il fugace dubbio che la ragazza non si stesse rivolgendo a lui.
Infatti Lyric aveva volto le ultime domande alla bestia nera che si era risvegliata in lei. Quella creatura era la sua paura, una creatura dal volto ben preciso.
“Ehi, sei sicura di sentirti bene?” Bill scese dal banco e si avvicinò con pochi passi. Le sfiorò il volto con una mano facendola così risalire verso i suoi occhi.
Difficile.
Era tremendamente difficile guardarlo negli occhi. Perché quando il tuo unico desiderio è nasconderti allo sguardo dell'intero universo, un Bill Kaulitz che ti osserva senza mezze misure dritto negli occhi è semplicemente una prova troppo difficile da sostenere. Persone più coraggiose di lei e magari meno stressate di lei, in quel momento, non ce l'avrebbero fatta comunque.
“Tenersi tutto dentro alla lunga è stancante.” Bill sistemò una ciocca dei capelli neri di Lyric dietro il suo orecchio, fu un gesto lieve e delicato, un gesto troppo intimo “Non serve assolutamente a nulla.” la voce di Bill fu di un cadenza sottile e quasi lenta, come una dolce ninnananna.
“Potresti perfettamente evitare tanti scrupoli e mandare a fanculo tutto ciò che non sopporti. Lo preferirei sai.” nel dirlo Bill inclinò leggermente la testa, aprendo sul viso l'abbozzo di un vago sorriso di conforto “Molto meglio che vederti sempre così triste.”
“Sei troppo vicino. Troppo.” Questo pensiero fu come una spina dall'allarme, un lampo spaventoso nella nebbia del suo inferno. Doveva fermarlo.
“Perché lo fai? ” Bill aggrottò la fronte formando una particolare rughetta sopra al sopracciglio destro. Quello che conteneva il suo percing. Era un'espressione di così infantile perplessità, simile a quello di un bambino che si chiede il perché delle cose.
“Te lo già detto un milione di volte se non mi sbaglio. Voglio la tua amicizia.” nel dirlo fu come se dicesse qualcosa di pateticamente scontato, quasi ridicolo doverlo spiegare ancora una volta. Per Bill era ormai una verità concreta e reale. Ne era proprio convinto.
Le finestre rispecchiavano un cielo che a poco a poco diventava sempre più grigio plumbeo. Le nuvole attanagliavano in una morsa gli ultimi raggi del sole e la luce che veniva emanata aveva un che di spettrale.
Una luce morente.
“Rinuncia.” decretò Lyric in quello che all'inizio era solo un fievole respiro tra le labbra.
“Rinuncia.” ripeté divenendo più diretta.
Si allontanò da lui, andando a prendersi la borsa e la giacca “Rinuncia, è per il tuo bene.” calcava sempre di più sulla parola -rinuncia- come se fosse un verdetto incontestabile “Rinuncia, Bill. Se non mi sbaglio, te lo detto un milione di volte anche io. Sono l'ultima persona che si dovrebbe avere per amica.” indossò la giacca senza mai guardarlo in faccia. Perché avrebbe ceduto se l'avesse fatto. Gli avrebbe permesso di provarci, gli avrebbe concesso di starle accanto.
Non voleva esporsi.
Bill seguì tutte le sue mosse, completamente interdetto dalla durezza delle sue affermazioni. Era così radicata in lei la convinzione di non poter accettare una loro amicizia che rifiutava a priori di provarci. Per lui invece era vero il contrario, lui era così certo che tra loro un rapporto del genere poteva esistere, anzi, c'era già.
Forse distorto, complicato e momentaneamente unilaterale ma per Bill era più che sufficiente.
L'ultima cosa che sarebbe riuscito a fare sarebbe stata ignorarla. Invece Lyric era sicura di poterlo fare e questo portò una certa dose di irritazione in Bill.
Odiava essere ignorato.
“Perché?!” proruppe fermandola prima che mettesse piede fuori dall'aula. “Perché dici queste fottutissime stronzate?” l'influenza volgare di interi pomeriggi con Georg e Tom si fecero sentire in tutta la loro forza “Perché stiamo parlando di immani cazzate!” Bill aveva alzato la voce, nella sua tipica modalità di inizio incazzamento, che il suo gemello definiva molto affettuosamente “isterismo pre-mestruale”.
“Hai sempre detto così ma non mi hai mai spiegato perché. Voglio una ragione! E la voglio ora!”
Lyric prese tutta l'energia che le rimaneva, determinata a porre fine ai loro contatti con un taglio netto e deciso. Un rifiuto fatto con estrema decisione doveva per forza funzionare.
