We're all alone, Sequel di "Le ali spezzate"

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Shynee
view post Posted on 29/7/2009, 10:25 by: Shynee




Posto ora perchè poi sarò a Gallipoli e non potrò postare. ^^

Capitolo 3.

Non c’erano programmi per il giorno dopo, grazie al cielo. Solo un’intervista veloce, che si esaurì nel giro di un paio d’ore perché i ragazzi avevano imparato a memoria le risposte in inglese delle domande. Si incontrarono tutti in un ambiente piccolo ma ben organizzato, provvisto perfino di un’anticamera, che era tanto grande da poter tranquillamente passare per un’altra stanza. Vale era in quella stanza, e stava facendo qualcosa di non propriamente giusto: stava origliando una conversazione al telefono di David. Normalmente non lo avrebbe mai fatto, ma dopo la conversazione a cui aveva casualmente assistito si era incuriosita parecchio, ed anche un po’ preoccupata. Ed ora era lì, che cercava di captare tutte le parole grazie alla fessura della porta socchiusa.
- Ma no che non è troppo, i ragazzi ci sono abituati. Ne saranno perfino felici, immagina. Per i fans non sarà un problema, ci sarà altro a distrarli. Sì, di questo parlerò con Natalie, tu devi solo occuparti di rendere la cosa pubblica… -
- Che stai facendo? –
La voce di Gustav giunse così inaspettata che per lo spavento le caddero cartelletta e cellulare a terra e per poco non lanciò un urlo. Il cuore nel petto pompava sangue veloce, troppo veloce.
- Dovevi star facendo qualcosa di poco lecito per spaventarti così – le disse con tono gentile, mentre si abbassava a raccoglierle la cartellina e il telefonino. Vale scrutò il suo viso in cerca di qualcosa che somigliasse alla rabbia o alla curiosità, ma non vide nulla del genere.
- Ehm, no, veramente cercavo David e aspettavo… che finisse di parlare al telefono – buttò lì la prima scusa plausibile, prendendo la cartellina che Gustav le porgeva e infilando il cellulare in tasca. – Grazie. Avevi bisogno di qualcosa? – domandò sedendosi poi su una delle panche.
Il batterista sembrò tentennare un momento, poi la raggiunse e le si sedette accanto. - Veramente no. L’argomento di conversazione di là è noioso e ho cercato un posto dove stare in santa pace –
- Ti capisco – ammise spontaneamente, - A volte mi capita di sentirmi un’aliena quando vi sento parlare tra di voi. Sembra proprio che non abbia niente da condividere… – continuò abbassando la testa, un sorriso amaro a solcare il viso. In fondo era quello il problema, no? Non riusciva a sentirsi parte integrante del gruppo. Non era come Natalie, la truccatrice, che era molto a suo agio e sembrava quasi una loro sorella, o come Dunja, che faceva un po’ da mamma a tutti. Chi era lei là dentro?
- Non sei un’aliena, te lo assicuro – le disse Gustav appoggiandosi con la schiena alla parete. - Anche io a volte li sento parlare e mi chiedo che diavolo ci faccia con loro. Siamo i più riservati, ma questo non vuol dire che non siamo nessuno –
Quella rassicurazione, assolutamente imprevista, agì come un balsamo: un peso grande più o meno quanto una casa sembrò dissolversi lentamente dentro di lei, lasciando spazio unicamente alla tranquillità.
Sorrise davvero, per la prima volta in quella giornata nuvolosa. – Fai sempre questo effetto calmante su chi ti parla? Perché se è così devo ronzarti intorno più spesso – scherzò guardandolo.
Mai avrebbe pensato di trovare un punto di contatto proprio con Gustav, una delle persone del gruppo con cui comunicava di meno. E la cosa… le piaceva. Forse non era del tutto diversa.
- Più o meno – rispose lui con la stessa espressione ironica.
