*Ali Spezzate*

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Shynee
view post Posted on 18/2/2009, 10:49





Perché quando la vita e le persone che ama di più le voltano le spalle, non può fare a meno di sentirsi oppressa, schiacciata da un qualcosa più grande di lei.
Quando non riesce a volare con le sue ali, deturpate dalla pioggia, dalla neve, dalla sofferenza e dall’amore non può far altro che atterrare in picchiata su un terreno freddo e duro, scoprendo altre ferite da dover curare.
E si chiede se esista da qualche parte un sole.
La vita è una lotta, una guerra contro gli altri e contro se stessi, e lei ce la farà, anche da sola.
Imparerà a volare, anche con le ali spezzate.



Prologo



Quel giorno, quella ragazzina aveva 17 anni e camminava senza una meta per il suo paese, il viso costantemente basso, mascherato dai capelli.
Si sfiorò con la mano una guancia e non si sorprese della sensazione di bruciore che generò quel contatto. Tolse la mano e quella parte del viso fu bagnata da qualcosa di caldo e bruciante.
L’ennesima lacrima.
L’ennesima di una serie che stava in bilico nei suoi occhi, per qualcosa che nemmeno lei conosceva. O forse si.
Si, decisamente, la conosceva bene.
“Ma quando finirà...”
L’ennesimo litigio. Anzi no. Non un litigio.
Non sapeva nemmeno lei che cosa fosse successo poco prima. Aveva nella sua mentre impresso il ricordo confuso di quel gesto, il suono sordo di quel rumore. Quella mano ruvida e pesante sul suo viso.
Si asciugò un’altra lacrima disobbediente e si sedette sul muretto basso di cemento che circondava quell’aiuola verde, decorata da qualche siepe che cominciava a mettere i primi boccioli di primavera. Erano illuminate dal sole tiepido che imperava nel cielo azzurro e sereno. Era bella la primavera lì.
Poi ci ripensò.
I ricordi cominciavano a farsi più nitidi, i contorni sempre meno sfocati. Stava razionalizzando.
Poi la scena le apparve nitida in mente.

Una cazzata.
Una stupida, banale cazzata.

Flashback.
- Ma lo vuoi capire che così non risolvi niente? - sbraitò il padre contro di lei, che aveva ancora la penna nella mano tremante, posata su quel quaderno pieno di calcoli – così allunghi solamente! - gridò ancora.
Quel problema di matematica era difficile, troppo. Almeno per lei.
- Papà io ho bisogno di allungare, altrimenti non capisco niente e vado nel pallone. Non posso fare come dici tu - aveva risposto lei, calma. Ma dentro il sangue ribolliva, per la millesima volta. Non gli aveva chiesto di aiutarla in matematica. Non aveva nemmeno l’autorizzazione del giudice di stare in casa propria, quando lei non lo voleva. Perché lei non lo voleva in casa propria, nella SUA stanza, appoggiato alla SUA scrivania.
- io sto cercando solo di aiutarti e tu che fai?! Rifiuti anche il mio aiuto?- continuò lui urlando e agitando le mani. L’espressione sembrava quasi scandalizzata.
Era molto più bravo in matematica, ci giocava e alle volte anche con piacere. Ma lei no. Lei non era come lui e non voleva accettarlo. Lei quella materia la odiava.
Ma lei doveva riuscire. Altrimenti... altrimenti erano botte. Funzionava così anche in molte altre cose.
- papà i tuoi metodi non mi aiutano! Vai troppo velocemente! Se vuoi aiutarmi le opzioni sono due: o vai piano, oppure te ne vai proprio! - aveva sbottato lei. Ma se ne era pentita subito.
Se ne era pentita dopo che si era ritrovata in un momento la testa rivoltata di lato con cinque lunghi e spessi segni rossi su una delle guance. Dietro la chioma rossiccia dei capelli che le nascondeva il viso, gli occhi si bagnarono velocemente. Ma lei sorrise amaramente lasciando che le lacrime le colassero sulle guance. Avrebbe dovuto aspettarselo.
Lei doveva tacere. Sempre.
Altrimenti le prendeva.
Ma quella volta non ce l’aveva fatta.
Si era alzata dalla scrivania ed era scappata chiudendo la porta rumorosamente alle sue spalle. L’aveva inseguita urlandole dietro, ma non era stato abbastanza veloce.

E fu così che si era ritrovata a piangere su quel muretto che l’aveva ospitata tante volte. Accanto a quell’aiuola che l’aveva accolta quando voleva giocare da piccola.
Appoggiò la fronte sulle ginocchia, facendo scivolare i capelli in avanti. Un singhiozzo.
E un altro.
E un altro ancora.
Ed era sola. Sola con se stessa e il suo dolore, i suoi ricordi, che andavano ben oltre un banalissimo schiaffo.
Se solo ci fosse stato qualcuno su cui piangere, se solo avesse avuto una mano amica che la sorreggesse...
Tante volte si era svegliata la notte, nel suo letto scoprendo il cuscino umido e il viso bagnato. In quei momenti aveva desiderato qualcuno che accarezzasse i suoi capelli e scacciasse dalla sua mente le immagini dei suoi incubi. Ma lei pretendeva troppo. Doveva abbassare la cresta e rinchiudersi nel silenzio. Come aveva sempre fatto.

****

Varcò la soglia di casa sua controvoglia.
Appena la madre sentì la serratura scattare, si fiondò da lei e la abbracciò, senza neanche darle il tempo di chiudere la porta d’ingresso.
- Stai bene? - chiese prendendole il viso tra le mani e guardandola accorata. Vale sorrise e soffocò anche una risata, cercando di ignorare il bruciore che le mani avevano generato sfregando sulla sua guancia.
- Certo che sto bene! – sorrise rassicurante e chiuse la porta dietro di se.
La madre le sembrò sollevata e ritornò in cucina, dove una piccola peste di quattro anni stava tentando di rovesciare il piatto di pasta e pesto che doveva essere la sua cena.
La pasta di Shrek la chiamava sempre. E ogni volta entrambe sorridevano.
- Vale... mi dispiace di averti lasciata sola... io non potevo sapere... – cominciò la madre, alludendo alla visita del padre del pomeriggio.
- Non importa mamma.- la interruppe – Davvero non è successo niente. E’ andato via e io sono andata a fare un giro... – mentì evadendo dal suo sguardo.
Lei non poteva sapere, non doveva. Aveva sofferto troppo a causa sua e lei non voleva farla patire ancora. Aveva deciso che le avrebbe risparmiato dolori inutili, per quanto possibile. Aveva deciso che lei stessa non sarebbe mai stata un problema per sua madre, per la sua famiglia.

Vale si chiuse nella sua stanza dopo cena, serrando la porta alle sue spalle.
Riusciva ancora a sentirlo. Riusciva a sentire il suo odore, il rumore di quello schiaffo, di quel contatto violento. Ma dopotutto era solo uno dei tanti, perchè quella volta avrebbe dovuto cambiare qualcosa?
Si sedette alla sedia di fronte alla scrivania e si prese la fronte tra le mani.
Ce l’avrebbe fatta ad affrontare il domani?
Avrebbe saputo fingere che andasse tutto bene, avrebbe saputo chiedere scusa a suo padre, abbassando la testa e lasciando che la sua anima venisse calpestata, ancora?
Si sentiva fragile. Troppo fragile e le mancavano le risposte ad almeno una dozzina di domande.
In quel momento avrebbe potuto sbriciolarsi, friabile come pasta frolla.
Non ce l’avrebbe fatta domani, sarebbe crollata.
Perchè era dura essere ipocrita.
Era dura essere falsa con se stessa e soprattutto con le persone a cui voleva bene. Con le persone che amava.
Era dura far finta di aver rimosso immagini e ricordi che bruciavano terribilmente dentro di lei.

Altro Flashback.

- Lasciami, lasciami ti prego! - urlava disperata.
Era stesa a terra con i polsi bloccati dalla sua mano sulla sua testa. Lui era steso sopra di lei, vagando con la bocca da un punto all’altro del suo corpo quasi nudo.
Sembrava non accusare i colpi che gli dava. Suo cugino era un ragazzo che veniva da anni di carriera militare. E lei, per quanto potesse essere forte non lo sarebbe mai stata abbastanza da potersi difendere.

Non ricordava come fosse scampata a quella tortura.
Ricordava solo una sagoma oscura che la alleggeriva, liberando il suo corpo freddo di quel peso.
Poi qualcuno che la prendeva in braccio e le sussurrava qualcosa. Poi buio.
Si era risvegliata a casa sua, vedendo la figura piangente di sua madre che la fissava.
Ad un tratto, improvvisamente alzò la testa, poggiata sulle maniche maglioncino panna che avvolgeva le sue braccia.
Guardò la stoffa: era bagnata.
E il suo volto non espresse più dolore e disperazione, ma rabbia.
Doveva darci un taglio. Doveva scappare da lì, altrimenti sarebbe impazzita.
Ma non poteva.
Lei era un sostegno per sua madre, erano un bastone l’una per l’altra. Un aiuto reciproco.
Era legata a quel posto, da pesanti catene saldamente ancorate nella terra, le impedivano di evadere. Non poteva abbandonare tutto. No.

Note dell'autrice: bene, non vogliatemene male, ho deciso di postare questa fan fiction anche qui.
E' la mia prima, perciò è scritta da schifo, e anche la trama non è tutto questo granchè. Però ci sono affezionatissima, in quanto rappresenta il mio percorso di crescita. Spero che mi seguirete e che vi affezionerete a questi personaggi tanto quanto mi ci sono affezionata io.
Comunicazioni importanti: la protagonista non sono io. Tutti gli eventi narrati sono rappresentazioni della mia fantasia. Nessuno scopo di lucro. I Tokio Hotel non mi appartengono (magari!).

Edited by Shynee - 4/4/2009, 20:40
 
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Lullaby;
view post Posted on 18/2/2009, 20:19




è bellissimo rileggere una delle ff che amo di più *.*
 
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Fee1702
view post Posted on 18/2/2009, 20:40




Anche io sono contentissimma che tu l'abbia postata! E' bellissima...
 
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rok1
view post Posted on 18/2/2009, 21:05




Stranamente ho un dèjàvou rileggendola, mi sembra di avrla letta, da un altra parte...
 
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Fee1702
view post Posted on 18/2/2009, 21:13




La questione è risolta, questa è l'originale. Non ritiriamo fuori quella storia.
 
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Shynee
view post Posted on 21/2/2009, 10:54




Bene, fatevi quest'altra ventata di felicità XD.
Buona lettura


Capitolo 1.