“Perché sono un essere completamente diverso da te!” si mise ad urlare anche lei, divenendo leggermente rossa in viso, quasi le tremarono i denti mentre lo diceva.
“Buttiamo tutto all'aria, distruggiamo tutto quanto, ogni cosa.” “Siamo completamente agli opposti. Tu sei sempre così dannatamente sorridente, allegro e spigliato! Io invece sono gelida, silenziosa e con un gran desiderio di buttarmi in mezzo a delle macchine in corsa!”
“Mostragli quanto sei penosa. Fagli vedere le ragioni per cui tutti ti abbandonano. Dimostragli che hanno ragione quelli che pensano di te in questo modo. Rivelagli la verità che ti ha inculcato quella persona!” “Non possiamo avere un rapporto di amicizia noi due! Non possiamo perché sono fatta così, lo dicono tutti! Sono un esserino malinconico, Bill. Un esserino degno solo di essere abbandonato a se stesso.” mentre sputava tutte queste parole lo guardò dritto negli occhi, con sfrontatezza e aggressività, come se lui non potesse ribattere con nessun argomento a ciò che stava dicendo “Io non mi merito il tuo interesse, lo dico per il tuo bene. Rinuncia.”
“Respira, ricordati di respirare, non svenire proprio ora. Trattieniti.”Tra me e te c'è un muro.” fu il verdetto finale.
Poi scappò, veloce come avrebbe voluto essere nel sogno, il più lontano possibile.
Quello che successe dopo fu qualcosa di altamente imprevedibile. Quasi privo di logica. Assolutamente contro ogni razionalità. Ma tanto si sapeva che Bill Kaulitz era un alieno.
Gli ci volle un minuto intero per ricapitolare velocemente ciò che era successo in quell'aula, gliene servì la metà per accendere in lui una rielaborazione approfondita dei fatti, quasi un decimo del tempo per arrivare ad una conclusione.
L'impulsività mista ad un sentimento combattivo di testardaggine primitiva lo portò a prendere il suo zaino e cominciare a correre all'inseguimento della ragazza. Con un pensiero molto chiaro in mente:
“Col cazzo che mi lasci così!” Fuori intanto aveva cominciato a piovere.
***
Tom se ne stava sotto la tettoia, all'ingresso della scuola, in attesa che suo fratello decidesse di comparire. Dovevano andare alle prove della band ed erano fortemente in ritardo. Immaginò con una smorfia sul viso la paternale assurda che avrebbe fatto quel rompicazzo di Georg. Come se lui non arrivasse mai in ritardo, rimbambito di un bradipo sempre mezzo addormentato!
Mentre rifletteva sul modo di chiudere la fogna a quello scemo, nel momento stesso in cui avesse cercato di sparare una delle sue boiate, una presenza gli passò accanto con velocità quasi disumana, facendogli quasi perdere l’equilibrio.
“Ehi! Ma che caz...” si bloccò perché la riconobbe.
Era Lyric e stava piangendo.
Anche se l'aveva scorta per un secondo, quelle che aveva visto erano proprio lacrime. Rimase basito chiedendosi cosa diamine fosse successo per ridurla così. Non si era fermata neanche per scusarsi, cosa che invece avrebbe fatto in una situazione normale e aveva continuato a correre verso i cancelli. Totalmente incurante della pioggia che aveva iniziato a picchiettare verso il suolo.
Era la prima volta che la scorgeva piangere. In un mese che la conosceva (conoscere per modo di dire) era la prima volta che scorgeva in lei una debolezza tanto evidente. Prima di quel giorno aveva sempre visto la Lyric agguerrita.
“Chissà cosa le è preso?” si chiese sinceramente curioso di sapere la verità. Si sistemò sulla spalla lo zaino che il passaggio della ragazza aveva fatto calare ma, nell’istante in cui lo fece, qualcun altro pensò di venirgli nuovamente addosso.
Questa volta era Bill.
“Ehi! Bill! Ma cosa vi prende? Prima la Hörderlin e adesso tu!” il fratello si volse verso di lui mostrandosi in tutta la sua alterata condizione emotiva.
“Dov’è andata?” chiese in una sottospecie di ruggito da fiera. Tom rimase a fissarlo sorpreso dall’espressione che si ritrovò davanti, sbatté ritmicamente le palpebre in una muta riflessione.
In un punto non preciso del suo encefalo, due neuroni si mandarono un impulso elettrico con cui Tom poté arrivare a comprendere.
