We're all alone, Sequel di "Le ali spezzate"

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Shynee
view post Posted on 12/4/2009, 16:30




Prologo




- Tra quanto tempo abbiamo il concerto? – chiese David con fare impaziente, battendo un piede sui tappetini dell’auto.
Dunja, appollaiata sul sedile di fronte a lui, si strinse nelle spalle, e lanciò un’occhiata alla ragazza sedutale accanto che appuntava qualcosa sul foglio sostenuto da una cartelletta rigida.
- Valentina? -
La ragazza smise di scrivere e sollevò la testa. – Tra esattamente due ore. Arriveremo tra mezz’ora, i ragazzi verranno sistemati nei camerini del club, poi potranno dedicarsi al soundcheck, previsto tra un’ora esatta – rispose, in perfetto tedesco. Poi ritornò a scribacchiare qualcosa su un angolo del foglio.
- Cosa scrivi? – le chiese Dunja, curiosa.
- Un appunto. Devo ricordarmi di chiedere al tecnico delle luci se ha apportato la modifica ai fari superiori che avevo chiesto per telefono –
Beh, era efficiente, meditò David, non c’era di che lamentarsi. Sempre accorta a svolgere tutto nel migliore dei modi, precisa e attenta a non creare problemi, né rappresentarne. Non si era pentito di averla assunta e di averla affidata a Dunja, e doveva ammettere che da quando c’era lei (cioè circa da un mese e mezzo) che si occupava di tutte le piccole cose, il lavoro era più semplice, specialmente per Dunja.

Flashback.

David si accomodò sulla grande poltrona di pelle dietro la scrivania, e la ragazza si sedette su una delle sedie striminzite davanti a lui.
- Dobbiamo trovare un modo per renderti utile nello staff. Un lavoro stabile, adatto a te, e che ti consenta di passare inosservata – disse. Aprì un cassetto sotto la scrivania per estrarne il fascicolo con l’elenco di tutti i dipendenti.
- Lavoro? – ripeté la ragazzina, stranita.
- Sì, lavoro. Ti aspettavi che ti avremmo mantenuta noi? Devi renderti utile se vuoi restare, altrimenti puoi anche togliere le tende – le rispose sprezzante. Quella ragazza non la poteva soffrire, a prescindere da tutto.
Lei tacque.
- Bene, cosa sai fare? – le domandò alzando un sopracciglio. – Che lingue conosci? – continuò subito dopo.
La vide mordersi appena le labbra. Chissà cosa le passava per la testa.
– L’ italiano perché è la mia lingua madre, e il tedesco perché ho vissuto in Germania a lungo. E ho due specializzazioni in inglese - rispose.
David spulciò i vari fascicoli dei dipendenti, esaminandoli per bene uno per uno. Ci doveva pur essere qualcuno a cui affibbiarla, per l’amor del cielo! Non poteva mica accollarsela lui!
Quando arrivò alla scheda di Dunja Pechner, si fermò.
- Dunque – cominciò dopo aver pensato un po’, - Ti affido il ruolo di assistente di Dunja Pechner, la donna bionda che hai visto qui fuori poco fa, prima di entrare. E’ il promoter della band, ha il compito di organizzare i concerti in luoghi idonei, assumendosi ogni onere organizzativo locale, la copertura finanziaria dei costi, gestione della vendita dei biglietti e cose così – le spiegò, guardandola negli occhi.
La ragazzina seguì tutto il suo discorso con attenzione, registrando tutte le informazioni.
- Quindi io cosa dovrei fare? -
- Tutto ciò che ti chiede. Aiutarla. E’ una persona valida, ma da sola non può gestire una mole così grande di impegni. Il tuo compito è prenderti una parte di quella mole – le spiegò guardandola.
Chissà perché, David aveva il dubbio che non ce l’avrebbe mai fatta. Sembrava una di quelle ragazzine con la puzza sotto il naso, poco schietta e con un non so che in quello sguardo indecifrabile e un po’ malinconico che la faceva sembrare una mezza rammollita.
- Adesso, mi serve una firma per convalidare la tua posizione e la tua carta d’identità –. Estrasse un contratto dal cassetto lasciato aperto e glielo mise davanti. La ragazza estrasse il suo documento e glielo porse. Lesse, poi afferrò una penna dal portapenne e firmò dove doveva. Stava già per andarsene, raccoglieva la borsa e l’appendeva alla spalla.
- Un’ultima cosa – la bloccò. Prese a giocherellare con una penna, tamburellandola sulla scrivania di legno.
- Prego –
- Voglio definire la tua posizione con Bill –. David assottigliò gli occhi, puntando le pupille sul volto di lei. - E’ solo un ragazzo, e questa volta ho deciso di accontentare uno dei suoi capricci. Ma non voglio vedere, per nessun motivo al mondo, effusioni in pubblico. Pretendo che non lo distolga dal lavoro, che non gli metta in testa idee strane, che… -
- Senta – lo interruppe lei, - Non penso che ci saranno problemi riguardo a questo. Di certo non mi darò all’amore libero in presenza di orde di fan accanite, non sono stupida –
La vide arrossire vagamente, mentre stringeva la tracolla della sua borsa.
- Allora è tutto sistemato. Puoi andare -


E aveva mantenuto la parola. Non aveva visto lei e il ragazzo sfiorarsi nemmeno una volta in quelle settimane. Dormivano in stanze d’albergo diverse, e si erano a malapena parlati, un po’ a causa del poco tempo che entrambi avevano a disposizione, un po’ perché lei si limitava a dargli informazioni riguardanti il campo prettamente lavorativo, e solo quando era in compagnia della band, senza mai abbandonare quel tono professionale e un po’ distante.
Tuttavia c’era quel modo di guardarsi… quegli occhi che quando si incrociavano si scambiavano un messaggio così esplicito che sembrava lo interpretassero urlando. Doveva tenerli sotto controllo, lei in particolar modo. Perché si era rivelata più intelligente di quanto sembrasse, ed era come una mina vagante.

***



Note: ed eccomi qui a pubblicare il sequel di quella palla di fanfic conosciuta come "Le ali spezzate" XD.
Ammetto che non mi andava molto di scriverlo, poichè quella fanfic mi ha seriamente risucchiata e avevo voglia di qualcosa di nuovo, ma avevo promesso e non potevo tirarmi indietro. Inoltre non potevo lasciare certo una cosa a metà!
Spero che mi seguirete! ^^
 
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Astrid_Mermaid
view post Posted on 12/4/2009, 17:21




Ho aspettato tanto questo momento *.*
Comunque, che Jost veda di farsi gli affaracci suoi -.-'
 
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Fee1702
view post Posted on 11/7/2009, 13:55




Ecco qua! Non so perchè ma mi era sfuggita...
Spero continuerai presto, perchè ho adorato la prima e conoscendoti non mi deluderai nemmeno nella seconda.
 
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Shynee
view post Posted on 12/7/2009, 09:37




Capitolo 1.