La sveglia suonò sul comodino trillando rumorosamente accanto al letto.
Vale si mosse con un movimento caldo e morbido sotto le coperte, strizzando gli occhi e massaggiandosi la fronte con la mano. Che noia, era riuscita a prendere sonno appena un paio d’ore prima e già doveva svegliarsi.
Intanto il suono si spandeva per tutta la stanza con fastidiose vibrazioni.
“Ma oggi è domenica...”, ricordò vagamente infastidita.
Prese quella scatola di plastica con un movimento annoiato della mano e pigiò il tasto rosso posto sulla sua sommità senza nemmeno vedere l’orario. La lanciò in un punto indefinito nel buio della sua stanza, un buio che sapeva di mattina, di nuovo, anche se di nuovo non c’era proprio niente.
La luce filtrava dalle fessure della persiana di legno, illuminando fiocamente la stanza. Vale sbuffò e nascose la testa sotto il cuscino. Anche quella notte aveva dormito poco. Ma era stata abbastanza forte da non piangere e si sentiva vagamente orgogliosa di se. Rimase sveglia a godersi l’aria mattutina che odorava di fresco e si stiracchiò, rilassandosi ancora.
All’improvviso il lampo di un ricordo le fece sgranare gli occhi. Si ricordò.
Quel giorno era...
- Oh, cavolo! -
Con uno scatto buttò all’aria le coperte ancora pesanti che si adagiarono calme sul pavimento, frenate dall’aria.
Con i capelli arruffati e il viso provato da ore di sonno non recuperate, aprì l’anta dell’armadio, quella sulla destra appena accanto al letto. Prese quel vestito bianco, lo guardò per l’ennesima volta, appeso alla gruccia nera, che aspettava solo di ospitare il suo corpo. Accarezzò la superficie liscia del cotone e lo buttò sul letto, con un gesto nervoso e deciso allo stesso tempo.
Quello sarebbe stato il giorno del fidanzamento di suo padre. Il fidanzamento di suo padre con quella donna. Sarebbero andati in quella grande sala, con quella grande macchina. Tutto era stato organizzato da lei, tutto doveva essere perfetto. Glielo aveva perfino raccomandato caldamente, aveva perfino scelto il vestito che doveva indossare. Lo stesso che giaceva bianco e innocente su quel letto. Innocente come lei.
O quasi come lei.
Scosse la testa e andò in bagno, fermandosi a fissare la sua immagine riflessa nello specchio quadrato.
Sulla sua guancia non c’era più il minimo segno di quello schiaffo dato solo due giorni prima. Evidentemente la pelle si doveva essere adattata.
Cercò di lavare quella sensazione lasciando scivolare l’acqua su di se dentro la doccia. Si strofinò forte la pelle e il viso, per non sentirsi umida e appiccicaticcia come al solito. Per non sentirsi sporca. E ogni santo giorno si strofinava di più con quel guanto di crine ruvido tanto da arrivare a graffiarsi.
Uscì gocciolante dalla cabina e si recò nella sua stanza, avvolta solo dall’asciugamano. Avvolse i capelli umidi in un pinzettone e diede un altro sguardo al vestito.
Sospirò rassegnata e aprì la zip.

Sua madre le sistemò l’ultima ciocca ramata di capelli nello chignon che li raccoglieva tutti sulla sua testa.
- Ho finito - annunciò sorridente e soddisfatta. Vale si chinò per finire di allacciarsi l’ultima cinghietta delle scarpe argentate pericolosamente alte, in tinta con la fascia che stringeva il suo busto appena sotto il seno. Il vestito scendeva poi libero e candido sulle sue gambe, fermandosi appena sopra le ginocchia.
Si vide riflessa nello specchio: alcune ciocche avvolte in innaturali boccoli sfuggiti alla presa dei ferretti le accarezzavano i lati del viso.
- Sei bellissima – sorrise la madre. Lei non la sentì nemmeno. Non si soffermò per niente sul suo aspetto, piuttosto si chiese se in realtà fossero così evidenti nei suoi lineamenti la tristezza e la frustrazione. Forse lei le vedeva lampanti perchè le provava e le viveva in tutta la loro interezza, in tutta la loro durezza.
Sua madre comparve nello specchio, dietro di lei. Anche lei sembrava vagamente malinconica e Vale credeva di afferrarne il motivo. La donna poggiò le mani sulle sue spalle, come per darle conforto. Sorrideva. E nei loro sorrisi si riconoscevano: avevano la stessa bocca morbida, dall’incarnato rosa acceso, la stessa forma degli occhi e lo stesso colore dei capelli.
Valentina pensò a cosa l’attendeva. Quel giorno sarebbe stata sola, non ci sarebbe stato nessuno disposto a sostenerla mentre le immagini di suo padre e la sua nuova fidanzata che si baciavano in pubblico sarebbero scorse davanti ai suoi occhi.
- Vuoi andare? - chiese all’improvviso sua madre, ancora dietro di lei. Le aveva letto negli occhi. L’aveva visto evidentemente quel qualcosa di spezzato che giaceva stabile anche nei suoi.
Aveva forse possibilità di scelta?
- Non sei costretta – continuò con tono gentile.
- No mamma voglio andare. Non mi va di creare problemi – la rassicurò, sorridendo. La donna ignorò il sorriso, la girò verso di lei, prendendola per le spalle.
- Tu non crei problemi. Chiamami in qualunque momento tu decida di andare via, vengo a prenderti -
Vale sorrise ancora, cercando di rassicurarla e annuì con il capo. Ma non l’avrebbe mai chiamata, lo sapeva. Lo sapevano troppo bene entrambe che Vale era troppo testarda.

****

Salutò cortesemente l’autista e scese dalla Mercedes che l’aveva scortata fino lì.
Era stata sola durante il viaggio.
Scese e il panorama che le si prospettò davanti era meraviglioso.
Di fronte a lei si allungava un grande viale pavimentato da marmo chiaro. Intorno era tutto prato, con qualche albero ordinato e potato qua e la. Il palazzo si allungava orizzontalmente di fronte almeno a duecento metri da lei.
Decorato da porte sontuose e da vetrate pregiate, affiancava una piscina enorme.
Vale si soffermò a osservare tutto: in vita sua non aveva mai visto un tale splendore. Mai.
Mai tanto sfarzo.
Suo padre aveva proprio deciso di fare le cose in grande, quella volta.
Cominciò a camminare con fare esperto sui tacchi, facendo dondolare elegantemente la fastidiosa borsetta argentea, che pendeva dalla sua spalla.

Entrò nell’anticamera della sala, sfarzosa come l’esterno, solo un po’ più piccola. Suo padre da più lontano la vide e decise di avvicinarsi.
Anche lei lo vide e gli sorrise dolcemente, non perdendo occasione per scrutarlo: quando era felice era davvero bellissimo. Alto, non magrissimo ma perfettamente proporzionato e quei capelli corti e brizzolati lo rendevano molto affascinante. E quel giorno più che mai quello smoking metteva in evidenza il suo fascino che ogni donna ammirava quando camminava per strada.
Le si avvicinava con le braccia aperte, pronte ad accoglierla. E quando le fu vicino la strinse, in un abbraccio paterno, come pochi gliene aveva dati.
- Congratulazioni papà – disse Vale, sciogliendosi dall’abbraccio per guardarlo poi. Lui le regalò uno dei suoi soliti sorrisi diamantiferi.
- Sei bellissima oggi piccola - disse lui per tutta risposta – Hai avuto problemi con la macchina? -.
- No, nessun problema –.
Suo padre era una persona deliziosa. Con lei era disponibile, dolce, semplicemente squisito. Ma ovviamente ad una condizione: lei doveva essere il riflesso della figlia che lui preferiva. Non poteva essere se stessa, doveva comportarsi in un certo modo con lui, altrimenti le conseguenze erano dolorose. Suo padre non aveva mai capito che le persone non hanno modalità caratteriali intercambiabili. Forse era pazzo, Valentina ci aveva pensato qualche volta, ma...
- Valentina, sei arrivata! –
Una donna alta, fasciata dal suo abito rosso carminio le andò incontro. Vale si sforzò di esibire un sorriso di circostanza. Quando la donna le si avvicinò, distese le labbra carnose e mise un braccio intorno alla schiena di suo padre, sorridendo raggiante.
- Congratulazioni Jasmine, sei bellissima oggi – disse Vale con poco entusiasmo. Anche se Jasmine era bella davvero. Poteva avere si e no trent’anni, dieci anni di meno di quelli che portava suo padre. I capelli biondi di solito scendevano ricci e vaporosi, freschi di parrucchiere fino alla metà schiena, ma quel giorno aveva li aveva sollevati in groviglio elaborato. Era magra, slanciata e quel vestito rosso che portava metteva in evidenza le linee sinuose del suo corpo, quelle che probabilmente avevano fatto abboccare come un pesce suo padre quattro mesi prima.
- Grazie Valentina. - rispose cortese come al solito - Vai di là, il tuo tavolo è sulla destra, c’è il cartellino con scritto il tuo nome – la informò con la stessa regale educazione. Vale ringraziò e fece come aveva detto lei.
Scostò di poco le tende rosse di velluto spesso e raggiunse il suo tavolo, appena a destra dell’entrata. Sulla tovaglia bianca vide il suo nome scritto in stilografico sul cartellino e gelò quando notò quello accanto al suo. Risvegliò il più puro senso del terrore in lei.
“Marco”.
- Sorpresa vero? –.
Vale s’irrigidì ancora di più quando sentì il timbro della voce alle sue spalle.
- Ebbene si, ho chiesto io di averti con me, oggi - continuò lui, con il sorriso nella voce. Un sorriso sadico, sicuramente. Vale s’impose un’espressione di pietra e lentamente si girò verso di lui. Come poteva dimenticarsene... era stato lui, quel cugino che aveva provato a...
- Allora temo che rimarrai deluso. Non ho nessuna intenzione di passare un solo secondo con te – disse lapidaria, e decisa si allontanò, prendendo la borsetta che aveva poggiato allo schienale della sedia.
Si sentì sollevata quando pensò che in quel posto non poteva farle nulla. Non poteva nemmeno permettersi di toccarla, sarebbe bastato che lanciasse un urlo e sarebbe stata libera.
- Io invece credo che passeremo molto tempo insieme – la contraddisse lui mentre ancora si allontanava. Vale sentì una rabbia montarle dentro e allargarsi come una macchia d’olio. Si voltò e gli andò incontro, con una calma furiosa.
- Non ti ho denunciato solo per evitare di deludere tua madre. Ma potrei farlo in qualunque momento, ti avverto – sibilò quando gli fu vicina abbastanza. Lui esibì il solito ghigno strafottente, senza fare una piega. Lei si allontanò, diretta non sapeva nemmeno lei dove.
Nonostante ciò che mostrava, aveva paura, e molta. Non avrebbe potuto fare nulla, le sue erano minacce evanescenti. Suo padre non le avrebbe creduto, poco ma sicuro. Avrebbe spezzato il cuore a sua zia, avrebbe distrutto la famiglia e, cosa peggiore, sua madre avrebbe saputo. No, non poteva permetterlo.