“Cosa le hai fatto?” domandò lui, invece di rispondere alla sua domanda “Stava piangendo.” aggiunse con le pupille spalancate, era come se si fosse trovato davanti ad un fenomeno unico nel suo genere, era la prima volta di fatti che sentiva qualcosa di estremamente nuovo. Qualcosa che avrebbe recepito soltanto in futuro.
Bill rimase fermo “Stava piangendo?” chiese non avendo altre parole.
“Sei stato tu.” esclamò Tom corrucciando le sopracciglia, in una affermazione colpevolizzante.
Nessuno dei due stava difatti interagendo con quello che l’altro diceva. Erano su due piani completamente diversi.
“Merda!” proruppe il ragazzo “Cazzo!” Bill declamò una successione riguardevoli di imprecazioni alquanto scurrili prima di tirare il suo zaino in faccia a Tom e riprendere a correre.
“Dove vai?!” gli urlò dietro l’altro. Bill si voltò verso di lui soltanto quando arrivò ai cancelli.
Tom sospirò in un moto di rassegnazione “A sinistra!” urlò il rasta ponendo così risposta al dubbio dell’altro.
Bill riprese a correre, lasciando il gemello turbato e privo di spiegazioni.
La pioggia prese a cadere più forte.
***
Non aveva la minima idea di dove stesse andando.
Semplicemente correva, correva il più forte possibile, con l'insensato pensiero di potersi annullare a forza di correre sempre più forte. Se avesse usato tutte le sue energie nell'azione di correre, magari, sarebbe arrivata veramente a dissolversi nell'atmosfera.
Questo pensiero fantasioso nel fondo della sua coscienza le dava la spinta a continuare.
Se si si fosse fermata sentiva che sarebbe stata spacciata, sentiva che si sarebbe bloccata e avrebbe smesso di sentire di essere viva. Ricercava l'inesistenza eppure voleva a tutti costi mantenere la vita, un classico dilemma, oppure, della semplice irrazionalità.
A rendere le cose più difficili ci si era messa la pioggia: un secondo prima le gocce d'acqua cadevano come piccole tintinnanti pietre trasparenti, fievoli, senza dare fastidio mentre ora scrosciavano a terra fitte e pesanti. Era quasi completamente bagnata e questo non la aiutava a correre. I suoi naturali capelli a boccolo si erano tramutati in tanti umidi ricci, appiccicati fastidiosamente al suo capo mentre il resto del corpo veniva sottoposto ad una doccia indesiderata.
Correre risultava molto più faticoso se si contava la pesantezza degli abiti inzuppati ma seppur con difficoltà, non pensava in nessun modo di smettere.
I suoi passi avanzavano uno dopo l'altro, sempre in avanti, incuranti di perdersi tra le vie d'asfalto. Il mondo aveva smesso di emettere suono, dentro le sue orecchie non arrivava il più piccolo rumore. C'erano solo la pioggia e lei sotto di essa.
Sarebbe dovuta restare davanti all'ingresso della scuola, aspettando l'arrivo della sua cadillac ma una volta che si era messa a correre qualunque altro pensiero era stato estraniato.
Il cuore batteva con il ritmo incalzante di un tamburo giapponese. Primitivo e spasmodico, tramortente ed impressionante ed ogni singolo respiro era una lama che feriva da parte a parte.
Ad un certo punto, senza che lei vi avesse messo il minimo controllo di volontà, i piedi rallentarono l'andatura e dopo qualche secondo si fermarono del tutto.
In quel momento alzò il volto verso l'alto, rivolgendo il mento verso l'immensità di quel cielo piangente. Durante quel contatto visivo espirò un soffio lunghissimo, proveniente direttamente dalla profondità dei suoi polmoni annacquati.
Cosa doveva fare? Anzi no: cosa voleva fare?
Bella domanda. La risposta però non era molto più semplice da dare.
Poteva starsene ferma lì e continuare a farsi il più freddo bagno all’aperto della storia, non era male come opzione, però c’era l’inconveniente che era del tutto sconsiderato. Avrebbe finito di sicuro per ammalarsi…
Ma cosa gliene fregava di ammalarsi oramai?
Le gocce lasciarono lunghe scie invisibili e fredde sulla sua pelle, attraversando incontrastate il suo viso, come su una statua. Erano così leggere eppure scaturivano un suono tanto forte, tutta quella pioggia rumoreggiava in modo frastornante.