- Siamo pronti? - le chiese Dunja, dirigendosi verso di lei.
- Sì. Manca solo qualche minuto – rispose.
I ragazzi fecero tutti un respiro profondo, agitati come se fosse il loro primo giorno di scuola. Poi presero a parlottare fra di loro.
Li aveva osservati parecchio nel tempo passato insieme, e non era ancora riuscita a dare loro una collocazione precisa nella sua mente. Non erano una famiglia, ma non erano nemmeno solo amici. Tuttavia era come se ognuno di loro avesse un ruolo preciso nel gruppo.
- Ragazzi, è ora – annunciò Dunja. – Avanti, non è certo il vostro primo Meet&Greet! – ridacchiò abbassando il maniglione antipanico. Dallo spiraglio che si affacciava nel locale passò una scia di urla che costrinse tutti a fare una smorfia appena accennata.
I ragazzi le sfilarono davanti stampandosi in faccia il solito sorriso di circostanza. Bill non la guardò.
La porta si spalancò del tutto, e Vale vide il locale che aveva scelto per quell’occasione: uno spazio molto grande, ma poco accogliente. Tutto grigio, dalle pareti al pavimento.
La sicurezza trattenne la dozzina di fortunate presenti nell’ambiente enorme, che scalpitavano e si portavano le mani a coprire la bocca per l’emozione.
La porta si chiuse davanti al suo naso, mostrandole solo altro grigio. Bene, ora dovevano solo aspettare un quarto d’ora circa.
- Non potevi scegliere nient’altro? – le chiese Dunja distrattamente. Ebbe il sospetto che volesse solo riempire quel silenzio. Aveva osservato anche lei, e aveva notato un carattere solare e una persona disponibile, sempre pronta alla battuta. Molto restia al silenzio. Purtroppo.
– Non sapevo quante ragazze sarebbero state presenti, mi è sembrato giusto affittare un posto grande – le rispose portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Poi tornò con gli occhi alla solita cartelletta che portava in mano, dove custodiva tutti i documenti importanti. Ormai non se ne separava mai.
- Sei una valida assistente – constatò improvvisamente Dunja con un sorriso. – Ma parli sempre così poco e non sorridi quasi mai. E’ un peccato -
Quella frase la colse di sorpresa. Effettivamente… da quanto non sorrideva? E se non l’aveva notato lei, come poteva averlo notato un’estranea?
– Non ci sono molte occasioni per socializzare, e il lavoro tiene occupati tutti – rispose cercando di risultare simpatica.
- Questo è vero. Ma è anche vero tra i membri dello staff ci sono persone simpatiche, e siamo tutti amici. Dobbiamo esserlo se vogliamo sopravvivere in questa gabbia di pazzi! – ribatté sorridendo.
Anche lei sollevò un angolo della bocca. – Stai insinuando che sono un noioso robot? – domandò, ironica.
Dunja ridacchiò. – No, ma lo diventerai se continui così -
Anche lei si unì alla sua risata, stirando le labbra in un vero sorriso.
- Ora va molto meglio – affermò la donna, evidentemente più serena.
Valentina guardò il suo orologio, poi tornò con gli occhi sul suo capo.
- Potresti avvisare tu i ragazzi quando sarà ora di farli rientrare? Dovrei fare una telefonata importante – le chiese, portandosi tutti i capelli su una spalla. Faceva veramente caldo a Lisbona in agosto, e lei non aveva un maledetto elastico.
- Certo, vai pure – concesse la donna.
Valentina percorse il corridoio buio e scese i tre scalini che conducevano direttamente alla porta d’ingresso. In pochi secondi si ritrovò di nuovo in strada, di fronte al furgoncino riservato ai membri dello staff più vicini alla band.
Estrasse il suo cellulare dalla piccola borsa, fissando il display spento. Si lasciò scappare un sospiro.
Gloria e Samuel avevano provato a rintracciarla, diverse volte. Ma lei non aveva mai risposto. Se fosse per coraggio, o vigliaccheria, non lo sapeva. Ciò di cui era certa era che si occupava con il lavoro appositamente per non pensare. La sua mente le giocava brutti scherzi, e senza che lo volesse la riportava indietro di un mese e mezzo, alla vita che aveva lasciato per disperazione. Inizialmente non aveva nostalgia, ma con il passare delle settimane… era diventato un peso quasi insostenibile. Continuamente i ricordi le passavano davanti agli occhi come la pellicola di un film, a volte sognava sua madre tra le braccia di un uomo dal volto nero. Ma aveva trovato un rimedio.
Scosse i capelli che le erano ritornati appiccicati al collo, facendo quella telefonata di lavoro per zittire la sua testa.
Pochi minuti dopo, i ragazzi e Dunja, Saki, Tobi e altri tre membri dello staff che non conosceva uscirono in strada.
- Staremo nel tourbus o in albergo? – chiese Bill appena la vide. Nel suo campo visivo entrarono anche Tom, che inforcava gli occhiali da sole, e Gustav, che si infilava un berretto rosso in testa. Solo Bill non poteva permettersi di farlo, vista la chioma leonina e gli occhi pesantemente truccati. Perchè un tipo come lui si notava anche se vestito di stracci…?
- Nel tourbus per ora, ma passeremo la notte in albergo – rispose lei, ingoiando.
- E perché usare il tourbus se dobbiamo stare in albergo? Non attira l’attenzione? – intervenne Georg. Non l’aveva visto. Proprio in quel momento un grosso pullman si fermò poco lontano da loro.
- Perché dobbiamo lasciarlo nel parcheggio dell’albergo – rispose Dunja al suo posto. – Ora salite, su. Valentina, tu vai con loro –
Lei si stava già dirigendo nel furgoncino, ma si arrestò di colpo e la guardò con gli occhi sgranati quando sentì quell’ordine. Ma perché, perchè qualcuno aveva deciso di punirla proprio quel giorno?
- Come? – chiese.
- A me sembra un’ottima idea – convenne Bill, regalandole uno dei suoi sorrisi diamantiferi.
Dunja annuì, perfettamente in accordo con lui. - Ma certo che lo è. Siete coetanei, sicuramente ti troverai più a tuo agio con loro che con noi vecchietti – spiegò ancora, aprendo lo sportello del furgoncino.
Lei acconsentì riluttante.
Dopo un paio di sollecitazioni di fare in fretta, salì sul bus dopo i ragazzi. Non l’aveva mai visto dall’interno. Si immaginava un ambiente piccolo e scomodo, poco funzionale. Invece era tutt’altro. Era uno spazio piccolo, sì, ma ben organizzato in due piani. E aveva quasi più mobili di casa sua e tecnologie avanzate.
- Wow – le sfuggì, guardandosi intorno. Le luci erano abbassate, per creare un’atmosfera tranquilla, che si confaceva bene al calare della sera.
- Stai avendo una visione mistica? – le chiese Tom, voltandosi indietro per guardarla. Lei sostenne il suo sguardo strafottente, ma non rispose. Le porte dell’autobus si chiusero dietro di lei.
Immediatamente tutti presero le loro postazioni: Tom e Georg seduti al divano intenti a giocare a qualche videogioco. Gustav con il suo portatile. E lei cominciò già a sentirsi persa, senza un posto. Qual era il suo ruolo lì?
- Vieni – le disse una voce dolce e accomodante, quasi vellutata. Si girò nello stesso momento in cui Bill la prese per mano. Nessuno sembrò far caso a loro. Si lasciò guidare su per le scale, fin quando sentì solo i loro passi echeggiare nell’ambiente, le voci dei ragazzi al piano di sotto sempre più distanti.
Lì, alla luce soffusa dei piccoli faretti incastonati nel soffitto, Bill la rinchiuse in un abbraccio. Lo fece come se non avesse aspettato altro da settimane. Si lasciò trasportare nel suo abbraccio per un po’, poi le loro labbra si cercarono da sole. Si baciarono, con una lentezza voluttuosa che faceva perdere la testa. Non ci fu nessun segno di indecisione o timore, da parte di entrambi. Fu così spontaneo e naturale che Vale ebbe la paura di non riuscire ad apprezzarne la reale bellezza.
- Finalmente… - sussurrò lui quando le loro labbra bagnate si separarono.
Vale la pensava esattamente come lui, ma non c’era bisogno di dirlo. Avevano avuto poche occasioni di stare insieme, troppo poche. E Bill aveva lo strano potere di farla sentire amata, protetta in alcune occasioni, e in certi frangenti aveva bisogno di lui come ne aveva di respirare. Non se lo sapeva spiegare. Lui era come la scoperta di un mondo nuovo. C’era così tanto da vedere, tanto da sperimentare…
Fu scossa da un brivido.
- Vale? – la richiamò.
- Mhm? – mugolò, ancora stretta nel suo abbraccio, la guancia contro il petto.
Ops. Forse aveva dimenticato di dare qualche segno di vita.
- Sei viva? –
- Stai zitto. Fammi rilassare – gli ordinò, continuando a tenere gli occhi chiusi. Era il paradiso quello?
La voce di Bill tremò di riso represso. – E vuoi farlo in piedi? –
Non rispose, limitandosi a sbuffare leggermente. Poi entrambi si sedettero sul letto di Georg, le spalle premute contro la parete e le teste abbandonate. Vale chiuse ancora gli occhi. Si sentiva come incubata in un’aura di pace e serenità, un’aura dove c’era un confortante calore. Ma non lo stesso che si appiccicava addosso durante il giorno, l’afa estiva. Un tepore confortante, rilassante.
- Sai che sono offeso con te, vero? –
Ecco. Aveva rovinato il momento perfetto. Quella lingua tenerla a posto mai?
- Perché? – riuscì a biascicare. Fu una domanda posta più per educazione, che per reale interesse.
- Perché in queste settimane mi hai praticamente ignorato. Ed eri inquietante, sembravi un automa – rispose lui, incurante che le sue motivazioni in quel momento suscitavano in lei lo stesso interesse di una partita di calcio. Cioè zero.
- Sì, lo so. Sono stanca, infatti –
- Ci credo. Costruirsi una maschera addosso e mantenerla è difficile… – constatò. La sua faccia sembrò di colpo stanca. E triste. Catturò tutta la sua attenzione.
- Lo sai bene tu, vero? – lo stuzzicò, cercando di tirarlo su. Bill non colse la provocazione, continuando a rimanere serio. Un’ombra di malinconia gli passò davanti agli occhi, ma fu solo un attimo.
- Volevo dire che mi sei mancata – spiegò, poggiandosi su un gomito. Vale si sentì di colpo in imbarazzo. Anche lui le era mancato, ma non l’avrebbe mai ammesso così facilmente. Non riusciva a capire come Bill riuscisse a dire certe cose con tanta spontaneità.
- Sai che pensavo? – le domandò ancora. Alzò una mano e le portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, scoprendo una guancia colorita. Si sentì sfiorare la pelle, dolcemente.
– Che pensavi? –
- Che di te non so niente - rispose, – Non so nemmeno da dove vieni esattamente -
Vale ridacchiò. – Che grave problema – approvò, sentendo subito dopo la risata di lui unirsi alla sua.
- No, davvero. Mi racconti qualcosa? –
Finse di pensarci un attimo. - Mi chiamo Valentina, ho da poco compiuto diciotto anni e sono italiana, precisamente di Chieti. Mi piacciono gli animali, la pizza, e… -
Bill le diede una leggera spallata. – Dai, seriamente – specificò, sorridendo.
Il sorriso di Vale si affievolì, poco a poco. Si sistemò dritta contro lo schienale di legno improvvisato, ripensando a ciò che aveva lasciato dietro di sé, e sprofondò in un baratro di precaria tristezza. Non c’era niente di bello da raccontare, proprio niente. C’era solo da dimenticare.
- Bill – cominciò, ripescando il suo debole sorriso. - Non ti sembra troppo tardi per le domande difficili? -
Il ragazzo sbuffò. Lasciò cadere una mano sul materasso, e incurvò la schiena contro la parete, guardando avanti a sé.
Ops… l’aveva fatto innervosire.
- Bill, che c’è? – chiese, sporgendosi appena verso di lui.
- Io non ti capisco – rispose bruscamente, ma con tono sostenuto. – Pensi che andrei a sbandierare ai quattro venti la tua vita? –
- No… - rispose. E non lo credeva infatti. Ma le faceva troppo male rivangare tutto.
- E allora! Voglio solo conoscerti di più. Ma davvero ti ritieni così importante da non essere accessibile a nessuno? –
Ogni accusa era uno schiaffo in piena faccia. Ogni parola le perforava il cranio. Era crudele trattarla così. E ingiusto. Non aveva idea di che espressione avesse, ma probabilmente era un brutto misto di dolore e frustrazione.
- Ma che stai dicendo! -
Qualcuno da giù urlò di abbassare la voce e zittirono entrambi. Vale fece un respiro profondo, poi contò fino a trenta.
- Okay – ricominciò, attirando l’attenzione del ragazzo. – Non devi pensare che non mi fidi di te. Il problema è mio -
Il suo sguardo parve incuriosirsi. – Che vuoi dire? – le chiese, la fronte aggrottata.
E come faceva a spiegarglielo? – Voglio dire che ci sono un sacco di cose… particolari. E io non sono sicura di riuscire a… parlarne – ammise, a fatica. Gli occhi erano bassi, quasi si vergognasse di ciò che aveva confessato.
- Magari tirarle fuori ti fa bene – insistette il ragazzo. Non vide altro nel suo viso se non sincero interesse. Ma non bastava.
Gli sorrise, paziente. - Magari non ora –