Sbuffò e si sedette su una delle poltrone di plastica disposte in fila vicino al bordo della piscina. Si prese ancora una volta la fronte tra le mani, chiedendosi cosa fare. Avvicinò le punte dei piedi e allontanò i talloni, chiudendo gli occhi, raggomitolata su se stessa.
Era così che ci si sentiva quando non si avevano più speranze, sogni, quando tutto girava intorno a se senza che ci potesse fare niente?
Perchè lei si sentiva così: disincantata. Disillusa.
Travolta da un qualcosa più grande di lei, che le era piombato addosso senza chiedere il suo consenso, senza domandarsi se ce la facesse a sopportare il suo peso. Ce la stava mettendo tutta. Davvero.
Ogni mattina ed ogni notte si sforzava di non affogare nelle lacrime e di non lasciarsi trasportare dagli incubi frequenti che faceva. Si sforzava di razionalizzare, guardare le cose da un punto di vista oggettivo, senza lasciarsi travolgere dalle emozioni. Ma non era sempre certa di riuscire a farcela.
- Ehi, stai bene? –.
Una voce dal timbro giovanile la fece riemergere dai suoi pensieri. Sollevò la testa di scatto, spaventata. Si trovò davanti un ragazzo vestito elegantemente, che la guardava preoccupato.
“E’ alto”, fu la prima cosa che pensò quando lo vide.
- Si sto bene – rispose con più calma possibile, sperando che il ragazzo capisse comunque l’antifona. In quel momento conversare con il sesso opposto non le andava molto a genio.
- Io non direi proprio – ribatte invece il ragazzo guardandola un po’ scettico. Vale si passò una mano sul viso e notò che era dannatamente bagnato. Ma per la miseria, doveva sempre piangere come una stupida bambina ogni volta?
Si asciugò le lacrime cercando di mascherare alla meno peggio il filo colato di trucco.
Il ragazzo intanto si sedette sulla sedia bianca accanto a lei.
- Piacere, mi chiamo Samuel. – si presentò il ragazzo, porgendole la mano. Vale la guardò un attimo sorpresa, poi la strinse, in un riflesso involontario.
- Valentina - rispose, guardandolo meglio: i capelli ondulati e biondi, con due laghetti azzurri al posto degli occhi, tratti regolari e zigomi alti. Ma non si sentì minimamente toccata da tanta bellezza.
- Che bel nome! – sorrise lui gentile - Perchè piangevi?-
Quella domanda colse Valentina in contropiede. Si morse le labbra, nervosamente.
Figurarsi se doveva raccontare qualcosa di lei ad un ragazzo che non conosceva, anche se di certo non aveva cattive intenzioni. Si alzò di scatto dalla sedia e raccattò la sua borsa.
- Non vedo perchè debba raccontare i fatti miei ad uno sconosciuto – berciò guardandolo dall’alto, cercando di mascherare la sua debolezza nella forza. Se ne andò e lo lasciò li, chiedendosi perchè non potesse essere una ragazza comune. O più semplicemente, normale.

Passò il resto della giornata stando appiccicata a suo padre e Jasmine, nonostante non le facesse per niente piacere il contatto continuo con quella donna, che era si gentile, si bella e anche intelligente, ma troppo estranea.
Fu osservata e studiata in tutte le sue mosse da suo cugino, che la fissava con uno strafottente sorriso stampato sul volto. Ogni volta che lo scopriva indugiare con gli occhi su di lei tremava, e veniva fatta preda del terrore mista e della frustrazione.
Passato il taglio della torta, decise di farsi portare a casa. Le avevano detto che gli autisti che avevano accompagnato gli ospiti erano disponibili per farli rientrare dalle nove di sera fino alla fine della serata, ed ormai erano le dieci passate.
Si guardò intorno: le luce erano spente e ormai al centro della sala la gente ballava impazzita, senza rendersi conto delle luci psichedeliche che la avvolgevano, della quantità di alcolici che aveva ingurgitato. Spinti da una sola volontà, da una sola mente, si muovevano a ritmo di musica.
Vale dal tavolo di suo padre si guardò un’altra volta intorno: non c’era traccia di suo cugino, poteva sgattaiolare in macchina liberamente. Si alzò, prese la borsetta e una buona dose di coraggio, e uscì da quell’ambiente rumoroso.
Una volta entrata nell’anticamera della sala, si chinò per togliersi le scarpe, evitando il rumore che sicuramente avrebbero creato risuonando nell’ambiente vuoto. Attraversò la saletta vuota con le scarpe in mano e sgusciò all’aperto.
Inspirò e si sentì finalmente libera. L’aria fresca della sera le entrò dentro, riempiendo i polmoni di una sensazione di pulizia.
Il viale era sempre lo stesso, la piscina non si era mossa. Non c’era anima viva.
Camminò scalza sul marmo del sentiero tracciato verso il parcheggio e fu felice di vedere la Mercedes argentata che l’aveva accompagnata, al suo posto e l’autista appisolatosi dentro.
- Te ne vai di già? - fece una voce alle sue spalle e Vale potè riconoscere un timbro familiare. Espirò, annoiata. Si girò e vide Samuel che la guardava accigliato. I riflessi chiari dei suoi capelli erano esaltati dalle luci soffuse dei piccoli lampioni in lontananza.
- Si vado via - rispose decisa e aprì lo sportello, intenzionata ad entrare nella vettura.
- Ma no dai resta... parliamo un po’. Dentro è tutto così noioso... – la trattenne, bloccando lo sportello con una mano. Vale sgranò gli occhi, aggrottò la fronte.
Forse era malintenzionato, forse aveva un doppio fine, ma il suo tono era così innocente, il suo viso le trasmetteva una strana sensazione di tranquillità.
- Io... - cercò di replicare lei, disarmata.
- Prometto che non ti sfiorerò nemmeno di un millimetro – la rassicurò poi ironicamente. Vale abbassò gli occhi, colpita da quell’affermazione e annuì appena cn il capo. Abbandonò la borsa sul sedile posteriore dell’auto e avvisò l’autista che avrebbe fatto più tardi. Ancora scalza e con le scarpe in mano, attraversò il vialetto con lui e insieme entrarono nell’aiuola, coperta da un umido e piacevole prato inglese. Si sedettero su una panca di pietra lì vicino. Vale si guardò intorno e si strinse nelle spalle, ricordando che aveva lasciato il coprispalle nella borsa, dentro la macchina.
Ma non era quello il problema.
Era da sola con un ragazzo in una zona molto appartata e stranamente non si sentiva per niente preoccupata, anzi, era rilassata.
- Adesso mi spieghi una cosa – esordì una voce, che Vale riconobbe come propria.
Samuel trattenne un sorriso divertito.
- Dimmi tutto -.
- mi devi dire chi sei, da dove sei saltato fuori e soprattutto perchè mi hai garantito che non mi avresti nemmeno sfiorata -.
Lui si strinse nelle spalle e guardò da qualche parte davanti a se.
- Sono il fratello di Jasmine, ho diciannove anni. Per quanto riguarda da dove sono sbucato fuori, ti ho visto sgattaiolare come una ladra fuori dalla sala e ho pensato che non fosse sicuro con tuo cugino in giro -
Vale sgranò gli occhi e lo fissò terrorizzata.
- C-come… lo... -.
- Ti ho vista stamattina avere un colloquio poco piacevole con lui. – spiegò con leggerezza, stringendosi nelle spalle – Lo giuro, non volevo spiarti, mi sono trovato lì per caso e ho ascoltato tutto. Il resto lo conosci -
Vale si torturò il labbro inferiore, muta. Non riusciva a parlare, non riusciva a dire niente, nemmeno a pensare. Le parole le morivano in bocca, in mente. L’imbarazzo e la vergogna di essere stata scoperta, la sensazione bruciante della verità, come se fosse stata lei a fare qualcosa di sbagliato...
- Mi dispiace che ti abbia fatto una cosa del genere Valentina, davvero... – continuò con tono affranto - Ho visto come ti guardava, l’ho osservato per quel poco che mi è stato possibile. E... -
- No basta, non dire niente - lo interruppe bruscamente lei, scuotendo la testa - Promettimi che non ne parlerai ad anima viva - continuò guardandolo negli occhi. Lui sembrò pensarci un attimo, poi sospirò.
- Te lo prometto. Ma davvero non capisco perchè le persone che subiscono certi trattamenti si ostinino a non voler parlarne ad anima viva - meditò a metà tra l’imbronciato e l’arreso, più a se stesso che a lei.
- Io ne parlerei anche, ma così facendo farei soffrire troppe persone. E ci tengo a precisare che non mi ha fatto niente -.
- ...ancora. Pensi alle persone che ti stanno intorno che potrebbero soffrire, e tu? Tu non soffri? – le chiese. I suoi occhi azzurri brillavano nel buio della notte.
- La cosa giusta è questa – dichiarò senza nemmeno pensarci un attimo. Lui scosse la testa, imbronciando le labbra.
Vale sorrise, e al distendere delle labbra, una goccia calda e rossa si fece largo dalla pelle rotta nervosamente dai denti, scivolando. La goccia di sangue scese ancora, arrivando appena sotto il labbro.
- Hai paura di me, ora? – le chiese all’improvviso. Voltò la testa improvvisamente verso di lui, rimanendo interdetta dalla domanda.
- Cosa? – chiese sorpresa.
- Ti ho chiesto se ti spavento – ripeté seguitando a guardarla, ancora più intensamente, ancora più da vicino, con la voce che era poco più di un sussurro.
Cosa doveva rispondere? Come doveva comportarsi?
Continuò a celarsi nel silenzio mentre vide con gli occhi sgranati il viso di Samuel spaventosamente vicino. Ebbe improvvisamente la risposta alle domande che si era fatta.
- Devo andare - disse improvvisamente e scattò in piedi come una molla. Senza voltarsi indietro, scappò via, diretta verso il parcheggio, diretta in un posto dove si sentiva al sicuro.
 
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Lullaby;
view post Posted on 21/2/2009, 12:59




Questo Samuel non mi piace...e non mi piacerà nemmeno in seguito!
 
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Shynee
view post Posted on 21/2/2009, 15:42




Però non vale, tu sai come va avanti! XD
 
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Lullaby;
view post Posted on 22/2/2009, 21:29




CITAZIONE (Shynee @ 21/2/2009, 15:42)
Però non vale, tu sai come va avanti! XD

E vabbèèèèèè XD
 
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Shynee
view post Posted on 24/2/2009, 22:20




Megacapitolo di transizione.

Dopo tre settimane, Vale si stese sul suo letto, appena ebbe finito di studiare. Inspirò e chiuse gli occhi, sentendosi serena. Samuel negli ultimi tempi era entrato a far parte della sua vita, bussando con discrezione.
Il giorno dopo la cerimonia di fidanzamento, si erano incontrati per caso, quando erano andati a vedere la nuova casa in cui Jasmine e suo padre si sarebbero trasferiti. Si erano riconosciuti e da lì, avevano cominciato a parlare, ovviamente mantenendo quella barriera protettiva che separava Valentina dal resto del mondo. All’inizio c’era stato un po’ di imbarazzo specialmente da parte sua, ma poi si erano riscoperti amici, più per forza di cose che per altro. Vale si sentiva legata a lui unicamente perchè conosceva il suo segreto più grande.
- Valentina! Vieni in cucina! -.
Sbuffò e facendo forza sugli addominali si mise in piedi. Raggiunse la cucina, a piedi nudi.
- Dimmi tutto - disse tranquilla.
Sua madre stava tranquillamente seduta sul divano appena a sinistra della porta con la sorella in braccio, appena addormentata.
- Mi hanno chiamata zia Brigitte e zio Jimmy da Berlino – la informò la madre guardando la bambina.
- E allora? -.
La donna fece un bel respiro profondo e con una mano adagiò una coperta sulla bambina.
- Siediti, per favore – disse calma e le indicò una delle sedie con il mento. Vale ne spostò una dal tavolo prendendola dallo schienale e ci si adagiò, aspettando che la madre cominciasse a parlare.
- Sai, pensavo che... potresti staccare da tutto e andare a stare da loro per.. che so, due settimane... -.
- Cosa? E con la scuola come faccio? - la interruppe lei, sgranando gli occhi. Proprio sua madre l’aveva sempre pressata con la scuola, le aveva sempre raccomandato di non fare assenze inutili.
- Hai fatto pochissime assenze, magari ne parliamo con il preside e... -.
- Mamma, aspetta – la interruppe alzando una mano - Perchè all’improvviso mi stai facendo questa proposta assurda? –.
La donna sospirò, e distolse lo sguardo dai suoi occhi curiosi.
- Sento che... che non stai bene qui e hai bisogno di staccare un po’ da tutto questo. La scuola può passare in secondo piano e poi sei stata perfetta fino ad ora. E c’è qualcosa che mi nascondi, Vale, lo sento. Ma non voglio forzarti a parlarne, solo voglio tenertici lontano per un po’, perchè non vorrei che potessi farti del male -.
Valentina abbassò gli occhi, arresa. Sapeva che non poteva ribattere, non poteva mentire di fronte a sua madre. Si capivano troppo bene.
- ...e poi te lo ricordi ancora il tedesco, no? – continuò all’improvviso, guardandola negli occhi.
Valentina abbassò i suoi, ripercorrendo con la mente tutte le conoscenze di tedesco che possedeva, acquisite dalla permanenza in Germania per circa quattro anni, quattro anni prima, quando i suoi genitori erano ancora insieme e suo padre aveva costretto tutti a trasferircisi per motivi di lavoro.
Dopo una breve riflessione decise che il tedesco se lo ricordava ancora, ma e annuì piano con la testa.
- Bene, domani andrò a parlare con il preside – concluse sua madre.
Cosa???
- Così presto?! Ma mamma io non voglio andare... non subito almeno... – mentì. Vale pensava costantemente all’opportunità di scappare via. Ci pensava di giorno, ci pensava di notte, quando non riusciva a far staccare la spina al cervello, ci pensava quando suo padre la trattava male. L’unica cosa che la frenava era il pensiero di sua madre e sua sorella che dovevano affrontare il mondo da sole. Perchè sua madre aveva bisogno della presenza di sua figlia, così come lei vedeva un conforto in lei. Erano una famiglia, d’altronde era naturale che fosse così.
- Non è vero che non vuoi andare. Ti farà bene. E poi anche se con qualche grado in meno, la Germania è bellissima –.