- Ne avevo bisogno. Grazie – gli disse poi, seria. Aveva dimenticato cosa significasse avere qualcuno da cui essere rassicurata: aveva cancellato il concetto di amicizia dalla sua mente, ed era diventato automatico per lei fronteggiare tutti i problemi e tutte le sensazioni negative da sola, tenendosi tutto dentro, piangendo in silenzio, di notte, quando era certa che nessuno l’avrebbe sentita. Piangendo per cosa, poi…?
- Figurati – minimizzò con un gesto noncurante della mano. - E poi, tra tutte le assistenti che ci sono passate sotto gli occhi tu sei quella che mi piace di più –
Lei ridacchio: - Perché? –
- Riesci a zittire Tom -
Entrambi risero di gusto. Ma mentre lei rideva c’era un solo pensiero che gravitava nella sua testa: Bill. L’aveva evitata per tutto il giorno e non le aveva nemmeno parlato. Forse quello che era successo la sera prima era più importante per lui di quanto non lo fosse per lei.
La porta che si apriva nella stanza più interna si spalancò di botto. E, come se avesse sentito il suo pensiero, comparve Bill, che appena li vide insieme si rannuvolò.
- Quando ce ne andiamo? – domandò con voce insolitamente grave. Il suo sopracciglio era schizzato in alto come se fosse esploso. Vale fece finta di non notare il tono aspro e tagliente che le aveva rivolto, e il modo in cui aveva posto la domanda, che evidentemente non comprendeva l’educazione.
- Dobbiamo aspettare che David… –
- Ho finito –
Proprio in quel momento entrò il produttore. Li avvisò che dovevano tornare in albergo per permettere a tutti di cambiarsi e che il pomeriggio erano liberi di fare ciò che volevano. La mente di Vale corse subito ad un giro turistico per Chicago: visitarla veramente era sempre stato il suo sogno. Ritornarono tutti in albergo, accompagnati dal solito minivan nero che utilizzavano per gli spostamenti brevi. Mentre lei si dirigeva nella sua camera, Bill le si avvicinò, camminandole accanto con il tipico passo deciso e sfrontato.
- Ti ho vista molto a tuo agio con Gustav, prima – esordì.
Era stato un po’ mordace o era una sua impressione?
- Sì, infatti – replicò senza guardarlo in faccia e camminando spedita.
- Cos’è, all’improvviso sei diventata socievole ed estroversa? –
Cosa??
Strabuzzò gli occhi e si voltò a guardarlo. – Scusa? – domandò, pregando che i sottintesi che aveva colto in quella provocazione fossero solo frutto della sua mente.
- Hai capito bene -
Ma a quanto pare no.
Inchiodò nel bel mezzo del corridoio deserto, consapevole di aver passato da un pezzo la stanza di Bill e quella degli altri. Si poteva vedere la sua porta.
- Preferivi che me ne stessi a piangere perché da ieri non mi rivolgi la parola? –
Inizialmente Bill rimase spiazzato, come se non si aspettasse una risposta del genere. Poi il suo volto s’illuminò di un’espressione caustica.
- Ah, ho capito che volevi fare. Non ti facevo così intraprendente -
Le venne voglia di prenderlo a schiaffi per quanto era infantile. Si limitò a stringere i pugni ai lati del corpo, e ad affondare le unghie nella pelle.
- No, tu non hai capito niente - ringhiò. Lei cercava solo la compagnia di qualcuno che non pretendesse niente da lei. Niente, in tutti i sensi. – Tu mi stai solo facendo una stupida scenata e stai cercando un pretesto per litigare, ma siccome non ne ho voglia, me ne vado -
Fece per andarsene, ma sentì la mano calda di Bill stringersi attorno al suo braccio e imporle di rimanere lì dov’era. Il suo calore stonava terribilmente con la quantità di forza che aveva usato per voltarla di nuovo verso lui.
- Dimmi, Valentina… quanto è normale che diventi di pietra appena ti tocco? – domandò, teso e arrabbiato.
La pelle del palmo della mano cedette. L’unghia penetrò nell’epidermide, in profondità.