Bill si arrese, scuotendo la testa. Per quanto si sforzasse non riusciva a decifrarla, quella ragazza. Non importava quanto lui cercasse di andare a fondo e scavare, lei non gli permetteva di avvicinarsi in nessun modo. Era l’atteggiamento che più lo frustrava, e che, paradossalmente, gli faceva perdere fiducia in se stesso. Voleva solo dimostrarle che teneva davvero a lei, che voleva starle vicino. Ma non glielo permetteva.
Anche in quel momento aveva voglia di parlare, di dirle un sacco di cose. Magari anche le più stupide. Ma perché avrebbe dovuto lui cominciare uno scambio a senso unico?
- Che sta pensando la tua testolina? Vedo del fumo – disse Valentina, di nuovo di buonumore. Il suo sorriso non servì ad addolcirlo.
- Che sei impossibile – rispose subito, imbronciato.
L’avviso che erano arrivati in albergo troncò lì la conversazione.


Scusate il ritardo!
 
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Astrid_Mermaid
view post Posted on 12/7/2009, 12:54




Finalmente hai aggiornato *.*
Beh...mi sembra altamente ingiusta la condizione imposta da David, perchè se non esistesse i due si conoscerebbero meglio, gradualmente, e piccole discussioni come questa non nascerebbero.
Valentina deve capire che Bill la ama, anche se non glielo dice con le parole ma con i gesti, deve fidarsi di lui e confidarsi.
In fondo, in amore non va nascosto niente.
Comunque, continua presto ^_^
 
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Fee1702
view post Posted on 13/7/2009, 10:54




Io credo che per Bill la situazione sia abbastanza frustrante... Non riuscire ad entrare nella testa della persona che ama non dev'essere facile. Valentina, mia omonima, svegliati!
 
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....:GiulY:....
view post Posted on 13/7/2009, 11:23




Finalmente posso leggere una fan fiction dell' unica e abile First Class Author!(Scusate ma ci tenvo tanto).
Hooo Valentina, sveglia esci da quella personalita di freddo robot, Bill non sa niente di te, passa un po di tempo con lui!
 
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Shynee
view post Posted on 20/7/2009, 19:02




Capitolo 2.

C’era molto, molto caldo. Le si appiccicava addosso, e non la faceva respirare. E dei lamenti. Deboli lamenti, quasi un piagnucolio. Poi qualcuno che le strattonava un braccio e una porta che si spalancava sulla realtà, bruscamente.
Oh, no… non ancora. Era troppo, troppo presto.
I guaiti continuavano, la presa sul suo braccio si faceva più salda. Finché qualcuno non le urlò nell’orecchio. Si mise subito a sedere sul letto, massaggiandosi le tempie, gli occhi strizzati. Ma chi era quel mentecatto che le aveva urlato nell’orecchio di prima mattina?
- Guardami! –
Riuscì a captare la parola che una voce bianca e infantile aveva gridato, quasi indignata. Aprì gli occhi, e mise a fuoco la parete ocra di fronte a lei. Poi voltò la testa, e una faccetta paffuta incorniciata da una massa di capelli castani orribilmente spettinati entrò nel suo campo visivo. Due occhi marroni la fissavano con severità, le labbra sottili erano imbronciate.
- Che c’è, Giorgia? – chiese, la voce stanca. Ma perché le sembrava di non dormire mai abbastanza?
- Ho fame! – gridò la bambina, oltraggiata.
Oh, no. Che ore erano?
La luce piuttosto forte proveniente dalla finestra aperta le suggerì che non doveva essere tanto presto. Lanciò un’occhiata all’orologio sul comodino accanto al letto e per poco non le venne un colpo: era l’una passata! Quanto aveva dormito? E perché la sveglia non aveva suonato?
Perché l’aveva spenta nel sonno, ovvio.
- Giò. Sei stata sola fino ad ora? – chiese inorridita alla bambina. Qualcosa dal peso simile a quello di un mattone si andò a piazzare nel suo petto.
L’espressione di Giorgia s’inasprì, se possibile, ancora di più: – Sì, mi sono anche pulita da sola perché tu non ti svegliavi! Ora ho fame! –
Oddio… aveva dimenticato di portarla all’asilo, di nuovo. E non le aveva preparato la colazione. E l’aveva lasciata sola in casa a fare tutto ciò che voleva. Era imperdonabile. Imperdonabile.
- Scusami, amore. Andiamo a mangiare, su – disse, cercando di sorridere suo malgrado. Si alzò dal letto, i piedi scalzi toccarono la ceramica piacevolmente fresca. Le ci vollero pochi secondi per mettere a fuoco dettagliatamente tutto. La stanza era a soqquadro: sul comò di fronte faceva bella mostra di sé una pila di panni sporchi, e sulla poltrona addossata al muro alla sua sinistra c’era un’altra pila di indumenti da stirare e mettere a posto. Scarpe spaiate di misure diverse campeggiavano sul pavimento, insieme a grumi svolazzanti di polvere grigiastra. Per non parlare dello spesso strato di polvere sui comodini e le mensole. Le venne la nausea.
- Mamma! – gridò Giorgia, coperta solo dalle mutandine e una sottile canottiera, già sulla soglia della porta.
- Mi alzo, mi alzo – disse, alzandosi e seguendo poi la bambina in cucina.
La dispensa era vuota. E anche il frigorifero, se non si contava una bottiglia d’acqua rimasta a metà.
Chiuse lo sportello bianco, voltandosi verso Giorgia che la guardava impaziente. Si sforzò di sorridere, ma il risultato probabilmente fu solo una brutta smorfia.
- Andiamo a vestirci, Giò, oggi mangiamo fuori -
La bambina s’illuminò, e cominciò a battere le mani, esultante. Lei invece voleva solo piangere.