****

La madre di Vale si rigirava nel letto, non riuscendo a trovare una posizione che la soddisfacesse. Si girò verso destra nel letto matrimoniale che non condivideva con un uomo da più di quattro anni e si soffermò a contemplare la bellezza innocente della bambina che dormiva beatamente accanto a lei, con le manine congiunte posate sotto la guanciotta paffuta e rosea e le gambe serrate e raggomitolate vicino al suo petto. Dormiva sempre rannicchiata.
“Hai paura anche tu? Non mi stupirei”.
E sentì salirle le lacrime agli occhi e farsi spazio in lei la sensazione della nullità.
Non era riuscita a crescere bene sua figlia, non era riuscita a risparmiarle il dolore e le sofferenze di una separazione, nonostante si fosse sforzata di farle subire tutto nella maniera più indolore possibile.
Non era riuscita a risparmiarle la rabbia e la frustrazione del suo ex marito, che appena poteva, riversava su sua figlia tutto il suo disappunto e il suo disprezzo per la vita. Perchè per quanto non lo desse a vedere, anche lui era rimasto bersagliato e deluso da essa. Si era sentito solo, si era sentito la persona a cui era caduto tutto il mondo addosso.
Ma aveva reagito diversamente: lui serbava rancore, lui sopprimeva ogni giorno la rabbia verso il destino, sentimenti che si rovesciavano sulla povera ragazza appena lei sbagliava qualcosa. E pensare che era convinto che fosse per il suo bene essere così severo.
“Come se sia stato l’unico a soffrire...tzè”.
E si girò ancora, nascondendo metà del viso nel cuscino.
Si era ridotta a dover essere costretta a mandare via la figlia, lontano dal suo paese natale, lontano da lei per farla stare meglio.
Aveva fallito.
Fallito come madre e di conseguenza come persona.
Ma si riempiva d’orgoglio ogni volta che vedeva sua figlia vivere il dolore delle difficoltà appieno e poi raddrizzare la schiena e affrontare tutto con un sorriso e con una forza che sicuramente non proveniva da lei.
Se sua figlia era quello che era, se era una ragazza formidabile, non era certo merito suo. Non poteva concedersi un tale lusso e una tale presunzione.
Vale aveva fatto tutto da sola, era stata maturata e formata dalla vita, che l’aveva colpita troppo presto. Il mondo le si era rivelato per la schifezza che era, troppo presto.
E nonostante tutto il dolore e gli ostacoli, non aveva fatto pesare nulla a nessuno, anzi, era sempre stata disposta ad essere un bastone per tutti, nonostante lei fosse la prima ad aver bisogno di un amico. Perchè lei era sola.
Solo negli ultimi tempi si era integrata a scuola, nella sua classe, facendosi degli amici. Persone con cui però, non stabiliva mai rapporti troppo stretti. Innalzava sempre barriere tra se stessa e la gente e ciò era più che giustificabile, dopo tutto ciò che aveva passato.
A volte si chiedeva se anche con lei si proteggesse con uno scudo, un involucro che la isolasse da tutto e che le permettesse di sentirsi protetta.
E più ci pensava, più la conclusione era chiara, spiegata ed evidente nella sua testa: si.
Una goccia calda e furtiva si fece largo tra le ciglia serrate e scivolò orizzontalmente sulla duna del profilo dritto e lineare del naso, per poi raggiungere l’altro occhio.
La protezione che nessuno le aveva mai dato, Vale se la costruiva da sola.
Da sola come aveva sempre fatto tutto.
Non si ricordava di essere stata presente quando aveva messo i suoi primi passi.
Quel giorno l’aveva affidata alle cure di sua sorella per esigenze lavorative e nello stesso giorno imparò a dire “pappa”. Quella fu la prima parola che imparò ancora prima di “mamma”.
Quando ebbe Valentina, Gloria era molto giovane. Poteva avere si e no ventidue anni, era laureanda all’università.
Quando partorì era già sposata con l’uomo da cui ora era divorziata e quando Valentina compì sei anni, si laureò con il massimo dei voti.
Il giorno della sua laurea, Vale era con lei e la guardava da un posto alto nella tribuna dove erano presenti tutti gli spettatori degli esami.
Quando rimase incinta, non era ancora pronta per avere un bambino. Ancora troppo inesperta e immatura, non si sentiva pronta ad annullarsi completamente per crescere un’altra creatura completamente diversa da lei.
Ma con uno sforzo sovrumano e spinta dall’amore incondizionato che provava, riuscì a mettere se stessa in secondo piano e a crescere insieme a sua figlia. Perchè più ci pensava, più si rendeva conto che gran parte dei suoi cambiamenti maggiori grandi a livello caratteriale erano avvenuti durante la convivenza con lei.
Come qualsiasi madre alle prime armi e soprattutto impreparata, aveva fatto molti errori.
Ma ogni giorno cercava di rimediare mettendo una toppa agli sbagli commessi durante gli anni, anche se ormai Vale era cresciuta e aveva tutte le carte in regola per badare a se stessa. Le aveva anche troppo in regola.
Tredici anni dopo la nascita di Valentina, arrivò la piccola Giorgia, frutto di un disperato tentativo da parte di entrambi i genitori di tenere in piedi un matrimonio che era in bilico da troppo tempo.
Ogni volta che la piccolina chiedeva di suo padre, Gloria non riusciva a trattenere i sensi di colpa e la tristezza per la consapevolezza di aver messo al mondo una figlia che si, era voluta al contrario della prima, ma che non meritava un atteggiamento tanto egoistico. Soffriva anche lei.
Nella sua immaturità, soffriva.
Si vedeva quando ad ogni tentativo da parte della gente di avvicinarsi a lei, rispondesse con rabbia, accumulata per aver vissuto cose che a due anni non si dovrebbero vivere. Il suo era un tentativo malcelato di soffocare delusione e frustrazione, sentimenti che inevitabilmente sfociavano nell’aggressività.
Sorrideva e si commuoveva quando la sorprendeva in attimi di infinita generosità, attimi che si lasciava sfuggire solo raramente e che perciò erano rare perle da custodire segretamente.
La piccola Giò era una bambina a cui doveva essere insegnato ad amare, perchè l’aveva dimenticato.
Non che non ne fosse capace, ma la sua dolcezza quasi palpabile, poteva farla apparire debole e vulnerabile. E anche lei doveva proteggersi.
E la furia era la scappatoia più facile da seguire e inconsciamente l’aveva fatto.
Eppure, nonostante tutto, ogni volta che Gloria guardava le sue figlie e ne scrutava le movenze e i comportamenti non poteva non esserne orgogliosa e non chiedersi cosa avesse fatto per meritare tanto, nonostante i suoi continui sbagli.
Tirò l’ultimo sospiro e si asciugò l’ultima lacrima, che disobbediente si era fatta largo come altre prima tra le fessure dei suoi occhi chiusi.
All’improvviso si sentì pesante e tutto intorno a lei divenne evanescente, fievole e privo di consistenza materiale.
Poi buio.

****

- Così te ne vai a Berlino eh? -.
- Beh, credo di si... –.
Vale rispose indecisa, mentre teneva il cellulare incastrato tra l’orecchio e la spalla e con le mani aggiustava la federa del cuscino che non voleva proprio saperne di andare a posto. Una volta finito di lottarci, si abbandonò sul letto, lasciandosi cadere a peso morto.
- Ma è caduto un mattone per caso? Si è sentito un tonfo! – squillò la voce di Samuel dall’altra parte del telefono.
- No Samuel, ero io il mattone che è piombato sul letto. Comunque da una parte sono contenta per questo viaggio, avevo pensato più volte di andare via, ma... –.
- Ma non ne hai mai trovato il coraggio – continuò lui per lei.
- Già... però, potresti anche smettere di sottolinearlo, sai? - disse leggermente infastidita. Lo sentì ridere dall’altra parte del telefono. Poi la sua risata si spense.
- E quando parti? –.
- Domani. Stamattina mamma è andata a parlare con il preside della mia scuola per avvisarlo delle mie assenze. Prevedo di stare via circa due settimane... se non di più. Questo viaggio arriva al momento giusto, cominciavo a non poterne più di stare qui – disse sistemandosi a pancia in giù.
- Vergognati, mi lasci solo. Ora chi costringerò io il pomeriggio a smettere di studiare e a fare un giro con me? – chiese l’amico ironico.
- Ci sarà sempre il telefono Sam, non scomparirò mica! – replicò lei sorridendo. Già, non sarebbe scomparsa e due settimane... tre... cos’erano in fondo, tre settimane?
 
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Lullaby;
view post Posted on 25/2/2009, 18:40




Tre settimane decisive!
 
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Shynee
view post Posted on 28/2/2009, 21:56




Valentina scese dal taxi che l’aveva accompagnata dall'aeroporto, in quell’enorme viale alberato. Deserto, per giunta.
Si sistemò la sacca sulla spalla e diede uno sguardo intorno. C’erano enormi ville con dei giardini verdi e grandi. Non ci impiegò molto a capire che quello era uno dei quartieri altolocati di Berlino, dove abitava gente piena di soldi.
Il tassista posò accanto a lei le due valige che aveva estratto dal cofano.
Vale distolse lo sguardo da quella vista e pagò dopo aver ringraziato. Estrasse il bigliettino dalla tasca della felpa e controllò l’indirizzo: si, era giusto.
Infatti poco dopo si sentì il rumore di un cancelletto che si apriva e poco dopo vennero fuori dalla villa appena avanti a lei un uomo ed una donna di mezza età, con dei visi dolci e sorridenti. Riconobbe i suoi zii.
- Valentina! – disse Brigitte parlando in italiano. Lei sorrise e appena le fu vicina si abbracciarono.
- Ciao zia! – la salutò sorridente mentre la vedeva andarle incontro - Mi sei mancata! – aggiunse allontanandosi da lei.
- Tutto bene? – le chiese poi, passando un braccio grassoccio intorno alla spalle.
- Benissimo. Però parlate in desco, me lo ricordo ancora –
In realtà voleva solo dormire. Si sentiva stanchissima e non sapeva come faceva a reggersi in piedi.
Lo zio Jimmy le andò incontro, con fare più distaccato, meno affettuoso. Ma entrambi le volevano un gran bene.
- Finalmente ti sei decisa a farci visita! – la apostrofò lo zio parlando in tedesco. Lei sorrise ed entrò in casa, mentre i parenti la aiutavano con le due valige. Quando entrò e posò le valige in camera sua, Vale non chiese nulla, se non di poter dormire un po’. Non era riuscita a dormire, né durante il viaggio, né durante la notte.
Quelle dannate mani le facevano sempre visita. Se durante il giorno poteva permettersi di non pensarci, durante la notte era totalmente disarmata. Sperava solo che la stanchezza eccessiva impedisse alla sua mente di galoppare liberamente.