Non rispose. Non aveva risposte da dargli.
- Che cosa siamo noi? - chiese ancora Bill, che invece sembrava ansioso di ottenerle.
Si era posta quella domanda almeno un centinaio di volte: cos’era Bill per lei?
L’ironia della situazione era che lei non la conosceva, la risposta. L’unica certezza era che di Bill non poteva fare a meno. Non poteva rinunciare ai suoi sorrisi e ai suoi occhi che si scaldavano ogni volta che la guardava, e nemmeno alla preoccupante capriola che il suo stomaco faceva ogni volta in cui lui la toccava. Ma c’era qualcos’altro dentro di lei, quel maledetto “qualcos’altro” che cancellava di botto tutte le motivazioni che glielo facevano desiderare e che la obbligava a rinchiudersi in se stessa a doppia mandata.
- Dove vuoi arrivare? – chiese, già sulla difensiva.
- Da nessuna parte. Trai tu le tue conclusioni. Oppure vai da Gustav a fartele suggerire – rispose pungente.
Un comportamento del genere non se lo aspettava. Dov’era finito il Bill che aveva conosciuto a Berlino?
- Sei… - mormorò, ma lasciò la frase in sospeso: aveva caricato quella parola di tutto lo sdegno e la delusione che provava, qualsiasi altra cosa sarebbe stata superflua. Comunque avrebbe voluto dirgli che era un perfetto stronzo.
- Sono…? – la incalzò lui curioso, la fronte increspata.
Scosse la testa e lasciò perdere, poi fece un respiro per calmarsi. – Con Gustav stavo parlando. Tu eri troppo occupato a riservarmi sguardi offesi – spiegò. Sentì gli strascichi delle scuse in quella frase. Ma di cosa doveva scusarsi, poi? Non aveva fatto niente.
- Ero arrabbiato per ieri sera. Ti ho solo baciata sul collo, cazzo! – esclamò, schietto e diretto come sempre.
- Lo so! Ma non posso farci niente, non dipende da me! – sbottò.
Fu quando sentì la risposta di Bill che si accorse di aver controbattuto nel modo sbagliato.
- E da cosa dipende? Ti vuoi decidere a dirmi perchè cazzo quando faccio un passo verso di te tu ne fai due indietro? – urlò lui, arrabbiato.
- NO! – strepitò lei di rimando, spinta da un desiderio di difesa istintivo. Doveva difendersi, difendere il suo segreto, la sua vergogna. Stava agendo come una bambina, e lo sapeva. Ma non poteva fare nulla per fermarsi.

Sbatté con forza l’uscio, e anche dietro la barriera spessa dei muri, riuscì a captare lo sbattere di un’altra porta poco dopo.
Fanculo.
Non sapeva esattamente chi o cosa incolpare, ma si sentiva ugualmente furiosa. I ricordi degli ultimi minuti erano ancora sfocati, ma la rabbia, la frustrazione, la delusione, quelli erano chiari e vividi, e scorrevano come acido nelle vene.
Che accidenti poteva farci lei se era sbagliata? Che poteva farci?
La rabbia fu talmente tanta che batté con forza un pugno sul letto, ottenendo in cambio solo un suono attutito, invece dell’effetto distruttore che sperava. Le ultime parole che Bill le aveva urlato dietro dopo quel “no” secco erano state terribili. Terribili. Non le volle ricordare, ma era come se la prendessero a bastonate con un attizzatoio rovente.
Odiava Marco. Odiava il responsabile del suo blocco, della sua paura e di tutto quel casino. Lo odiava, in quel momento lo odiava come non l’aveva mai odiato. Lo avrebbe squartato con le sue mani.
Si stese sul letto affondando la faccia nel cuscino. Non seppe quanto tempo rimase lì, a respirare a stento. Probabilmente un’ora e mezza, forse di più. Sarebbe rimasta arenata nella sua condizione di inerzia, ma il bussare alla sua porta la costrinse ad alzarsi e ad andare ad aprire.