***



David continuava a girare per il camerino come un leone in gabbia. Vale lo trovò decisamente stupido, oltre che antipatico e inutilmente ansioso. Gliel’avrebbe detto, ma la poca esperienza che aveva acquisito le suggeriva di rimanere in silenzio quando il produttore aveva una delle sue crisi. A quanto le avevano detto, accadeva spesso.
- David, è successo, non è stata certo colpa sua. Gli incidenti capitano – cercò di rassicurarlo Dunja, che al contrario, non metteva in pratica molto spesso quella regola generale.
- No! – la interruppe lui, con furia. – Il sipario non è calato del tutto. Potevano esserci gravi problemi, e questo perché? Perché la tua “brillante” assistente ha detto al tecnico di non controllare di nuovo l’impianto –
Valentina sentì l’impulso di strozzarlo. Con la sua stessa cintura in pelle firmata Richmond, magari.
- David, se l’ho fatto è stato solo per non ritardare ulteriormente l’esibizione, visto che le ragazze aspettavano da ore al caldo e stavano cominciando a dare i numeri – intervenne. E lo sapeva bene, lei.
Il manager la fulminò con il suo sguardo truce. Che non si sopportassero era chiaro, ma entrambi avevano tentato di andare d’accordo per mantenere l’armonia generale. Tuttavia se avessero potuto si sarebbero presi a parolacce, e non solo.
- Non. Mi. Interessa – disse, scandendo bene e lentamente ogni singola sillaba. – Non hai fatto il tuo lavoro, punto – decise.
- Tanto non mi sento in colpa – mormorò lei, così a bassa voce che da essere convinta che nessuno l’avesse sentita. Mentiva anche a se stessa, perché le parole del manager facevano male e bruciavano.
- Continua pure a non sentirti in colpa. Ma se succede ancora qualcosa del genere, posso decidere di strappare il tuo contratto –
- Oh, e avete finito?! – si spazientì Bill, rimasto in silenzio fino a quel momento insieme agli altri. – David, per la miseria, non se n’è accorto nessuno, finiscila di angosciarci l’esistenza! – esclamò esasperato.
- Infatti, è andato tutto liscio – intervenne Tom, - E poi quello che è successo non è niente rispetto alla maglia nera che ha colpito Bill proprio in faccia! – aggiunse, l’espressione ridente.
Il ragazzo, seduto sul divanetto, braccia incrociate sul petto e gambe accavallate, sbuffò, alzando gli occhi al cielo. – Dovrei citare per danni la tizia che l’ha lanciata – sostenne, offeso.
- O Georg che voleva lanciare il plettro nella scollatura di quella moretta! E l’ha pure mancata! – disse Gustav ridendo a crepapelle. Gli altri tre scoppiarono in una sonora risata, e in un attimo l’atmosfera turbolenta e tesa di poco prima si distese.
David finalmente uscì dal camerino brontolando, seguito da Dunja che raccomandò ai ragazzi di trovarsi fuori entro qualche minuto. Ovviamente loro non prestarono attenzione, continuando a fare battute e commenti sull’esibizione all’House of Blues.
Anche Valentina avrebbe riso e partecipato, se non si fosse sentita tanto intristita. I rimproveri di David l’avevano veramente toccata, dopotutto le aveva praticamente dato dell’incapace. Si limitò a ripromettersi di fare più attenzione la prossima volta, e si diresse al centro del camerino per raccogliere la cartelletta rigida posata sul tavolino basso. Aveva voglia di un bagno rilassante e di una bella dormita. Il cambiamento di fuso orario si faceva sentire pesantemente, e questo aveva delle ripercussioni sul suo morale e sul lavoro.
Mentre si chinava, Bill si sporse verso di lei, scivolando sul divanetto di pelle. Aveva ancora addosso i vestiti del concerto e i capelli pettinati in tutte le direzioni.
- Dove vai? – le chiese mentre la guardava con espressione vivace.
- Sto raccogliendo le mie cose, andiamo via – gli rispose, raddrizzandosi lentamente. – Comincia a prepararti dato ci metti più tempo –. Cominciò ad avviarsi verso la porta, ma sentì il suo polso bloccato da una mano calda.
– Dai, non andare – sussurrò Bill, ignorando totalmente le sue disposizioni.
Vacillò di fronte a quella richiesta, poi sorrise appena. – Non posso, devo finire le ultime cose – disse sottovoce. Poi si rivolse a tutti: - Ragazzi, cominciate a raccogliere le vostre cose, stiamo andando via – annunciò a voce più alta. Sembrarono rivolgere più attenzione a lei che a Dunja, e segretamente la cosa le fece un piacere immenso.
- Agli ordini, capo – acconsentì Tom, che non perdeva mai occasione per stuzzicarla. – Dobbiamo andare a passo di marcia o ti accontenti di farci camminare in fila indiana? -
- Riparliamone quando avrai imparato a non inciampare nei pantaloni – replicò, segretamente divertita.
- E a camminare come un essere umano invece che come un’oca – aggiunse una voce che Vale identificò come quella di Georg.
Soddisfatta, si diresse verso la porta del camerino, e quando fu sul punto di uscire si voltò verso i ragazzi: - Vi aspetto fuori -, e sfarfallò le ciglia in direzione di Tom, sorridendo in modo angelico.
Attraversò il locale ormai vuoto, solo qualche uomo ciondolante che sbrigava faccende come lavare il pavimento e spostare le transenne. Una volta immersa di nuovo nel caos notturno della città, vide David che discuteva a bassa voce con Dunja. La donna parlava con voce dura, consapevole, ammonitrice. Non l’aveva mai sentita rivolgersi a David in quel modo.
- Non saranno d’accordo, David, e lo sai -
- Lo saranno quando vedranno lievitare i loro conti in banca –
- Ma non ne vale la pena, non ne hanno bisogno –
- Oh, ma insomma! – sbottò il produttore, che sembrò a quel punto decisamente infuriato, - Non gli chiederò mica di andare a morire! E’ il nostro lavoro! –
La discussione si bloccò quando Dunja la vide ferma sull’uscio della porta, sinceramente atterrita e confusa.
Cosa faceva infervorare tanto David? E perché Dunja sembrava così preoccupata? Chi doveva essere mandato a morire?
Il produttore le scoccò un’occhiata truce e s’infilò nella macchina nera senza dire una parola. Dunja le fece un cenno noncurante con la testa, poi controllò che i ragazzi la stessero raggiungendo alle sue spalle.
- Vieni con noi? -. La voce di Bill giunto alle sue spalle la fece sobbalzare.
- Ehm, sì… - rispose confusa. Non era certa di aver capito bene la domanda. Le aveva chiesto di andare con loro, giusto?