Valentina si svegliò.
Si mise a sedere sul letto e si massaggiò le tempie, chiedendosi quanto avesse dormito e perchè si sentisse così stordita.
Guardò il display del suo cellulare messo in “Silenzioso” e guardò l’ora e la data.
L’orologio digitale segnava le 15.24 del 15 Aprile. Venerdì.
Vale si batté comunque una mano sulla fronte quando si rese conto che aveva dormito due giorni. Il sonno e la stanchezza avevano trionfato perfino sulla paura.
Trovò esattamente 17 chiamate perse. Cinque di sua madre, quattro di suo padre, tre di Samuel, poi ancora due di sua mamma, altre due di suo padre e un’ultima di Samuel.
Si alzò dal letto e scese al piano di sotto, dove trovò la governante intenta a sistemare le ultime cose fuori posto della cucina.
- Oh, ben svegliata... signorina...- disse educata e sorridente, ma in un italiano stentato.
Era una donna sui quaranta, che indossava la solita divisa da governante e i capelli raccolti in un elegante chignon. Vale rivide in lei e nel suo viso sciupato e rovinato i segni di quella che doveva essere stata bellezza.
- Parli pure tedesco con me. Apprezzo comunque lo sforzo - disse educatamente. Il volto della donna per poco non traboccò di riconoscenza.
- Gli zii? – chiese poi sedendosi ad una delle sedie.
- Mi hanno chiesto di riferirle che sono usciti e che torneranno questa sera. Hanno anche detto che i suoi amici e genitori erano preoccupati per lei e che hanno sistemato tutto loro, avvisandoli che stava dormendo. Sua zia si è permessa di prendere i numeri dal cellulare. Gradisce qualcosa da mangiare? Suppongo che abbia fame – la informò asciugandosi le mani bagnate.
Vale annuì e sorrise appena, ancora insonnolita.
- Si per favore -.
- Qualcosa in particolare? -.
- Nulla di eccezionale. Anche un purè con un paio di carote mi sta bene. Mi scusi, posso chiederle il suo nome? –.
- Mi chiamo Anja. – rispose, – Comunque ha gusti molto semplici in fatto di cucina, non me lo aspettavo -.
Vale la trovò vagamente simpatica. Il genere di donna che ama la conversazione ma che non è mai troppo indiscreta. Scoprì poi che lavorava lì da esattamente cinque anni e che i suoi zii l’avevano accolta quando la famiglia dove lavorava precedentemente si era trasferita in Spagna. Fece subito amicizia tant’è che arrivarono a darsi del tu.
Finito di mangiare, Vale decise di esplorare un po’ la casa, dato che conosceva solo quella che era diventata la sua stanza. Percorse il corridoio enorme fino a trovarsi di fronte una pesante porta in legno massello. Spinse con tutte le sue forze per aprirla e finalmente entrò. Quella doveva essere la biblioteca, visto che le pareti erano totalmente ricoperte da grossi scaffali pieni di spessi volumi e libri. Sorrise a quella vista e si avvicinò alla porta-finestra che dava su un balcone a piano terra. L’aria quel giorno era nuvolosa. Il cielo era grigio e anche l’aria era pesante e umida. Tutto sapeva di pioggia quel giorno. Poi sentì squillare il cellulare nella sua tasca. Lo prese e quel nome di pixel lampeggiò.
Mamma.
Aprì la vetrata e andò sul balcone, visto che in casa la ricezione non era delle migliori.
- Pronto? -.
- Ben svegliata! – disse sua madre dall’altro lato. Vale sorrise. Gloria le sembrò di ottimo umore, infatti cominciò subito a farle domande su come si fosse trovata, su come era il tempo, sugli zii. Così tante che Vale non riusciva a rispondere a tutto e dovette pregarla di andare più lentamente.
Parlarono un po’, poi si salutarono. Prima di chiudere, Gloria le raccomandò di fare una telefonata al padre, evidentemente aveva qualcosa da dirle. Era strano che volesse sentirla ed era strano che i suoi genitori si fossero sentiti. L’uomo aveva infatti litigato furiosamente con Gloria, opponendosi con tutte le sue forze alla partenza di Vale.
Si fece forza e premette quel tasto verde.
Uno squillo. Due. Tre. Vale pregò che non sentisse il telefono.
- Pronto? - una voce maschile echeggiò nel suo orecchio.
- Ciao papà.... - fece lei, timida, quasi paurosa.
- Tesoro! Beh, come stai?- disse lui, al settimo cielo. L’entusiasmo che imprimeva in ogni sillaba era palpabile.
Ma non doveva essere arrabbiato? Avrebbe dovuto aggredirla o quanto meno avere un tono burbero e antipatico come al solito, quando non gli andava giù qualcosa, invece l’aveva chiamata in quel modo.
- Bene papà, grazie – rispose educatamente dopo aver tratto un sospiro.
- Devo dirti una cosa tesoro. Una cosa bellissima - cinguettò lui, tutto contento. Il sorriso di Valentina si accese all’improvviso.
- Cosa? – chiese felice. La curiosità nella sua voce era quasi palpabile. Il padre la fece friggere ancora un po’, temporeggiando. L’attesa era snervante, tanto che lei fremeva, saltellando sul posto.
- Dai papà! – lo incitò quasi urlando.
- D’accordo, d’accordo. Preparati eh! Jasmine è incinta. Avrai un fratellino, amore -
Il sorriso di Vale si spense tutto d’un tratto. No. No, non era possibile. Non doveva essere possibile.
Suo padre, Jasmine. Insieme. Con un bambino. Un fratello. Fratellastro. No, non poteva succedere, non a lei.
Sentì il suo corpo pesante, come se le fosse cascato un mattone in testa. I contorni delle immagini circostanti cominciarono a farsi sfocati e movimentati. Troppo movimentati. Si appoggiò al muro facendo un bel respiro e ingoiò.
Rimase poi immobile con il cellulare in mano e l’espressione persa nel vuoto. Un forte dolore al petto la travolse.
Non sapeva cosa fosse, non ebbe il tempo di realizzare che suo padre la chiamò ancora.
- Valentina? Ci sei ancora? – la richiamò allegro. Lei cercò di ritrovare la voce che le moriva. Spingeva la gola, cercando di risvegliare la laringe e le corde vocali, ma non volevano saperne, il massimo che riusciva ad ottenere erano suoni soffocati.
- Vale? - la chiamò ancora il padre.
“Ce la fai, ce la fai, ce la fai, ce la fai...”
Ingoiò ancora. Finalmente sentì le ghiandole salivari risvegliarsi.
- Si p-papà... s... scusa...- biascicò a stento.
- Bene, ti lascio il tempo per realizzare. Adesso vado, mi aspettano. Sai oggi Jasmine e io ci trasferiamo definitivamente nella nuova casa e devo andare ad aiutare. Poi proprio adesso non può fare tutto da sola –.
Avrebbe fatto una smorfia sorridente se non fosse stata presa a calmarsi. Che gentile suo padre che girava il coltello nella piaga. Vale riuscì appena a salutare, poi chiuse. Ovviamente suo padre aveva scambiato quel silenzio e quelle parole stentate per felicità e meraviglia.
Stupido, stupido ottuso.
Come si faceva ad essere più egoisti? O più ciechi? Lei era sua figlia, caspita. Possibile che non si sforzasse di capirla e di comunicare con lei nemmeno un po’? Non gliene fregava proprio niente di lei e della sua felicità? Forse no.
Ma la verità era che gliene fregava tanto. Tantissimo.
Così tanto che non si rendeva conto che con il suo modo di fare la feriva profondamente; con il suo essere diretto, con la sua severità le faceva male, in tutti i sensi, ma non era cattivo.
Era solo molto impulsivo quando qualcosa non andava come lui voleva. Solo molto impulsivo.
Ma lei non era “qualcosa”, cazzo. Lei era una persona.
Si portò un palmo della mano alla fronte e il cellulare che conteneva cadde a terra. Il coperchio e la batteria se ne vennero, spargendosi sul balcone con un suono fastidioso di plastica. Vale li guardò con gli occhi offuscati dalle lacrime, li raccolse e li lanciò confusamente nella biblioteca, facendoli atterrare sull’enorme tappeto. Appena in tempo.
Il cielo aveva cominciato a liberare la sua rabbia e le prime gocce iniziarono a cadere spesse e pesanti.
Si lasciò scivolare lungo il muro ruvido, poi si cinse le ginocchia con le braccia e ci affondò dentro la faccia.
La pioggia si fece velocemente più fitta e pesante, e scendeva su di lei, cominciando a bagnarla completamente.
Un bambino.
Chissà quando l’avrebbe saputo sua madre. Le si sarebbe spezzato il cuore, un’altra volta, sicuramente. Un’altra volta il mondo le sarebbe cascato addosso. Perchè Vale sapeva che nonostante tutto, Gloria era ancora innamorata di quell’essere mostruoso.
Essere mostruoso...
Ormai la sua mente era offuscata dalla rabbia. Non si sforzava più di considerare i suoi pregi, tutto ciò che di buono faceva per loro, per lei, perchè in quel momento suo padre era un “essere mostruoso”.
Ma sapeva anche si sarebbe pentita presto di tanto rancore nei suoi confronti. E non era nemmeno colpa sua se la sua fidanzata era rimasta incinta. In un certo senso non lo era.
“Fanculo. Ora voglio essere arrabbiata” pensò in uno slancio di egoismo.
Batté un pugno contro i mattoni del pavimento bagnato, i sussulti la scuotevano. Ma le lacrime non scendevano.
Non più, sembrava fossero finite. Lo battè ancora incessantemente e regolarmente non sapeva nemmeno per quale motivo, fino a quando sentì le dita farle realmente male.
Alzò la testa e si fissò la mano bagnata e arrossata. E poi fissò il pavimento.
Lei si era fatta male. Quello non si era nemmeno scalfito.
Ma perchè doveva essere sempre così? Perchè doveva essere sempre lei quella che ne usciva distrutta?
Di nuovo affondò la faccia nello spazio tra le ginocchia, abbracciandole ancora più forte.
Gli occhi si inumidivano, ma non scendevano più lacrime.
Non solo lei avrebbe sofferto quella volta, ma anche la sua famiglia. Sua madre. Sua sorella.
Sua sorella aveva solo quattro anni. Solo quattro anni, per la miseria. Come avrebbe reagito alla vista di un altro bimbo piccolo fra le braccia di suo padre?
Proprio lei che era stata abituata ad essere l’unica. Era gelosa perfino quando suo padre tentava di abbracciare Valentina.
La montagna che incombeva minacciosa su di lei le mise terrore. Voleva scappare, voleva liberarsi di tutto, anche del proprio corpo.
Si alzò e si mise in piedi, senza nessuna ragione particolare. I capelli scendevano sulle sue spalle bagnati e compatti, gocciolando. I vestiti aderivano appiccicosi alla pelle e la pioggia scendeva sul suo viso, macchiandolo di piccole gocce innocenti che colavano arrivando fino al collo, per poi confondersi nella stoffa.
Si avvicinò alla ringhiera bagnata e scorse una persona che la fissava dalla finestra della villa accanto.
Stropicciò i suoi occhi con le mani e riportò lo sguardo alla finestra, cercando di rimettere a fuoco l’immagine, ma non vide più nulla. Scosse la testa, poi poggiò una mano sulla ringhiera. Un altro sussulto la scosse.
Un brivido. Si diede una spinta con le gambe e facendo leva sul braccio esile e riuscì a cadere a terra, dall’altra parte.
Atterrò violentemente, ma non perse l’equilibrio. Percorse il retro della villa e scappò via dal cancelletto aperto.
Cominciò a correre per strada, percorrendo quell’enorme viale, deserto e pieno di alberi.
Quegli occhi la videro sfrecciare sotto la pioggia e poi scomparire.
Corse con i polmoni che le bruciavano fino a quando non vide l’ingresso ad un piccolo campo.
Si fermò, senza fiato. Poggiò le mani sulle ginocchia e si piegò in avanti, serrando gli occhi per il dolore al petto. Era affannata, respirava pesantemente, tanto che sentiva il suo cuore battere fino a farle male.
Fissò la vista su quello spazio perfettamente quadrato: doveva essere un parco giochi, visto che al centro c’erano un paio di altalene vicine, tenute insieme da un’unica trave di legno spesso, una giostrina tonda, con tanti sediolini, due casette colorate e qualche scivolo.
Senza pensarci due volte scavalcò la catena che chiudeva l’accesso e immerse i piedi nel terreno fangoso, battuto costantemente dall’acqua. Camminò ancora, assaporando la frescura della pioggia che si infrangeva su di lei e il rumore delle sue scarpe che smuovevano il minuscolo pietrisco sabbioso. Si sedette al sediolino bagnato dell’altalena, insolitamente più grande di quelli che si vedevano a casa sua. Ma era nero. Nero come lei, in quel momento. Come il suo animo. Strinse ancora di più le catene con le dita.
“Perchè mi sto comportando come una bambina? Reagisci Vale!”.
Facile a dirsi.
Se lo diceva sempre ogni volta che le difficoltà la ferivano e le complicavano la vita.
E l’aveva sempre fatto, ci era sempre riuscita. Puntualmente si rialzava e affrontava tutto con una forza e un coraggio poco comuni. Ma quella volta sentiva di non potercela fare, non da sola. Era una cosa troppo grossa per lei.
Magari aveva affrontato cose anche più grandi, forse quello era un piccolo ostacolo da superare, una piccola verità da accettare, ma no. Lei sentiva che quello era il colmo. Quello era il colmo. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Si dondolò piano sull’altalena, facendo cigolare le giunture delle catene. Non era più scossa. Non trasaliva più.
Era il segno che ormai il peggio era passato. Si strinse nelle spalle e si alzò da quel sediolino largo.
Si diresse verso i confini del piccolo parco, delimitati da una staccionata di legno e da grandi siepi squadrate da esperte mani di giardinieri. Si rannicchiò su una panchina e appoggiò il viso allo schienale di ferro, lasciando che la pioggia la bagnasse ancora di più, lasciando quasi che le entrasse dentro. Chiuse gli occhi, stremata. Si sentiva come se avesse fatto duecento vasche stile nuotando con un braccio e una gamba soli. Si sentiva più stanca di quando era andata a letto. Le palpebre le divennero pesanti e nonostante la pioggia le scrosciasse violenta addosso, non sentì più niente.