Se fosse stato Bill, gli avrebbe sbattuto la porta in faccia.
- Dunja, Natalie. Ciao – disse sorpresa.
Notò il look di Dunja, che la sorprese appena: aveva sciolto i capelli biondi, di solito sempre legati in una coda ordinata, e si era anche truccata un po’. Natalie invece era sistemata e agghindata come sempre.
- Ciao Vale! Siamo passate per chiederti se volevi unirti a noi, oggi pomeriggio. Facciamo un giro turistico per la città prima di partire – la informò Dunja gioviale.
L’idea le parve ottima. Inoltre, non aveva alternative se non voleva passare il pomeriggio a farsi del male da sola con pensieri autodistruttivi.
- Certo! – acconsentì, sforzandosi di sorridere. Si scostò per permettere loro di entrare, poi richiuse la porta.
- Tira giù quei capelli, per l’amor di Dio – disse Natalie con voce esasperata, mentre lei si dirigeva in bagno.
Non le era molto simpatica, Natalie. Aveva una voce stridula e ogni tanto faceva battutine taglienti non proprio piacevoli. Non era ancora riuscita a capire come facesse ad andare così d’accordo con Bill.
Quando uscirono dal famoso Peninsula Hotel a cinque stelle e si ritrovarono su Rush Street, decisero che un giro per negozi e boutiques era l’ideale. Valentina sapeva che quella strada di notte veniva illuminata da migliaia di luci e che era uno degli spettacoli più belli di tutta Chicago, cui gente di varie parti del mondo veniva ad assistere. In effetti il poco che aveva visto di quella città era splendido.
- Allora… - cominciò Natalie rivolgendosi verso di lei mentre camminavano, - Tu e Bill, eh? – fece, guardandola con un sorriso furbo. Si accorse che anche Dunja la stava guardando in attesa di una sua risposta, con l’unica differenza che il suo sguardo non era pungente e indagatore come quello di Natalie.
- Ma come…? Non lo sa quasi nessuno – rispose basita. Dello staff solo David era a conoscenza della loro relazione. Se poteva chiamarsi così.
La truccatrice fece una risatina snervante. – Penso che dopo il bisticcio che avete avuto in hotel, poche persone non lo sappiano –
Oh no… no, no, no!
- Non devi sentirti in imbarazzo. E’ normale litigare, specialmente in una coppia – la rassicurò Dunja.
- Bill, fidanzato… con te, poi! Non l’avrei mai immaginato – continuò Natalie scuotendo la testa, l’espressione tesa e meravigliata. Vale decise di ignorarla, perché le stava veramente facendo saltare i nervi, e non aveva bisogno di altra rabbia.
- Io sì, invece – disse Dunja sorridendo, - Lo vedevo camminare sulle nuvole da un po’, ma non immaginavo che la causa fosse tanto vicina – continuò, scansando all’ultimo momento un passante che parlava al telefono.
- E le cose vanno male? – le chiese Natalie di nuovo interessata.
Eccola, la domanda che non voleva assolutamente che le si ponesse. Poi si trovò a riflettere: perché no? Loro erano le uniche ragazze più vicine, quindi perché precludersi un possibile rapporto d’amicizia?
- Diciamo che non riesco a… lasciarmi andare – ammise, a fatica. Dirlo ad alta voce era molto più difficile di quanto immaginava.
- Ma che sciocchezza! – stridette Natalie accanto a lei, - Solo un morto non riuscirebbe a lasciarsi andare con un ragazzo come Bill –
Okay, calma. Calma.
- Natalie, chiudi quella boccaccia da vipera – le intimò Dunja. La prese rudemente da un braccio e la spostò a destra, in modo da mettersi al centro delle due. Tutte e tre occupavano praticamente metà del marciapiede. La bionda mise il broncio dopo aver borbottato qualcosa e dedicò l’attenzione alle vetrine che le scorrevano accanto.
- Non riesci a lasciarti andare, allora. Perché? – le chiese Dunja pacata.