Bill la vide spaesata e confusa, tutto d’un tratto. Entrò nel pullman per ultima, muta, persa nei suoi pensieri e si sedette nell’unico posto libero accanto a Tom senza dire una parola (cosa alquanto inconsueta quando c’era lui nelle vicinanze che la stuzzicava). L’autista spense le luci come al solito, lasciando accesi unicamente i faretti incassati nella moquette che emanavano fasci di una piacevole luce soffusa, e tutti si rilassarono. Come ogni sera, Bill avvertì l’adrenalina e la tensione accumulate durante la giornata scemare in formicolii nelle punte delle dita e il suo corpo appesantirsi, come se divenisse di granito. Chiuse gli occhi, appoggiandosi pesantemente al divanetto, ed allungò le gambe: oh… finalmente. Quella sera si sentiva più stanco del solito, non vedeva l’ora di andare a dormire.
Captò una domanda di Gustav rivolta a Valentina, ma non ci fece molto caso. S’incuriosì quando la risposta di Valentina non arrivò. Sorprese tutti, lui per primo, e lo spinse ad aprire gli occhi: da quando era disattenta?
- Valentina? – la richiamò il batterista. Gustav non usava mai chiamarla con il nome abbreviato, per lui era troppo confidenziale. Preferiva mantenere sempre un distacco educato da lei. Georg invece le parlava a malapena, sembrava quasi che gli fosse antipatica.
- Sì? – disse finalmente.
- Dove passiamo la notte? –
Per un momento sembrò quasi che non avesse capito la domanda, o che non lo sapesse, o che l’avesse dimenticato. Impossibile. Forse era solo più stanca del solito.
- Ehm… sul tourbus, e verso l’una faremo una sosta – rispose poi, riprendendosi subito.
- La nostra assistente sta perdendo l’argento vivo addosso – commentò Tom, tirando distrattamente dalla sua sigaretta e guardandola, aspettandosi sicuramente una risposta tagliente. Invece tutto ciò che ottenne fu uno sbuffo annoiato. Sembrava distante anni luce.
Georg annunciò di andare a dormire, almeno finché il bus fosse stato in movimento, e l’attenzione di Gustav e Tom fu occupata da uno di quei videogiochi in cui si deve solo sparare e uccidere.
Subito, Bill sorrise appena. Si sollevò velocemente sporgendosi in avanti, allungò una mano per afferrare il polso di Vale seduta di fronte e la tirò a sé, facendola atterrare in braccio a lui.
Lei sorrise. – Ciao – gli disse a voce bassa, mettendosi comoda sulle sue ginocchia.
- Ciao – le rispose avvolgendole la vita con le braccia. Dopo quella giornata frenetica e stancante avvertiva il bisogno di stare un po’ con lei, isolato dal resto del mondo. Lei era il suo rifugio. Lei era la pace.
Chiuse gli occhi di nuovo, concedendosi di posare una guancia sul suo petto, appena sopra l’attaccatura dei seni. Già presagiva il suo distacco improvviso, invece le dita di lei cominciarono a sfiorargli la guancia e il collo con tocchi delicati, discreti… che lo spinsero a sorridere, come il più beato degli uomini. Senza quasi rendersene conto, la strinse un po’ di più e sospirò.
- Vuoi passare la notte così? – gli chiese la sua voce dolce.
- A proposito di notte… -. Alzò la testa e le spostò i capelli dalla spalla con la mano. Forse stava azzardando troppo. – La passi qui? – domandò, ignorando volutamente quel pensiero: voleva sentirla più vicina, solo un po’ più sua. Si sporse un po’, per posare un leggero bacio sulla pelle appena ambrata del collo. E la sentì irrigidirsi tra le sue braccia. Era quasi impercettibile, ma il cambiamento c’era: la schiena era più dritta, i muscoli delle gambe appena più contratti. E le dita si erano fermate.
- Non credo. Approfitterò della sosta per andare in albergo, poi vi raggiungeremo domattina – rispose.
Sorrise amaramente, abbassando la testa, sconfitto. La vicinanza, l’intimità, l’atmosfera di pace… tutto si dissolse all’improvviso. E lei era di nuovo irrimediabilmente lontana, irrimediabilmente inaccessibile.
- Scusa… – le disse con tono distratto, scostandola da sopra le sue ginocchia. Lei si alzò, un po’ stranita. La lasciò lì e si diresse di sopra, con la tagliente sensazione di non fare mai niente di giusto.
Si tolse le scarpe e si sedette su quel letto minuscolo: per una volta non voleva che lo raggiungesse.
 
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Fee1702
view post Posted on 20/7/2009, 20:11




Porca miseria... Vale riesce a distruggere sempre tutto.
Bill mi fa una tristezza incredibile, è innamorato da morire, ha trovato il suo mondo e quando cerca di raggiungerlo si sgretola di fronte a lui.
Valentina deve stare attenta o lo perderà..
COntinua presto!
 
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Astrid_Mermaid
view post Posted on 21/7/2009, 20:33




Valentina deve capire che Bill non ha intenzione di farle del male...ciò che le è accaaduto è devastante, però Bill non è Marco, Bill la ama, vuole proteggerla e non le farebbe mai del male...
CITAZIONE
Riparliamone quando avrai imparato a non inciampare nei pantaloni – replicò, segretamente divertita.
- E a camminare come un essere umano invece che come un’oca – aggiunse una voce che Vale identificò come quella di Georg.

Non hanno tutti i torti XD
 
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....:GiulY:....
view post Posted on 23/7/2009, 13:24




Invece io non ho ancora capito chi è la ragazza della prima parte, veramente, chi è?
 
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Shynee
view post Posted on 23/7/2009, 23:16




E' Gloria, ed è la mamma di Vale. Purtroppo per capire alcune cose bisogna leggere la prima parte.
 
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Shynee
view post Posted on 29/7/2009, 10:25




Posto ora perchè poi sarò a Gallipoli e non potrò postare. ^^

Capitolo 3.