Riprese conoscenza, ma gli occhi erano chiusi. Avvertiva strani pesi addosso, ma allo stesso tempo si sentiva leggera. Stranamente asciutta e non aveva nemmeno freddo. Aprì gli occhi e la luce del lampadario appeso al soffitto la abbagliò. Mugolò e si girò su un fianco.
Ricordò tutto in un secondo: la pioggia, la panchina... la notizia. Cercò di mettersi seduta, ma la testa era pesante e avvertiva fitte in ogni centimetro quadrato del corpo. Così si accontentò di massaggiarsi la fronte, chiudendo gli occhi.
Piano li riaprì e riconobbe la sua stanza, quella dove aveva dormito. Gettò uno sguardo alla finestra e vide il cielo ancora azzurro. Ma che cosa aveva fatto?
Semplice: era solo scappata via, non dicendo nulla a nessuno. Si era solo messa a piangere e si era addormentata su una panchina in un parco deserto, collocato in una zona deserta, con il rischio che le si facesse del male. Sbuffò annoiata a quel pensiero.
“Complimenti Valentina. Primo premio a livello mondiale per l’immaturità e l’irresponsabilità. Ora ti ci manca solo l’attestato.”
Si girò su un fianco e affondò il viso nel cuscino. Poi una domanda le ronzò in testa. Ma come ci era arrivata lì?
Provò ad allontanare le coperte con un braccio ma si sentiva talmente debole che il muovere un solo muscolo le dava dolore. Si diede della cretina e imprecò contro se stessa – mentalmente, perchè i muscoli della mascella le dolevano – per aver voluto fare l’idiota disperata che cammina sconsolata sotto la pioggia. Ma quelle erano le conseguenze. Doveva tenersele. Anja entrò in quella camera frettolosa e burbera, con un cestino pieno di biancheria piegata e barcollante. La posò su una poltrona, sbuffando, poi le si avvicinò e le posò una mano sulla fronte, con un movimento veloce e poco delicato. Era molto meno amorevole del pomeriggio.
- Cosa pensavi di fare eh? Di farmi venire un infarto? Beh, ci sei quasi riuscita. – brontolò acida, convinta che lei non fosse cosciente – Ora chi lo spiegherà ai padroni di casa? Con chi se la prenderanno? Di certo non con te, sognorina – continuò mentre le sistemava un panno bagnato sulla fronte, dopo averlo immerso nella piccola ciotola piena d’acqua e strizzato appena.
- Scusa Anja...- biascicò. La donna perse la sua espressione austera e si portò una mano alla bocca socchiusa.
- Oh.. non pensavo che.. fossi sveglia... -.
Vale con uno sforzo riuscì a mettersi seduta sul letto, appoggiandosi allo schienale.
- No Anja, hai ragione, mi sono comportata male. Ma è successo qualcosa che mi ha sconvolto e non ce l’ho fatta a... frenarmi - cercò di giustificarsi. Notò con piacere che il volto della donna si raddolciva. Forse perchè intenerita dalla visione di lei malata, forse perchè le dispiaceva di vederla così o forse perchè non immaginava che potesse accadere qualcosa di tanto pesante da sconvolgere quella ragazza così tanto. Dopotutto i suoi padroni gliene avevano sempre parlato come una ragazza che si distingueva per il senso di responsabilità, educazione ed obbedienza. Lei l’insieme di quelle tre doti l’avrebbe chiamato sottomissione, ma non si era voluta immischiare più del dovuto. Per cui, avrebbe dovuto immaginare che se aveva fatto ciò che aveva fatto, ci doveva essere stato un motivo più che valido.
- Per quanto riguarda gli zii... – continuò Vale – Non se la prenderanno con te. Dirò loro chiaramente che è stata tutta colpa mia -.
Anja si lasciò scappare un sorriso di riconoscenza. Ma poi Vale fu attanagliata nuovamente da quel dubbio amletico: e lei come ci era arrivata lì?
- Anja...- fece incerta. La governante finì di chiudere la bottiglia marrone di sciroppo, la poggiò sul comodino, esattamente accanto alla bacinella d’acqua e la fissò.
- Dimmi –.
- Ma come sono arrivata qui? – chiese curiosa. Non sapeva perchè, ma sentiva qualcosa di... strano in quella domanda. Qualcosa che la turbava, come se fosse una domanda sbagliata, quando invece era più che legittima.
- Ti ha riportata il vicino di casa. Ha detto che ti ha trovata nel parco, quello poco lontano da quì. La scena lì per lì mi ha fatto tenerezza, perchè eri tutta bagnata, dormivi ed eri raggomitolata a lui come un gattino – rispose sincera. Vale deglutì e con gli occhi quasi sgranati fissò un punto indefinito tra le lenzuola davanti a se. Arrossì, violentemente.
- E sei stata anche molto fortunata, - continuò poi Anja - Di solito durante l’anno non ci sono mai, sembra che siano persone importanti. Ma mi è parso di capire che lui si sia ammalato e che sia costretto ad una permanenza forzata in casa. Dobbiamo ritenerci fortunati che non ci sono anche paparazzi e giornalisti. A volte ci sono masse di fotografi e che non ci danno un attimo di tregua, nemmeno di notte. Comunque ti ha posata sul divano e ha chiesto di fargli sapere su come stessi. E’ stato gentile –
Oddio. Oddio no. Era stata trasporta dal vicino di casa che l’aveva trovata... No, non poteva pensarci. Ingoiò.
- Ma... è un ragazzo, un uomo, un vecchio..? - chiese cercando di velare il battito frenetico del suo cuore e di mantenere la voce ferma. Anja sorrise e soffocò un’altra risata. Era snervante, ridere ad ogni sua domanda e affermazione come una stupida ragazzina.
- Ma che vecchio... - disse agitando una mano. – E’ un ragazzo, pare che abbia appena diciotto anni. E quando non ha da fare ritorna a casa dei parenti oppure viene quì con suo fratello, che ora è in viaggio. Non so dirti di più -.
Vale cercò di assimilare tutto quello che Anja le aveva detto.
Facendo un breve riepilogo era stata trovata su una panchina da un ragazzo poco più che adolescente, presa in braccio dal suddetto e riportata a casa. Voleva morire, voleva sprofondare al centro della terra e non riemergere mai più.
Le aveva fatto tutte queste cose e lei non l’aveva mai nemmeno guardato in faccia.
Si, decisamente, voleva morire.
- Ma gli zii sono tornati? E quanto ho dormito? Dove sono loro? – cercò di confondere la sua mente con un mucchio di interrogativi e domande.
- No, non sono tornati ancora. E non hai dormito molto, appena un’ora. E’ comunque normale -.
- Non mi hai detto dove sono andati – gorgogliò nel disperato tentativo di distrarsi.
Anja si portò una mano sulla fronte.
- Mi hanno accennato di una gita organizzata ad una trentina di chilometri da quì. Avrebbero portato anche te, ma non ne volevi sapere di svegliarti -.
Vale scrollò le spalle. Dopotutto era meglio così. Poi vide Anja alzarsi dalla sedia e stiracchiarsi.
- Bene, ora vado a dire al ragazzo che stai meglio – la informò con placida naturalezza. Vale sbarrò gli occhi e scosse la testa.
- No, no, no, non farlo! – gracidò, in preda al panico. La governante si accigliò.
- E perchè? – chiese curiosa.
- Perchè... beh andrò io a ringraziarlo quando starò meglio - disse tutto d’un fiato. Fu la prima cosa che le venne in mente di dire. E anche la più maledettamente stupida, a pensarci. Anja fece un sorriso compiaciuto.
“Sicuramente ha capito male”, pensò Vale con orrore. Lei non voleva conoscerlo, nemmeno vederlo, tanto meno ringraziarlo, voleva solo trovare un cratere che portasse al nucleo terrestre e buttarcisi dentro di testa.