Fu proprio nel momento in cui sentiva che sarebbe caduta a terra, ormai spossata, che lo vide. Correva, proprio come l'altra volta e proprio come un mese prima la stava rincorrendo. Non ci poteva credere ma come aveva fatto a raggiungerla?
Perché?!
Perché stava ancora inseguendo lei?!
Non c'era ragione! Nessuna ragione sensata per inseguirla! Ma cosa aveva in testa quel Bill?
Una serie lunghissima di domande si produssero una dietro all'altra, nei pochi istanti che li separavano dall'essere uno di fronte all'altro. Domande dettate dallo shock, a cui seguirono ragionamenti su come affrontare il nuovo attacco imminente.
Bill, che in lontananza era apparso correndo, rallentò man mano che la distanza tra di loro diminuiva. Una cosa però non mutò: la sua espressione. Era un concentrato indefinito di emozioni che vibravano ad un centimetro dalla superficie, sempre più vicini ad esplodere.
Lyric avrebbe voluto mettersi nuovamente a correre, fuggire le sembrava un'idea più che consona al suo poco entusiasmo nel volere discutere nuovamente con lui.
Non lo fece o meglio non poté farlo, perché Bill la inchiodò con un'occhiata appena fu ad un passo da lei.
“Non ti azzardare, sai?” fu la prima cosa che disse il ragazzo tra un respiro e l'altro mentre riprendeva fiato. A quel tempo Bill e Lyric erano ancora alti nello stesso modo, quindi mentre si fronteggiavano sotto alla pioggia i loro occhi si guardarono sempre direttamente.
Da una parte il nocciola sfumato di ambra, deciso e irremovibile in quello che desiderava. Dall'altra il blu incantevole di uno zaffiro, stanco e spaesato .
“Non ti azzardare mai più a lasciarmi in quel modo.” la voce di Bill suonò inizialmente aspra “Non provarci mai più.” il suo pomo d'Adamo fece un leggero movimento su e giù mentre si prendeva una pausa “Perché ne ho già ascoltate troppe di stronzate nella mia vita!”
“Bill..” iniziò Lyric, cercando di far uscire una qualche voce dalla gola. L'acqua veniva giù così forte che quasi non riuscivano a tenere gli occhi aperti.
“No! Ora mi lasci parlare!” alzò la voce, spostando poi i capelli bagnati che gli impedivano la visuale “Hai detto che tra di noi c'è un muro! Hai detto che sono sempre allegro, spigliato e sorridente...” assieme alla voce alzò anche le mani, agitandole nel classico modo di quando riteneva che le parole dovessero essere supportate dalla gestualità fisica.
“TUTTE FOTTUTISSIME STRONZATE!” lo buttò fuori con tale irruenza che Lyric credette che da un momento all'altro lui sarebbe scoppiato. L'aveva fatto arrabbiare, era evidente eppure vederlo così incazzato era uno spettacolo affascinante.
Era stata lei?
Era stata proprio lei a far uscire quel Bill?
“Io.” Bill puntò un dito verso di sé “Non sono sempre sorridente! Io...” ripuntò il dito verso se stesso “Non sono sempre allegro! Io...” scosse la testa in modo febbrile “Non sono sempre spigliato!!”
Se avesse alzato ancora di più la voce avrebbe potuto superare la potenza di un fulmine ma fortunatamente non lo fece “Non sono sempre così! Non sono solo questo, cazzo! Tutti hanno momenti in cui vorrebbero spaccare tutto quanto, pure IO! Merda!”
“Bill...” cosa avrebbe potuto dire per fermare quel fiume in piena?
Non la lasciò neanche proseguire “Io e te non siamo agli opposti per queste tre minchiate! Fammi il favore di trovare altre argomentazioni perché quelle che hai elencato non reggono...” le guance di Bill erano ormai amaranto e tutto quel suo urlare a pieno volume non veniva aiutato di certo dall'acqua a catinelle.
Insistentemente però proseguiva.
C'era una cosa che voleva assolutamente dire a Lyric. Una cosa che gli premeva esternare a discapito di qualunque effetto potesse ottenere dirlo. Era un tipo così lui: o tutto o niente, in qualunque caso non avrebbe mai rinunciato ad essere se stesso. Neanche in quel momento, neanche davanti a un rifiuto.
Bill prese una pausa molto più lunga delle altre, in cui il suo petto si sollevò a prendere l'aria prima del tuffo nelle profondità. Lyric attese, aspettò con gli occhi ormai completamente appesantiti dall'azione dell'acqua, attese come se avesse trovato una risposta.