Era strano, si sentiva come… come se stesse parlando a sua madre. Una donna adulta che le rivolgeva attenzioni così disinteressate, materne. Era un’altra delle cose che aveva dimenticato. Quanto aveva perso della sua umanità in quei mesi?
- Io… non lo so – mentì, - Però questa cosa lo irrita molto -
Sarebbe stato più corretto dire che lo mandava in bestia.
Un dito poggiato sulle labbra, Dunja scrutò qualcosa con aria cogitabonda. Stava riflettendo, sembrava che dovesse risolvere un problema di matematica.
- Che stai pensando? – le chiese curiosa.
- Ragazze, guardate quel vestito! Devo assolutamente prenderlo! – squittì Natalie mentre sbavava su una vetrina. Subito dopo le trascinò all’interno del negozio, dove facevano bella mostra di sé manichini vestiti di abiti da sera. Comprò un tubino blu notte, il busto rigido e la gonna che si allargava sotto le ginocchia e un miniabito bianco, estivo, con qualche paillette sparsa qua e là. Quando uscirono, la bionda aveva due buste enormi, e Vale si chiese cosa diavolo ci avrebbe fatto con due vestiti che non avrebbe messo mai.
- Dicevamo? – si rivolse di nuovo a Dunja. Non avrebbe ripreso la conversazione, normalmente. Però in quella situazione non sapeva proprio che pesci pigliare. Aveva bisogno di un consiglio, per quanto ammetterlo fosse scocciante.
– Magari a farlo arrabbiare è solo il fatto che non ti fidi di lui -
- In che senso? -
- Bill ha sempre avuto la fiducia delle persone più care. Se sa che tutti si fidano di lui, anche lui si impegna a non deludere nessuno. Immagino che vedere la sua ragazza che a malapena gli rivolge la parola lo destabilizzi un po’ – le spiegò paziente.
- E come faccio a fidarmi di lui? Non è una cosa che riesco a controllare - disse. Si sentiva ridicola, e probabilmente era arrossita. Si stava comportando come una stupida novellina alle prime armi. A pensarci bene, però, lei era una stupida novellina alle prime armi.
Natalie sbuffò di nuovo e alzò gli occhi al cielo. – Valentina, svegliati! Quando stai con lui invece di pensare a quanto ti senti “bloccata”, pensa a quanto ti piace. Anzi, non pensare affatto, e le cose vanno da sole –
- Beh, il concetto è questo – asserì Dunja.
Puntò lo sguardo in basso. Quando lei e Bill si erano incontrati al concerto di luglio, non aveva pensato a niente. Si era solo lasciata guidare dall’istinto.
Sì, forse la voce stridula di Natalie aveva ragione. Decise di fidarsi. Dopotutto… che aveva da perdere?
- Grazie – disse sorridendo. Dunja ricambiò, Natalie le scoccò un’occhiataccia e rivolse lo sguardo altrove, ma lei non ci fece caso.
Ed adesso, era ora di shopping.


- Che palle. Che palle -
Era notte fonda ormai, e Bill mugugnava quelle parole da tutto il pomeriggio. Si era rintanato in camera rinunciando all’uscita pomeridiana e non aveva mangiato. Si era messo a letto, provando ad addormentarsi per scacciare il cattivo umore, ma niente. Aveva cambiato posizione almeno un centinaio di volte: si era schiacciato il cuscino in testa, si era coperto, riscoperto e poi ricoperto in modo compulsivo, ma niente. Niente di niente. Non c’era rimedio.
Alla fine mandò mentalmente al diavolo tutto e si alzò dal letto, stizzito.
Doveva chiarire con lei. Doveva parlarle, chiederle scusa, insomma fare qualsiasi cosa che potesse cambiare quella situazione. In fondo, ma molto in fondo, aveva sbagliato anche lui: si era comportato da vero stronzo insensibile.