Non c’erano programmi per il giorno dopo, grazie al cielo. Solo un’intervista veloce, che si esaurì nel giro di un paio d’ore perché i ragazzi avevano imparato a memoria le risposte in inglese delle domande. Si incontrarono tutti in un ambiente piccolo ma ben organizzato, provvisto perfino di un’anticamera, che era tanto grande da poter tranquillamente passare per un’altra stanza. Vale era in quella stanza, e stava facendo qualcosa di non propriamente giusto: stava origliando una conversazione al telefono di David. Normalmente non lo avrebbe mai fatto, ma dopo la conversazione a cui aveva casualmente assistito si era incuriosita parecchio, ed anche un po’ preoccupata. Ed ora era lì, che cercava di captare tutte le parole grazie alla fessura della porta socchiusa.
- Ma no che non è troppo, i ragazzi ci sono abituati. Ne saranno perfino felici, immagina. Per i fans non sarà un problema, ci sarà altro a distrarli. Sì, di questo parlerò con Natalie, tu devi solo occuparti di rendere la cosa pubblica… -
- Che stai facendo? –
La voce di Gustav giunse così inaspettata che per lo spavento le caddero cartelletta e cellulare a terra e per poco non lanciò un urlo. Il cuore nel petto pompava sangue veloce, troppo veloce.
- Dovevi star facendo qualcosa di poco lecito per spaventarti così – le disse con tono gentile, mentre si abbassava a raccoglierle la cartellina e il telefonino. Vale scrutò il suo viso in cerca di qualcosa che somigliasse alla rabbia o alla curiosità, ma non vide nulla del genere.
- Ehm, no, veramente cercavo David e aspettavo… che finisse di parlare al telefono – buttò lì la prima scusa plausibile, prendendo la cartellina che Gustav le porgeva e infilando il cellulare in tasca. – Grazie. Avevi bisogno di qualcosa? – domandò sedendosi poi su una delle panche.
Il batterista sembrò tentennare un momento, poi la raggiunse e le si sedette accanto. - Veramente no. L’argomento di conversazione di là è noioso e ho cercato un posto dove stare in santa pace –
- Ti capisco – ammise spontaneamente, - A volte mi capita di sentirmi un’aliena quando vi sento parlare tra di voi. Sembra proprio che non abbia niente da condividere… – continuò abbassando la testa, un sorriso amaro a solcare il viso. In fondo era quello il problema, no? Non riusciva a sentirsi parte integrante del gruppo. Non era come Natalie, la truccatrice, che era molto a suo agio e sembrava quasi una loro sorella, o come Dunja, che faceva un po’ da mamma a tutti. Chi era lei là dentro?
- Non sei un’aliena, te lo assicuro – le disse Gustav appoggiandosi con la schiena alla parete. - Anche io a volte li sento parlare e mi chiedo che diavolo ci faccia con loro. Siamo i più riservati, ma questo non vuol dire che non siamo nessuno –
Quella rassicurazione, assolutamente imprevista, agì come un balsamo: un peso grande più o meno quanto una casa sembrò dissolversi lentamente dentro di lei, lasciando spazio unicamente alla tranquillità.
Sorrise davvero, per la prima volta in quella giornata nuvolosa. – Fai sempre questo effetto calmante su chi ti parla? Perché se è così devo ronzarti intorno più spesso – scherzò guardandolo.
Mai avrebbe pensato di trovare un punto di contatto proprio con Gustav, una delle persone del gruppo con cui comunicava di meno. E la cosa… le piaceva. Forse non era del tutto diversa.
- Più o meno – rispose lui con la stessa espressione ironica.
- Ne avevo bisogno. Grazie – gli disse poi, seria. Aveva dimenticato cosa significasse avere qualcuno da cui essere rassicurata: aveva cancellato il concetto di amicizia dalla sua mente, ed era diventato automatico per lei fronteggiare tutti i problemi e tutte le sensazioni negative da sola, tenendosi tutto dentro, piangendo in silenzio, di notte, quando era certa che nessuno l’avrebbe sentita. Piangendo per cosa, poi…?
- Figurati – minimizzò con un gesto noncurante della mano. - E poi, tra tutte le assistenti che ci sono passate sotto gli occhi tu sei quella che mi piace di più –
Lei ridacchio: - Perché? –
- Riesci a zittire Tom -
Entrambi risero di gusto. Ma mentre lei rideva c’era un solo pensiero che gravitava nella sua testa: Bill. L’aveva evitata per tutto il giorno e non le aveva nemmeno parlato. Forse quello che era successo la sera prima era più importante per lui di quanto non lo fosse per lei.
La porta che si apriva nella stanza più interna si spalancò di botto. E, come se avesse sentito il suo pensiero, comparve Bill, che appena li vide insieme si rannuvolò.
- Quando ce ne andiamo? – domandò con voce insolitamente grave. Il suo sopracciglio era schizzato in alto come se fosse esploso. Vale fece finta di non notare il tono aspro e tagliente che le aveva rivolto, e il modo in cui aveva posto la domanda, che evidentemente non comprendeva l’educazione.
- Dobbiamo aspettare che David… –
- Ho finito –
Proprio in quel momento entrò il produttore. Li avvisò che dovevano tornare in albergo per permettere a tutti di cambiarsi e che il pomeriggio erano liberi di fare ciò che volevano. La mente di Vale corse subito ad un giro turistico per Chicago: visitarla veramente era sempre stato il suo sogno. Ritornarono tutti in albergo, accompagnati dal solito minivan nero che utilizzavano per gli spostamenti brevi. Mentre lei si dirigeva nella sua camera, Bill le si avvicinò, camminandole accanto con il tipico passo deciso e sfrontato.
- Ti ho vista molto a tuo agio con Gustav, prima – esordì.
Era stato un po’ mordace o era una sua impressione?
- Sì, infatti – replicò senza guardarlo in faccia e camminando spedita.
- Cos’è, all’improvviso sei diventata socievole ed estroversa? –
Cosa??
Strabuzzò gli occhi e si voltò a guardarlo. – Scusa? – domandò, pregando che i sottintesi che aveva colto in quella provocazione fossero solo frutto della sua mente.
- Hai capito bene -
Ma a quanto pare no.
Inchiodò nel bel mezzo del corridoio deserto, consapevole di aver passato da un pezzo la stanza di Bill e quella degli altri. Si poteva vedere la sua porta.
- Preferivi che me ne stessi a piangere perché da ieri non mi rivolgi la parola? –
Inizialmente Bill rimase spiazzato, come se non si aspettasse una risposta del genere. Poi il suo volto s’illuminò di un’espressione caustica.
- Ah, ho capito che volevi fare. Non ti facevo così intraprendente -
Le venne voglia di prenderlo a schiaffi per quanto era infantile. Si limitò a stringere i pugni ai lati del corpo, e ad affondare le unghie nella pelle.
- No, tu non hai capito niente - ringhiò. Lei cercava solo la compagnia di qualcuno che non pretendesse niente da lei. Niente, in tutti i sensi. – Tu mi stai solo facendo una stupida scenata e stai cercando un pretesto per litigare, ma siccome non ne ho voglia, me ne vado -
Fece per andarsene, ma sentì la mano calda di Bill stringersi attorno al suo braccio e imporle di rimanere lì dov’era. Il suo calore stonava terribilmente con la quantità di forza che aveva usato per voltarla di nuovo verso lui.
- Dimmi, Valentina… quanto è normale che diventi di pietra appena ti tocco? – domandò, teso e arrabbiato.
La pelle del palmo della mano cedette. L’unghia penetrò nell’epidermide, in profondità.
Non rispose. Non aveva risposte da dargli.
- Che cosa siamo noi? - chiese ancora Bill, che invece sembrava ansioso di ottenerle.
Si era posta quella domanda almeno un centinaio di volte: cos’era Bill per lei?
L’ironia della situazione era che lei non la conosceva, la risposta. L’unica certezza era che di Bill non poteva fare a meno. Non poteva rinunciare ai suoi sorrisi e ai suoi occhi che si scaldavano ogni volta che la guardava, e nemmeno alla preoccupante capriola che il suo stomaco faceva ogni volta in cui lui la toccava. Ma c’era qualcos’altro dentro di lei, quel maledetto “qualcos’altro” che cancellava di botto tutte le motivazioni che glielo facevano desiderare e che la obbligava a rinchiudersi in se stessa a doppia mandata.
- Dove vuoi arrivare? – chiese, già sulla difensiva.
- Da nessuna parte. Trai tu le tue conclusioni. Oppure vai da Gustav a fartele suggerire – rispose pungente.
Un comportamento del genere non se lo aspettava. Dov’era finito il Bill che aveva conosciuto a Berlino?
- Sei… - mormorò, ma lasciò la frase in sospeso: aveva caricato quella parola di tutto lo sdegno e la delusione che provava, qualsiasi altra cosa sarebbe stata superflua. Comunque avrebbe voluto dirgli che era un perfetto stronzo.
- Sono…? – la incalzò lui curioso, la fronte increspata.
Scosse la testa e lasciò perdere, poi fece un respiro per calmarsi. – Con Gustav stavo parlando. Tu eri troppo occupato a riservarmi sguardi offesi – spiegò. Sentì gli strascichi delle scuse in quella frase. Ma di cosa doveva scusarsi, poi? Non aveva fatto niente.
- Ero arrabbiato per ieri sera. Ti ho solo baciata sul collo, cazzo! – esclamò, schietto e diretto come sempre.
- Lo so! Ma non posso farci niente, non dipende da me! – sbottò.
Fu quando sentì la risposta di Bill che si accorse di aver controbattuto nel modo sbagliato.
- E da cosa dipende? Ti vuoi decidere a dirmi perchè cazzo quando faccio un passo verso di te tu ne fai due indietro? – urlò lui, arrabbiato.
- NO! – strepitò lei di rimando, spinta da un desiderio di difesa istintivo. Doveva difendersi, difendere il suo segreto, la sua vergogna. Stava agendo come una bambina, e lo sapeva. Ma non poteva fare nulla per fermarsi.