Il capitolo di cui più mi vergogno. Per favore, siate clementi. T.T
 
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Lullaby;
view post Posted on 1/3/2009, 16:16




E chissà chi è questa persona misteriosa U.U
 
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Shynee
view post Posted on 6/3/2009, 11:32




Capitolo 4.

Quella stessa sera, gli zii ritornarono dalla gita, preoccupati per lei e si scoprì che la ragazza aveva parecchia febbre e un principio di bronchite, dato che aveva cominciato a tossire. Le ci vollero sei giorni a letto per riprendersi, anche se non completamente.
Nei giorni di malattia, Valentina ricevette tutte le attenzioni e le cure necessarie. Anche quelle non necessarie per la verità, si sentiva al centro dell’attenzione e dell’amore di tutti e per quanto piacevole fosse, era una cosa abbastanza nuova che la colse in contropiede.
I suoi genitori la chiamavano regolarmente ogni giorno per sapere come stesse e lentamente si stava abituando alla notizia del bambino in arrivo, riuscendo perfino a conviverci. Aveva raggiunto un minimo equilibrio interno, finalmente.
Il pomeriggio decise di alzarsi finalmente da quel letto, che nonostante la sua ampiezza era diventato troppo stretto. Voleva tornare nella biblioteca, era l’unico luogo che le trasmettesse tranquillità, oltre la sua stanza.
Posò i piedi coperti solo dai calzini terra. Prima di uscire da quella stanza lanciò uno sguardo all’orologio a muro: esattamente le tre e mezza del pomeriggio. Perfetto, a quell’ora gli zii riposavano e la governante anche.
Fece scivolare il cotone fresco del vestitino da notte che indossava sul pavimento e si vestì, prendendo dall’armadio un paio di jeans e una semplice maglietta, scegliendo tra i suoi capi che Anja aveva tirato fuori dalle sue valige e sistemato nel guardaroba.
Scivolò giù dalle scale in punta di piedi, facendo attenzione a non fare rumore con le scarpe e percorse il corridoio. Da uno dei mobili che lo arredavano, prese una penna e se la infilò tra i capelli, lasciando che alcune ciocche sfuggissero ribelli a quella fragile presa e scivolassero sul collo, accarezzandolo e cadendo poi morbidi su una spalla.
Finalmente si ritrovò di fronte a quella porta che celava l’immenso e favoloso mondo di carta. La scostò con un’energica spinta e ci s’infilò dentro, silenziosa.
Subito si trovò quasi catapultata in quel mondo a tomi, in quell’ambiente dove tutti i sogni potevano prendere vita ed essere vissuti esattamente come la vita. Si guardò intorno, con gli occhi che brillavano.
Fissò la scrivania di legno scuro, piena di fascicoli e fogli di carta dai contenuti incomprensibili e poi si trovò ad ammirare la grandissima poltrona che ci troneggiava dietro, imperiosa. Ci si avvicinò, sfiorando con le dita la superficie liscia del legno, girò intorno e si trovò accanto alla sedia.
Sorrise pensando che a casa sua non aveva mai visto nulla del genere e che sicuramente sua madre si sarebbe trovata con gli occhi sognanti esattamente come lei in quel momento davanti a quello spettacolo meraviglioso.
Chissà quanto c’era da scoprire tra quelle pagine, quanti mondi, quante parole, nascoste in quei volumi.
Sicuramente non le sarebbe bastata tutta la vita per leggerli tutti, nonostante fosse capace di leggere un tomo di cinquecento pagine in due giorni.
“Divoratrice di libri. Così perdi tutto il gusto!” le diceva sua madre sempre. Ma non ce la faceva, era più forte di lei: doveva continuare a leggere, non riusciva a fare come la maggior parte della gente, a riporre il libro, per dormire o anche solo per ritagliarsi uno spazio libero.
Fissò la porta finestra e le immagini dei ricordi di qualche giorno prima le trapassarono la mente, non senza una punta di ansia. Si diresse verso quella finestra lentamente, sentendo che il dolore la colpiva molto, molto schermato, lasciando che godesse ancora di quella temporanea serenità. Si fermò e osservò la strada attraversata da qualche passante e da qualche macchinone di tanto intanto.
Poi scorse qualcosa. O meglio, qualcuno.
Una persona sul marciapiede stava parlando con un uomo molto robusto e molto alto, con degli spessi occhiali neri. Un contrasto lampante rispetto a quello con cui discuteva, che anche se alto, aveva una figura molto magra e longilinea. Valentina poteva vedere chiaramente il viso dell’uomo robusto, visto che si trovava quasi di fronte a lei.
Li vide discorrere ancora insieme ed poi annuire entrambi. L’uomo andò via entrando in un’auto, e la persona entrare nel giardino della villa, passando per il cancelletto. Quando si guardò intorno e voltò la testa, scrutando ogni cosa, Valentina riuscì a vederne il viso, prima nascosto dai lunghi capelli neri.
I suoi lineamenti erano delicatissimi, quasi femminei, tanto che fu un attimo indecisa se classificare quella persona come un ragazzo o una ragazza. Qualsiasi cosa fosse, sembrava nutrire un po’ di preoccupazione.
Scrutava l’ambiente intorno, come se avesse paura che qualcuno l’avesse visto o lo vedesse.
Poi ricordò il discorso di Anja, qualche giorno prima: “E’ un ragazzo, pare che abbia appena diciotto anni. E quando non ha da fare ritorna a casa dei parenti oppure viene quì con suo fratello, che ora è in viaggio”
Due fratelli, quindi quasi sicuramente quello era un ragazzo, costatò con un po’ di scetticismo in volto.
Lo guardò meglio e gli sembrò di averlo visto da qualche parte. Sgranò gli occhi all’improvviso: era... era la stessa persona che aveva visto quel pomeriggio!
Poi il ragazzo scomparve in casa sua. Istintivamente allungò il collo per cercarlo ancora, ma non c’era più nessuno.
Stranamente, le venne in mente l’unica volta in cui si era innamorata. Strano ma vero, nonostante tutto ciò che lei aveva passato, una volta si era concessa di innamorarsi di un ragazzo, poco più grande di lei.
Grosso, grosso sbaglio.
Si era lasciato incantare dal suo aspetto, dalla sua aria gentile, ma non sapeva che dietro quell’aspetto c’era una persona che aveva sofferto e che aveva degli ostacoli da superare. L’aveva illusa. Le aveva fatto credere di amarla, ed in effetti sentiva qualcosa per lei, anche se qualcosa di molto superficiale, legato soprattutto all’apparenza. Chissà, forse avrebbe potuto svilupparsi se non l’avesse lasciata perdere dopo che aveva scoperto che non riusciva a lasciarsi andare.
“Non riesci a darmi quello che voglio, hai troppi problemi” le disse per telefono. Nemmeno faccia a faccia. Lei non ebbe nemmeno il tempo di replicare, lui aveva già chiuso. Valentina quel giorno lasciò scivolare ancora una volta il telefono dalla mano, ma a quel tempo era più solido, non si aprì.
Il suo cuore andò in pezzi. In pezzi letteralmente. Provò in un solo momento la vergogna di essere quello che era, la frustrazione di sentirsi sbagliata. L’umiliazione e la sofferenza, infine la rabbia.
Soffrì tantissimo.
E si disse che in vita sua non avrebbe più amato in quel modo incondizionato. Perchè lei era così: non conosceva l’interesse, l’ipocrisia verso le altre persone. Non conosceva la cattiveria, quella pura, quella che porta una persona ad essere considerata “viscida”. Conosceva la rabbia, conosceva la frustrazione, ma non era mai sbottata. Ed aveva elaborato una tesi. Semplice, concisa, ma efficace: qualsiasi essere di sesso maschile presente sulla terra è uno stronzo manipolatore, insensibile ed egoista. Semplicemente, è maschio.
Aprì la vetrata sorridendo mestamente e andò sul balcone. Il cielo era finalmente sereno, equilibrato nella sua armonia da piccoli sprazzi bianchi dai contorni soffusi. Le giornate si stavano riscaldando, la primavera cominciava a farsi sentire anche lì, finalmente.
Si stiracchiò respirando rumorosamente e poi abbandonò i muscoli e le braccia lungo i fianchi.
Con un altro salto, Valentina atterrò dall’altra parte del balcone, molto meno violentemente e in modo più agile e disinvolto. Soddisfatta di se, constatò che quello era il modo più facile e veloce di ritrovarsi in giardino e che lo avrebbe utilizzato spesso. Decise di fare un giro intorno all’enorme proprietà degli zii. Anche se era uscita poco dalla sua stanza, ormai si sapeva orientare. Camminò percorrendo tutto il perimetro, poi ritornò vicino al balcone della biblioteca. Agitò le dita delle mani rilassate lungo il suo corpo e arricciò la bocca, non sapendo che fare.
Poi sentì un rumore. Il rumore di qualcosa che si muoveva. Si guardò intorno, ma sentiva solo passi pesanti e decisi. Si girò e vide un cane che le andava incontro. Un cane grande e grigio, con zampe sottili e due orecchie allungate sulla testa piccola. Conosceva la razza, era un Alano. Si avvicinava sempre di più, non ne ebbe paura. Ma anche se ne avesse avuta, non l’avrebbe mostrata. Perchè più si mostra di aver paura, più l’antagonista è motivato ad attaccare. Sempre.
Si abbassò mettendosi in equilibrio sulle mezze punte e cercò di assumere un’espressione più rassicurante possibile.
- Ciao... - disse calma. Il cane le andò incontro e si sedette composto davanti a lei. Vale allungò lentamente una mano, con il palmo rivolto verso l’alto, permettendogli di annusarla e di assicurarsi che non fosse cattiva. Poi lo vide distendersi di fronte a lei, chiedendo esplicitamente carezze e coccole. Non ci pensò due volte e passò la mano su quel pelo scuro e grigio, massaggiando la pelle.
- Le apparenze ingannano sempre, sai? – cominciò a parlare seria, fingendo che il suo interlocutore potesse capirla – Conosci qualcuno che ti sta simpatico, ti sembra gentile, limpido e cristallino, ma appena ti ha spremuto come un limone, non perde tempo e ti liquida via, con una buona dose di pugnalate dietro la schiena. E’ strano, ci provano perfino gusto – borbottò, con una punta di amarezza nella voce. Prese a parlare in tedesco, immaginando che il cane capisse solo quella lingua. Tutto ciò che ebbe come risposta, fu un guaito soffocato di piacere del bestione.
- Ma la verità è che questo mondo funziona così. Bisogna far del male per sopravvivere. Sembra alquanto vittimistico come discorso, ma è così... -.
Il cane guaì ancora. Riportò l’attenzione su di lui e si rese conto che aveva smesso di accarezzargli il pancione. Sbuffò, seccata e ripassò la mano sul pelo.
- Ma che cosa pretendo da te? Sei solo un cane... – si derise da sola e sorrise.
- Sono d’accordo – una voce estranea all’improvviso la fece sobbalzare. Il cane si rimise in piedi, guardandosi intorno in cerca di qualcosa o qualcuno. Lei dapprima si guardò intorno come lui, ma poi alzò la testa e notò con stupore e piacere che la misteriosa persona dagli occhi color castagna le aveva parlato, appoggiata al davanzale della solita finestra del piano superiore della villa accanto. Rimase senza parole.
- Hai sentito tutto? – chiese imbarazzatissima, arrossendo fino alla radice dei capelli.
- Direi di si. Che triste filosofia di vita che hai – commentò aggrottando la fronte. Vale alzò le spalle e suo malgrado si trovò a sorridere.
- E’ triste però è... giusta - rispose. Si era dimenticata come si dicesse “vero” in tedesco.
- Forse - approvò alzando una spalla anche lui. – Che bello il tuo interlocutore. Loquace - sorrise.
Vale alzò le sopracciglia, poi diede uno sguardo al cane: – Beh, forse non molto, però sa ascoltare in silenzio - ribatté accarezzandogli la testa. Poi riportò lo sguardo sul viso del ragazzo.
Notò che la fissava accigliato, come se fosse meravigliato di qualcosa. Si sentì a disagio ad essere scrutata in quella maniera. L’insufficienza era una brutta sensazione. Il presentimento costante e continuo che ti fiata sul collo come una spada di Damocle. Valentina con quella sensazione ormai ci conviveva.
- Posso scendere? E’ difficile parlare così ed è alquanto imbarazzante per me dover fare la Giulietta della situazione – disse ironico. Lei sentì il suono di una breve risata, che con stupore scoprì essere la propria.
- D’accordo – rispose sorridendo e il ragazzo poco dopo scomparve dalla finestra. Lei ritornò seria.
Ma era pazza forse? Si dette uno schiaffo sulla fronte e chiuse gli occhi, pensando che si, era decisamente pazza, senza il forse e il punto interrogativo. Lo vide uscire dal portone, scendere la piccola scalinata e andarle incontro, e lei si sforzò di esibire un’espressione affabile.
Lo scrutò meglio: magro come un chiodo, vestito totalmente di nero, a parte qualche contrasto con le fasce bianche della sua maglietta a maniche corte e le striature bionde dei suoi capelli, che portava lunghi e scomposti sulle spalle. Non riuscì a dargli un giudizio lì, per lì: era così e basta.
Si avvicinò al confine tra una casa e l’altra, delimitato solo da un muretto di pietra spesso ma anche piuttosto basso.
Si appoggiò con gli avambracci a quella superficie ruvida e si sporse in avanti, posando lo sguardo su quel cane che oziava seduto accanto a lei.
- Io avrei paura a stare accanto ad una bestia così – cominciò con un sopracciglio alzato, indicandolo con il dito. Vale restò piacevolmente sorpresa quando notò le mani del ragazzo, con unghie rosa e naturali, ma perfettamente curate e definite. Scrollò le spalle, fece un’altra carezza alla testa del cane, che per risposta abbassò le orecchie, tendendole all’indietro. Poi si avvicinò al ragazzo, andando incontro a quel muro e gli porse la mano.
- Io sono Valentina – si presentò cortesemente. Lui parve scrutarla un momento, incredulo.
- Bill... – rispose e Vale ignorò il tono insicuro e appena sorpreso della sua voce. - Allora, come... come stai? – riprese il ragazzo, mentre ritraeva la mano.
- Aehm... bene? – rispose incerta. Il pensiero che quella non fosse una domanda di cortesia non l’aveva nemmeno sfiorata. Lui sorrise comprensivo e scosse la testa verso il basso.
- Parlo della tua salute. Ti sei ripresa? -.
Vale aprì per un attimo la bocca e spalancò di poco gli occhi. Capì e fu... terrorizzata.
- ...Oh – sfiatò, atterrita. – Tu... ehm... sei... hai... – l’imbarazzo sembrava averle bloccato la facoltà di pensare e parlare come una persona normale. Pensò solo che, porca miseria, lui era... lui aveva...
- Si – confermò lui, sbattendole in faccia la cruda verità. Voleva morire, in quel momento avrebbe voluto sprofondare.
- Ehm... a questo proposito... – Vale ascoltò la sua voce elaborare qualcosa di sensato al posto della sua mente. - Volevo ringraziarti di cuore, sai... per il tuo… intervento – biascicò massaggiandosi la fronte, gli occhi costantemente bassi. Quella situazione era fastidiosa e le stava scomoda come un vestito stretto.
- Figurati – minimizzò lui con un gesto della mano. Non disse altro, non chiese più niente e Vale ringraziò mentalmente quella sua discrezione, sapendo per certo che se le avesse chiesto qualcosa, comunque non avrebbe risposto: era stanca della gente che metteva il naso nella sua vita e nei suoi sentimenti.
- Chissà come ti sono apparsa... – disse tanto per spezzare il velo silenzioso che si era adagiato su di loro. Bill ci pensò un po’ e si portò una mano al mento.
- Mhm... Fammi pensare... Ci sono: bagnata – rispose ilare, dopo averci pensato su qualche secondo. L’imbarazzo iniziale sembrò sciogliersi e Vale rise di nuovo.
- Beh, meglio bagnata che non barbona, patetica, idiota, incosciente...e potrei continuare all’infinito – parlò elencando tutto automaticamente, evadendo dal suo sguardo e tenendo il conto con la mano.
Bill ridacchiò e dondolò le labbra.
- No, non ho pensato niente del genere –.
Valentina ne scrutò i movimenti: quando parlava, muoveva molto i muscoli facciali e le pupille, che però non fissavano mai l’interlocutore diretto. Muoveva le mani e ogni tanto si scostava un ciuffo di capelli dalla fronte. Che tipo particolare...
- E come mi avresti definita? - chiese accigliata. A quel punto era curiosa, se non era passato “niente del genere” dalla mente del ragazzo (che a quel punto decise che era proprio strano) chissà che impressione aveva fatto.
Bill la guardò e aprì le labbra per parlare:
- Beh... credo che... -.
- Valentina! Tua zia mi ha chiesto di dirti di venire dentro! – Anja apparve in giardino, stretta nei suoi comuni jeans e nella sua maglia nera informe. I capelli biondi legati in un’alta coda di cavallo evidenziarono la bella forma del viso.
Entrambi si voltarono verso l’intrusa.
- Oh, buon pomeriggio signore – la donna salutò cortesemente.
- Buon pomeriggio - rispose tranquillo e con una piccola spinta si alzò dal muretto.
- Bene, ci vediamo allora - concluse lui, ritrovando tutto il distacco iniziale. Vale lo squadrò meglio e pensò che anche lui era stato molto distaccato, un po’ di più della gente che conosceva di solito.
- Ci vediamo – rispose, ma le rimase in bocca il retrogusto del curioso. Forse era solo riservato... o forse anche lui non si fidava della gente.
Accompagnata dalle braccia della governante, ritornò dentro, questa volta utilizzando la comune porta.