La verità era che gli dava terribilmente fastidio che Vale non abbassasse le difese con lui. Anzi, volendo mettere da parte l’orgoglio, era più esatto dire che gli faceva davvero male.
S’infilò un paio di pantaloni della tuta ed una maglietta qualsiasi, il senso di colpa che cresceva dentro di lui sempre più. Non gli importava di svegliarla, e nemmeno dell’eventualità di sembrare patetico. Sorrise amaramente e uscì dalla porta: di certo qualche mese prima non si sarebbe mai comportato così.

Sentì bussare alla porta, piano. Sollevò lo sguardo dal libro che stava leggendo, riponendolo sul letto per alzarsi e dirigersi verso l’entrata. La stanza era illuminata unicamente dalla debole luce bianca dell’abat-jour sul comodino. Quella luce le piaceva. Creava un’atmosfera di raccoglimento che lei adorava.
Giusto perché aveva un vago sentore di casa. Casa…
Aprì di poco la porta, il tanto che bastava per spiare all’esterno: Bill era di fronte a lei, tuta da ginnastica, capelli buffi e arruffati, che guardava in basso, strisciando un piede sul pavimento.
Non si aspettava di vederlo. Lui era l’ultima persona che avrebbe pensato di incontrare dietro quella porta, specialmente dopo la discussione avuta il pomeriggio.
- Bill – disse, sorpresa.
- Ciao – la salutò, guardandola per pochi secondi da capo a piedi: nemmeno lei era al massimo del suo splendore, coperta da un pigiama largo due volte le sue dimensioni e i capelli annodati sulla testa con una matita.
- Posso entrare? – chiese infine, la voce ridotta ad un sussurro.
Perché le sembrava quasi che si volesse scusare?
- Sì… -. Si scostò e aprì la porta per permettergli di passare, poi la richiuse, accostandola dolcemente.
- E’ bello qui – commentò Bill, guardandosi un momento intorno.
Bello? L’ambiente era raccolto, i mobili in legno disposti ordinatamente, e le lampade posizionate in modo da diffondere la luce nei punti giusti, ma quella stanza era sicuramente meno lussuosa della suite che aveva Bill.
- Sì, è vero – rispose comunque, stringendosi nelle braccia per riscaldarsi. Perché? Faceva caldo. - Cosa c’è, Bill? – chiese poi con voce un po’ risentita.
Lo vide scrollare appena le spalle, come se non riuscisse a muoversi troppo.
- Non riuscivo a dormire. Forse ho bevuto troppo caffè, non lo so… E poi volevo scusarmi per oggi pomeriggio –. Sembrò trovare un po’ di coraggio per guardarla negli occhi. Non l’aveva fatto ancora da quando era entrato. Le diede l’impressione di un bambino in castigo, ma non le fece nessuna tenerezza. Allora perché tutta la rabbia che provava si stava lentamente spegnendo?

- Mi sono comportato davvero male – aggiunse.
Lei rimase immobile, a guardarlo con sguardo indagatore. L’espressione del suo viso però non rivelava niente di quello che le si stava agitando dentro. Non aveva ancora pensato che era da sola con Bill, per la prima volta veramente.
- Io… io non lo so perché mi sono arrabbiato così, è stato involontario, okay? Non volevo metterti in imbarazzo, tantomeno dirti quelle cose nel corridoio, perchè non penso niente di ciò che ho detto, è solo che mi sono sentito deluso, perché dopo tutto questo tempo tu… -
- Hai ragione – lo interruppe. La rabbia non c’era già più. Aveva lasciato spazio solo al desiderio di aggrapparsi addosso a quel corpo sottile e di parlare, parlare senza freni. Perché doveva frenarsi?
Lui aveva ragione, maledettamente ragione. E doveva dirglielo allora.
- Cosa? – chiese confuso lui, prendendo fiato.
- Hai ragione – ripeté, più convinta. – Il problema è mio -
Si avvicinò, i piedi scalzi che toccavano la moquette e poche parole che le si agitavano in mente e in bocca, ansiose solo di essere pronunciate. Gli arrivò vicino, molto vicino, così vicino che dovette alzare lo sguardo per incrociare i suoi occhi.