“Ogni persona a questo mondo è unica, questo lo dico perché ne sono convinto con tutte le mie forze e non perché voglia fare una stupida frase fatta del cazzo.” iniziò Bill con il tono della voce tornato normale “L'unicità significa che siamo anche diversi e questo è innegabile. Quindi, quando hai detto che sei un essere completamente diverso da me, avevi ragione ma questo non vuol dire niente. Non vuol dire affatto che noi due non possiamo essere amici, non è una ragione per cui io dovrei rinunciare a volerlo essere.” deciso e semplice, indubbiamente non si potevano fraintendere le sue parole.
“Non sei tu a potermi dire quando e perché rinunciare a qualcosa. L'unico che può prendere una decisione del genere sono io stesso e nessun altro. So decidere con la mia testa quando rinunciare e perché...” proseguì Bill “E sinceramente non ho proprio nessuna voglia di rinunciare. Ficcatelo nella testa Lyric Hörderlin, il qui presente Bill Kaulitz non rinuncerà solo perché gli gridi addosso quattro cavolate in croce sul fatto che siamo diversi e bla-bla simili. Tra me e te non c'è nessun muro, a dividerci c'è solo la tua paura e nient'altro.”
“Solo la mia paura?” era vero. Lei aveva una paura enorme.
“Finché sarò sicuro di questo, stai certa che mi vedrai sempre insistentemente ronzarti attorno.”
“Perché?” fu la prima cosa che riuscì a dire dopo quel lunghissimo ed incisivo monologo. Non capiva cosa pensare eppure era quasi certa di essere del tutto d'accordo con quello che aveva detto.
Quelle cose che le stava dicendo avrebbe volute sentirle tanto tempo addietro. Nel momento della perdita avrebbe tanto voluto che le persone andassero oltre al muro che si era eretta. Avrebbe voluto che nessuno la bollasse come esserino malinconico, quell'appellativo di sua nonna martellava nella sua testa come un dogma a cui non poteva opporsi. La influenzava a tal punto da seguirla persino oltre Atlantico.
“Perché continuerai a insistere? Perché, anche se tutti gli altri hanno già rinunciato?” nel dire quello Lyric fu ad un passo dal crollare a terra. Non sapeva cosa aspettarsi da lui, non aveva nessuna certezza. Sapeva solo che avrebbe fatto in modo che i suoi nervi resistessero fino alla sua risposta.
Bill alzò gli occhi al cielo pensando alla risposta da dare, dopo qualche secondo di riflessione fece scendere nuovamente lo sguardo su di lei “Perché io non sono gli altri. Io sono Bill e come me stesso desidero continuare ad insistere. Perché fin dall'inizio non sono mai riuscito ad ignorarti.” si spostò nuovamente un ciuffo nero dalla fronte bagnata.
“Semplice, questa è la mia risposta. Se c'è qualcosa che non riesci a distogliere dai tuoi occhi che puoi fare?”
“Già, che puoi fare?” qualcosa nel suo animo cominciò a farle male, non un male doloroso piuttosto un male necessario se messo di fronte alla realtà. Dopo mesi passati sotto sguardi che la ignoravano sempre, di fronte alla dichiarazione di Bill si sentì persa.
“Nulla, l'accetti perché ha attirato la tua attenzione, le vai accanto e cerchi di comprenderla.”
“Perché?” la parola tremò nella sua bocca.
“Perché non vuoi ignorarla. Perché io non voglio ignorarti.”
Quella risposta fu più che sufficiente. Fu la risposta che aveva aspettato a lungo.
Lyric si avvicinò a Bill, allungando le braccia verso di lui. Appoggiò le mani sui suoi avambracci e strinse i palmi attorno ad essi. Molto lentamente posò poi la fronte sulla spalla sinistra di Bill.
Lui non fece il minimo movimento, lasciando via libera alle mosse di lei.
La pioggia precipitava a terra rumorosa come prima, fu per questo motivo che quello che le uscì dalle labbra si confuse nel suono delle gocce che cadevano. Bill però lo udì comunque.
“Grazie.”
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Ecco a voi il terzo capitolo. Uno dei miei preferiti, soprattutto per le ultime scene in cui si mette tutto in gioco e le cose per Lyric e Bill si muovono un poco.
Cosa dire? Al momento non riesco a pensare lucidamente perché è piuttosto tardi e io dovrei andare a dormire xD
Grazie a tutti quelli che leggerano, mi farebbe piacerebbe sapere cosa ne pensate (ovviamente quando avrete tempo.)
Ci vediamo dopo-domani, presumibilmente. Baci!