Sbatté con forza l’uscio, e anche dietro la barriera spessa dei muri, riuscì a captare lo sbattere di un’altra porta poco dopo.
Fanculo.
Non sapeva esattamente chi o cosa incolpare, ma si sentiva ugualmente furiosa. I ricordi degli ultimi minuti erano ancora sfocati, ma la rabbia, la frustrazione, la delusione, quelli erano chiari e vividi, e scorrevano come acido nelle vene.
Che accidenti poteva farci lei se era sbagliata? Che poteva farci?
La rabbia fu talmente tanta che batté con forza un pugno sul letto, ottenendo in cambio solo un suono attutito, invece dell’effetto distruttore che sperava. Le ultime parole che Bill le aveva urlato dietro dopo quel “no” secco erano state terribili. Terribili. Non le volle ricordare, ma era come se la prendessero a bastonate con un attizzatoio rovente.
Odiava Marco. Odiava il responsabile del suo blocco, della sua paura e di tutto quel casino. Lo odiava, in quel momento lo odiava come non l’aveva mai odiato. Lo avrebbe squartato con le sue mani.
Si stese sul letto affondando la faccia nel cuscino. Non seppe quanto tempo rimase lì, a respirare a stento. Probabilmente un’ora e mezza, forse di più. Sarebbe rimasta arenata nella sua condizione di inerzia, ma il bussare alla sua porta la costrinse ad alzarsi e ad andare ad aprire.
Se fosse stato Bill, gli avrebbe sbattuto la porta in faccia.
- Dunja, Natalie. Ciao – disse sorpresa.
Notò il look di Dunja, che la sorprese appena: aveva sciolto i capelli biondi, di solito sempre legati in una coda ordinata, e si era anche truccata un po’. Natalie invece era sistemata e agghindata come sempre.
- Ciao Vale! Siamo passate per chiederti se volevi unirti a noi, oggi pomeriggio. Facciamo un giro turistico per la città prima di partire – la informò Dunja gioviale.
L’idea le parve ottima. Inoltre, non aveva alternative se non voleva passare il pomeriggio a farsi del male da sola con pensieri autodistruttivi.
- Certo! – acconsentì, sforzandosi di sorridere. Si scostò per permettere loro di entrare, poi richiuse la porta.
- Tira giù quei capelli, per l’amor di Dio – disse Natalie con voce esasperata, mentre lei si dirigeva in bagno.
Non le era molto simpatica, Natalie. Aveva una voce stridula e ogni tanto faceva battutine taglienti non proprio piacevoli. Non era ancora riuscita a capire come facesse ad andare così d’accordo con Bill.
Quando uscirono dal famoso Peninsula Hotel a cinque stelle e si ritrovarono su Rush Street, decisero che un giro per negozi e boutiques era l’ideale. Valentina sapeva che quella strada di notte veniva illuminata da migliaia di luci e che era uno degli spettacoli più belli di tutta Chicago, cui gente di varie parti del mondo veniva ad assistere. In effetti il poco che aveva visto di quella città era splendido.
- Allora… - cominciò Natalie rivolgendosi verso di lei mentre camminavano, - Tu e Bill, eh? – fece, guardandola con un sorriso furbo. Si accorse che anche Dunja la stava guardando in attesa di una sua risposta, con l’unica differenza che il suo sguardo non era pungente e indagatore come quello di Natalie.
- Ma come…? Non lo sa quasi nessuno – rispose basita. Dello staff solo David era a conoscenza della loro relazione. Se poteva chiamarsi così.
La truccatrice fece una risatina snervante. – Penso che dopo il bisticcio che avete avuto in hotel, poche persone non lo sappiano –
Oh no… no, no, no!
- Non devi sentirti in imbarazzo. E’ normale litigare, specialmente in una coppia – la rassicurò Dunja.
- Bill, fidanzato… con te, poi! Non l’avrei mai immaginato – continuò Natalie scuotendo la testa, l’espressione tesa e meravigliata. Vale decise di ignorarla, perché le stava veramente facendo saltare i nervi, e non aveva bisogno di altra rabbia.
- Io sì, invece – disse Dunja sorridendo, - Lo vedevo camminare sulle nuvole da un po’, ma non immaginavo che la causa fosse tanto vicina – continuò, scansando all’ultimo momento un passante che parlava al telefono.
- E le cose vanno male? – le chiese Natalie di nuovo interessata.
Eccola, la domanda che non voleva assolutamente che le si ponesse. Poi si trovò a riflettere: perché no? Loro erano le uniche ragazze più vicine, quindi perché precludersi un possibile rapporto d’amicizia?
- Diciamo che non riesco a… lasciarmi andare – ammise, a fatica. Dirlo ad alta voce era molto più difficile di quanto immaginava.
- Ma che sciocchezza! – stridette Natalie accanto a lei, - Solo un morto non riuscirebbe a lasciarsi andare con un ragazzo come Bill –
Okay, calma. Calma.
- Natalie, chiudi quella boccaccia da vipera – le intimò Dunja. La prese rudemente da un braccio e la spostò a destra, in modo da mettersi al centro delle due. Tutte e tre occupavano praticamente metà del marciapiede. La bionda mise il broncio dopo aver borbottato qualcosa e dedicò l’attenzione alle vetrine che le scorrevano accanto.
- Non riesci a lasciarti andare, allora. Perché? – le chiese Dunja pacata.
Era strano, si sentiva come… come se stesse parlando a sua madre. Una donna adulta che le rivolgeva attenzioni così disinteressate, materne. Era un’altra delle cose che aveva dimenticato. Quanto aveva perso della sua umanità in quei mesi?
- Io… non lo so – mentì, - Però questa cosa lo irrita molto -
Sarebbe stato più corretto dire che lo mandava in bestia.
Un dito poggiato sulle labbra, Dunja scrutò qualcosa con aria cogitabonda. Stava riflettendo, sembrava che dovesse risolvere un problema di matematica.
- Che stai pensando? – le chiese curiosa.
- Ragazze, guardate quel vestito! Devo assolutamente prenderlo! – squittì Natalie mentre sbavava su una vetrina. Subito dopo le trascinò all’interno del negozio, dove facevano bella mostra di sé manichini vestiti di abiti da sera. Comprò un tubino blu notte, il busto rigido e la gonna che si allargava sotto le ginocchia e un miniabito bianco, estivo, con qualche paillette sparsa qua e là. Quando uscirono, la bionda aveva due buste enormi, e Vale si chiese cosa diavolo ci avrebbe fatto con due vestiti che non avrebbe messo mai.
- Dicevamo? – si rivolse di nuovo a Dunja. Non avrebbe ripreso la conversazione, normalmente. Però in quella situazione non sapeva proprio che pesci pigliare. Aveva bisogno di un consiglio, per quanto ammetterlo fosse scocciante.
– Magari a farlo arrabbiare è solo il fatto che non ti fidi di lui -
- In che senso? -
- Bill ha sempre avuto la fiducia delle persone più care. Se sa che tutti si fidano di lui, anche lui si impegna a non deludere nessuno. Immagino che vedere la sua ragazza che a malapena gli rivolge la parola lo destabilizzi un po’ – le spiegò paziente.
- E come faccio a fidarmi di lui? Non è una cosa che riesco a controllare - disse. Si sentiva ridicola, e probabilmente era arrossita. Si stava comportando come una stupida novellina alle prime armi. A pensarci bene, però, lei era una stupida novellina alle prime armi.
Natalie sbuffò di nuovo e alzò gli occhi al cielo. – Valentina, svegliati! Quando stai con lui invece di pensare a quanto ti senti “bloccata”, pensa a quanto ti piace. Anzi, non pensare affatto, e le cose vanno da sole –
- Beh, il concetto è questo – asserì Dunja.
Puntò lo sguardo in basso. Quando lei e Bill si erano incontrati al concerto di luglio, non aveva pensato a niente. Si era solo lasciata guidare dall’istinto.
Sì, forse la voce stridula di Natalie aveva ragione. Decise di fidarsi. Dopotutto… che aveva da perdere?
- Grazie – disse sorridendo. Dunja ricambiò, Natalie le scoccò un’occhiataccia e rivolse lo sguardo altrove, ma lei non ci fece caso.
Ed adesso, era ora di shopping.


- Che palle. Che palle -
Era notte fonda ormai, e Bill mugugnava quelle parole da tutto il pomeriggio. Si era rintanato in camera rinunciando all’uscita pomeridiana e non aveva mangiato. Si era messo a letto, provando ad addormentarsi per scacciare il cattivo umore, ma niente. Aveva cambiato posizione almeno un centinaio di volte: si era schiacciato il cuscino in testa, si era coperto, riscoperto e poi ricoperto in modo compulsivo, ma niente. Niente di niente. Non c’era rimedio.
Alla fine mandò mentalmente al diavolo tutto e si alzò dal letto, stizzito.
Doveva chiarire con lei. Doveva parlarle, chiederle scusa, insomma fare qualsiasi cosa che potesse cambiare quella situazione. In fondo, ma molto in fondo, aveva sbagliato anche lui: si era comportato da vero stronzo insensibile.
La verità era che gli dava terribilmente fastidio che Vale non abbassasse le difese con lui. Anzi, volendo mettere da parte l’orgoglio, era più esatto dire che gli faceva davvero male.
S’infilò un paio di pantaloni della tuta ed una maglietta qualsiasi, il senso di colpa che cresceva dentro di lui sempre più. Non gli importava di svegliarla, e nemmeno dell’eventualità di sembrare patetico. Sorrise amaramente e uscì dalla porta: di certo qualche mese prima non si sarebbe mai comportato così.