L’istinto di cambiare argomento e di pietrificarsi era forte. Ma anche ciò che sentiva di provare per Bill in quel momento era forte. Forse anche di più.
Le tremarono le labbra, i denti, il mento. Tutto del suo corpo si rifiutava. Aprì la bocca con fatica.
- Mio cugino… ha provato… a violentarmi – scandì lentamente, guardandolo fisso negli occhi. – E… ogni volta in cui tu, noi… io rivedo lui – continuò, mordendosi le labbra subito dopo. Anche la voce prese a tremarle, diventando instabile e più acuta, e gli occhi si velarono subito di un offuscato strato di lacrime.
Ecco, era fatta. Si sentì assalire dalla vergogna. Perché lei era sbagliata, non riusciva ad essere donna fino in fondo. E magari a Bill non sarebbe più andata bene, l’avrebbe rifiutata una volta per tutte.
Il ragazzo di fronte a lei aveva quasi smesso di respirare
- Io… - cominciò. Ma era evidente che non avrebbe continuato.
Okay. Aveva fatto un grosso, grossissimo errore. Nei dieci secondi successivi si diede della stupida almeno una cinquantina di volte. Poi Bill si mosse. Circondò il suo polso con le dita e l’attirò a sé, piano, avvolgendola in un abbraccio caldo. Nascose il viso nell’incavo del collo, permettendole di percepire le ciglia muoversi sulla sua pelle.
Si sentì immediatamente riscaldata, sollevata, leggerissima. Gli si aggrappò addosso e afferrò le pieghe della maglietta, trattenendo le lacrime fino all’ultimo, il sollievo di poter essere se stessa che la pervadeva completamente.
Dopo tanto, tanto tempo sentì di non essere veramente sola. Percepì concretamente la presenza di qualcuno accanto a sé, anzi, più in profondità, quasi dentro di sé, dentro i suoi sentimenti. Lui c’era.
Bill sollevò la testa, senza però smettere di abbracciarla e le asciugò qualcosa di bagnato che era colato sulla guancia. Non ci era riuscita. Pazienza.
- Tu… non so come abbia fatto a tenertelo dentro. Tutte le mie pressioni… scusa. Scusa davvero - disse affranto.
Lei gli passò un dito sulle labbra, e gli rivolse un sorriso umido. Avrebbe voluto dire che anche lei avrebbe fatto meglio a dirglielo prima, che si sarebbero risparmiati tanti problemi, ma non lo fece.
- E’ solo che io… -, Bill fece un respiro profondo, - Ti ho sempre vista così distante, così chiusa in te stessa, sempre schiva… io volevo… io voglio starti accanto e averti vicino a me, perché… - rise appena e scosse di poco la testa, come se ciò che stava dicendo non sembrasse vero nemmeno a lui, - Perché tu mi hai fatto innamorare come un pazzo, e ormai non ce la faccio più a pensarti lontano dalla mia vita -
Il cuore le risalì in gola. La realtà circostante scomparve, il tempo si fermò. Per un istante sentì solo l’eterno investirla interamente e travolgerla.
Con i lembi di un ricordo lontano che le passavano davanti agli occhi, si alzò sulle punte e lo baciò, cogliendolo irrimediabilmente impreparato. Il suo sapore era sempre lo stesso.
Anche lei lo amava. Era una certezza che aveva sempre avuto, qualcosa di cui non aveva mai dubitato. Magari gliel’avrebbe detto, più in là, quando avesse trovato il coraggio.
Si separarono. Respiri affannosi e labbra turgide.
- Non te ne andare – sussurrò lei. Le parole erano state pronunciate ancora prima di essere pensate. Perché lo voleva davvero lì, voleva sentire il suo calore.
- No… – ansimò Bill, in risposta. Poi, timidamente, come se fosse la prima volta, ritornò sulle sue labbra.
 
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