Gloria camminava sul marciapiede, stando attenta a tenere la piccola Giorgia per mano e a non lasciarsela sfuggire, dato che si dimenava come una matta. Quando voleva correre dietro ai piccioni che si posavano a terra era difficile controllarla, se non quasi impossibile.
Con una mano teneva a bada la piccolina, con l’altra teneva le tre buste cariche di spesa e nel mentre parlava al telefono, incastrato abilmente tra la spalla e la testa, piegata da un lato.
Stava parlando con sua sorella Brigitte che la informava sulle condizioni di salute di Valentina in modo più dettagliato di quanto non potesse fare sua figlia. Fu ben felice di sapere che si era ripresa quasi completamente, che non si svegliava più la notte tutta sudata, che la tranquillità gliela si leggeva sul viso.
- Ma dove sei Glo? Si sente un baccano! - tuonò poi la sorella, sentendo i rumori delle auto e le urla della bambina, amplificate dal microfono del cellulare.
- Mamma! Io voglio inseguire i piccioni, voglio inseguire i piccioni, voglio inseguire i piccioni! – urlò Giorgia più capricciosa che mai. Quando la mattina si svegliava anche mezz’ora prima, era ancora più insopportabile per tutto il giorno.
Gloria sospirò e alzò gli occhi al cielo.
- Sono per strada e devo tenere a bada la piccolina che cerca di sfuggire alla presa della mia mano e con l’altra libera devo portare le buste della spesa. Stiamo andando a casa. Grazie al cielo siamo arrivate quasi. –
Si ripromise che la prossima volta che le sarebbe venuto in mente di fare una passeggiata a piedi, invece di usare la macchina, si sarebbe ricordata di quella mattinata terribile.
- Oh, scusami! Pensavo che fossi libera, ti ho tenuto così tanto al telefono! Avrai fatto i salti mortali! –
Gloria prese dalla borsa le chiavi di casa e ringraziò mentalmente che fosse arrivata a casa sua.
- Beh, in effetti... Ora ti lascio Brigitte, sto salendo e mi raccomando a Valentina -
Si salutarono, poi Gloria ripose il telefono nella borsa.
Ma... con che mano?
Guardò la sua mano e vide che era libera, poi si guardò intorno e di Giorgia nemmeno l’ombra.
I suoi occhi si sgranarono, mentre terrorizzata si guardava attorno, pregando di scorgere la figura di sua figlia da un momento all’altro.
Ma non vedeva nulla. Lasciò la spesa nel portone e lo chiuse, poi con le lacrime agli occhi cominciò a correre intorno all’isolato.
- Giorgia! Giorgia, dove sei? – urlava sconvolta. Il cuore le batteva convulsamente.
Svoltò un angolo qualsiasi, sbatteva contro la gente, ma non vedeva nulla, se non visi sconosciuti che la fissavano alcuni accigliati, altri spaventati, altri preoccupati.
- Giorgia! – continuava ad urlare il suo nome – scusi ha visto una bambina con i capelli corti, gli occhi marroni e grandi, alta all’incirca così? – e indicò con la mano un’altezza di circa un metro e qualche centimetro da terra. L’uomo a cui si era rivolta fece cenno di no con la testa, avvilito.
Continuò a percorrere la strada, quando all’improvviso: - Mamma! – una voce infantile e limpida la fece voltare.
Il volto era rigato dalle lacrime e deformato dal terrore.
Vide la piccola Giorgia che tendeva le braccia verso di lei in braccio ad un uomo abbastanza alto e brizzolato. Le andò incontro e senza nemmeno fare caso alla persona che quasi gliela porgeva. La prese fra le braccia e la strinse, premendo la mano sulla piccola nuca bianca e pallida.
- Non farlo mai più, capito?! – urlò quasi, continuando a piangere ad occhi chiusi.
Immerse il viso nel collo della bimba, poi aprì gli occhi.
Si trovò di fronte un uomo.
- Oh, grazie, grazie infinite.- disse quasi adulante. Lui sorrise gentilmente, rivelando una fila di denti bianchi e perfetti. Le brizzolature tra i capelli lo rendevano ancora più affascinante.
- Ma si figuri. L’ho trovata nella traversa qui di fronte – e la indicò con il dito – e poi ho visto lei che piangeva e urlava un nome. A quanto pare si chiama Giorgia -
- Non so come sdebitarmi – pigolò quasi interrompendolo – Cosa posso fare per ringraziarla? – chiese facendo scendere la piccola Giorgia dalle braccia e la posò a terra, stando attenta a serrarle bene la mano intorno al polso.
- Può accettare il mio invito a cena - disse lui, cordiale e sorridente. Gloria ricambiò il sorriso, pensando da quanto tempo non si divertisse e non usciva un po’.
- Beh, glielo devo. Gloria, piacere - e raggiante gli porse la mano (quella libera).
- Daniel, il piacere è tutto mio - gliela prese e gliela baciò.
 
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Fee1702
view post Posted on 6/3/2009, 18:55




Io adoro questa tua Fanfiction.. non vedo l'ora di arrivare ai capitoli che non ho ancora letto *-*
 
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52 replies since 18/2/2009, 10:49   2480 views
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