Sentì bussare alla porta, piano. Sollevò lo sguardo dal libro che stava leggendo, riponendolo sul letto per alzarsi e dirigersi verso l’entrata. La stanza era illuminata unicamente dalla debole luce bianca dell’abat-jour sul comodino. Quella luce le piaceva. Creava un’atmosfera di raccoglimento che lei adorava.
Giusto perché aveva un vago sentore di casa. Casa…
Aprì di poco la porta, il tanto che bastava per spiare all’esterno: Bill era di fronte a lei, tuta da ginnastica, capelli buffi e arruffati, che guardava in basso, strisciando un piede sul pavimento.
Non si aspettava di vederlo. Lui era l’ultima persona che avrebbe pensato di incontrare dietro quella porta, specialmente dopo la discussione avuta il pomeriggio.
- Bill – disse, sorpresa.
- Ciao – la salutò, guardandola per pochi secondi da capo a piedi: nemmeno lei era al massimo del suo splendore, coperta da un pigiama largo due volte le sue dimensioni e i capelli annodati sulla testa con una matita.
- Posso entrare? – chiese infine, la voce ridotta ad un sussurro.
Perché le sembrava quasi che si volesse scusare?
- Sì… -. Si scostò e aprì la porta per permettergli di passare, poi la richiuse, accostandola dolcemente.
- E’ bello qui – commentò Bill, guardandosi un momento intorno.
Bello? L’ambiente era raccolto, i mobili in legno disposti ordinatamente, e le lampade posizionate in modo da diffondere la luce nei punti giusti, ma quella stanza era sicuramente meno lussuosa della suite che aveva Bill.
- Sì, è vero – rispose comunque, stringendosi nelle braccia per riscaldarsi. Perché? Faceva caldo. - Cosa c’è, Bill? – chiese poi con voce un po’ risentita.
Lo vide scrollare appena le spalle, come se non riuscisse a muoversi troppo.
- Non riuscivo a dormire. Forse ho bevuto troppo caffè, non lo so… E poi volevo scusarmi per oggi pomeriggio –. Sembrò trovare un po’ di coraggio per guardarla negli occhi. Non l’aveva fatto ancora da quando era entrato. Le diede l’impressione di un bambino in castigo, ma non le fece nessuna tenerezza. Allora perché tutta la rabbia che provava si stava lentamente spegnendo?

- Mi sono comportato davvero male – aggiunse.
Lei rimase immobile, a guardarlo con sguardo indagatore. L’espressione del suo viso però non rivelava niente di quello che le si stava agitando dentro. Non aveva ancora pensato che era da sola con Bill, per la prima volta veramente.
- Io… io non lo so perché mi sono arrabbiato così, è stato involontario, okay? Non volevo metterti in imbarazzo, tantomeno dirti quelle cose nel corridoio, perchè non penso niente di ciò che ho detto, è solo che mi sono sentito deluso, perché dopo tutto questo tempo tu… -
- Hai ragione – lo interruppe. La rabbia non c’era già più. Aveva lasciato spazio solo al desiderio di aggrapparsi addosso a quel corpo sottile e di parlare, parlare senza freni. Perché doveva frenarsi?
Lui aveva ragione, maledettamente ragione. E doveva dirglielo allora.
- Cosa? – chiese confuso lui, prendendo fiato.
- Hai ragione – ripeté, più convinta. – Il problema è mio -
Si avvicinò, i piedi scalzi che toccavano la moquette e poche parole che le si agitavano in mente e in bocca, ansiose solo di essere pronunciate. Gli arrivò vicino, molto vicino, così vicino che dovette alzare lo sguardo per incrociare i suoi occhi.
L’istinto di cambiare argomento e di pietrificarsi era forte. Ma anche ciò che sentiva di provare per Bill in quel momento era forte. Forse anche di più.
Le tremarono le labbra, i denti, il mento. Tutto del suo corpo si rifiutava. Aprì la bocca con fatica.
- Mio cugino… ha provato… a violentarmi – scandì lentamente, guardandolo fisso negli occhi. – E… ogni volta in cui tu, noi… io rivedo lui – continuò, mordendosi le labbra subito dopo. Anche la voce prese a tremarle, diventando instabile e più acuta, e gli occhi si velarono subito di un offuscato strato di lacrime.
Ecco, era fatta. Si sentì assalire dalla vergogna. Perché lei era sbagliata, non riusciva ad essere donna fino in fondo. E magari a Bill non sarebbe più andata bene, l’avrebbe rifiutata una volta per tutte.
Il ragazzo di fronte a lei aveva quasi smesso di respirare
- Io… - cominciò. Ma era evidente che non avrebbe continuato.
Okay. Aveva fatto un grosso, grossissimo errore. Nei dieci secondi successivi si diede della stupida almeno una cinquantina di volte. Poi Bill si mosse. Circondò il suo polso con le dita e l’attirò a sé, piano, avvolgendola in un abbraccio caldo. Nascose il viso nell’incavo del collo, permettendole di percepire le ciglia muoversi sulla sua pelle.
Si sentì immediatamente riscaldata, sollevata, leggerissima. Gli si aggrappò addosso e afferrò le pieghe della maglietta, trattenendo le lacrime fino all’ultimo, il sollievo di poter essere se stessa che la pervadeva completamente.
Dopo tanto, tanto tempo sentì di non essere veramente sola. Percepì concretamente la presenza di qualcuno accanto a sé, anzi, più in profondità, quasi dentro di sé, dentro i suoi sentimenti. Lui c’era.
Bill sollevò la testa, senza però smettere di abbracciarla e le asciugò qualcosa di bagnato che era colato sulla guancia. Non ci era riuscita. Pazienza.
- Tu… non so come abbia fatto a tenertelo dentro. Tutte le mie pressioni… scusa. Scusa davvero - disse affranto.
Lei gli passò un dito sulle labbra, e gli rivolse un sorriso umido. Avrebbe voluto dire che anche lei avrebbe fatto meglio a dirglielo prima, che si sarebbero risparmiati tanti problemi, ma non lo fece.
- E’ solo che io… -, Bill fece un respiro profondo, - Ti ho sempre vista così distante, così chiusa in te stessa, sempre schiva… io volevo… io voglio starti accanto e averti vicino a me, perché… - rise appena e scosse di poco la testa, come se ciò che stava dicendo non sembrasse vero nemmeno a lui, - Perché tu mi hai fatto innamorare come un pazzo, e ormai non ce la faccio più a pensarti lontano dalla mia vita -
Il cuore le risalì in gola. La realtà circostante scomparve, il tempo si fermò. Per un istante sentì solo l’eterno investirla interamente e travolgerla.
Con i lembi di un ricordo lontano che le passavano davanti agli occhi, si alzò sulle punte e lo baciò, cogliendolo irrimediabilmente impreparato. Il suo sapore era sempre lo stesso.
Anche lei lo amava. Era una certezza che aveva sempre avuto, qualcosa di cui non aveva mai dubitato. Magari gliel’avrebbe detto, più in là, quando avesse trovato il coraggio.
Si separarono. Respiri affannosi e labbra turgide.
- Non te ne andare – sussurrò lei. Le parole erano state pronunciate ancora prima di essere pensate. Perché lo voleva davvero lì, voleva sentire il suo calore.
- No… – ansimò Bill, in risposta. Poi, timidamente, come se fosse la prima volta, ritornò sulle sue labbra.
 
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Fee1702
view post Posted on 29/7/2009, 10:50




Oh che bello... finalmente, finalmente!
Magari ora le cose andranno meglio, molto meglio.
Vale si è tolta un bel peso ed ora Bill può capirla di più. Ora Vale deve solo lasciarsi proteggere e Bill farle capire che ci sarà a fianco a lui.
Brava Niky ^^
 
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Astrid_Mermaid
view post Posted on 29/7/2009, 11:31




Finalmente Vale si è liberata!
Speriamo che questo serva ad avvicinarli di più ^_^
 
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29 replies since 12/4/2009, 16:30   530 views
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