We're all alone, Sequel di "Le ali spezzate"

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Shynee
view post Posted on 12/7/2009, 09:37 by: Shynee




Capitolo 1.

- Siamo pronti? - le chiese Dunja, dirigendosi verso di lei.
- Sì. Manca solo qualche minuto – rispose.
I ragazzi fecero tutti un respiro profondo, agitati come se fosse il loro primo giorno di scuola. Poi presero a parlottare fra di loro.
Li aveva osservati parecchio nel tempo passato insieme, e non era ancora riuscita a dare loro una collocazione precisa nella sua mente. Non erano una famiglia, ma non erano nemmeno solo amici. Tuttavia era come se ognuno di loro avesse un ruolo preciso nel gruppo.
- Ragazzi, è ora – annunciò Dunja. – Avanti, non è certo il vostro primo Meet&Greet! – ridacchiò abbassando il maniglione antipanico. Dallo spiraglio che si affacciava nel locale passò una scia di urla che costrinse tutti a fare una smorfia appena accennata.
I ragazzi le sfilarono davanti stampandosi in faccia il solito sorriso di circostanza. Bill non la guardò.
La porta si spalancò del tutto, e Vale vide il locale che aveva scelto per quell’occasione: uno spazio molto grande, ma poco accogliente. Tutto grigio, dalle pareti al pavimento.
La sicurezza trattenne la dozzina di fortunate presenti nell’ambiente enorme, che scalpitavano e si portavano le mani a coprire la bocca per l’emozione.
La porta si chiuse davanti al suo naso, mostrandole solo altro grigio. Bene, ora dovevano solo aspettare un quarto d’ora circa.
- Non potevi scegliere nient’altro? – le chiese Dunja distrattamente. Ebbe il sospetto che volesse solo riempire quel silenzio. Aveva osservato anche lei, e aveva notato un carattere solare e una persona disponibile, sempre pronta alla battuta. Molto restia al silenzio. Purtroppo.
– Non sapevo quante ragazze sarebbero state presenti, mi è sembrato giusto affittare un posto grande – le rispose portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Poi tornò con gli occhi alla solita cartelletta che portava in mano, dove custodiva tutti i documenti importanti. Ormai non se ne separava mai.
- Sei una valida assistente – constatò improvvisamente Dunja con un sorriso. – Ma parli sempre così poco e non sorridi quasi mai. E’ un peccato -
Quella frase la colse di sorpresa. Effettivamente… da quanto non sorrideva? E se non l’aveva notato lei, come poteva averlo notato un’estranea?
– Non ci sono molte occasioni per socializzare, e il lavoro tiene occupati tutti – rispose cercando di risultare simpatica.
- Questo è vero. Ma è anche vero tra i membri dello staff ci sono persone simpatiche, e siamo tutti amici. Dobbiamo esserlo se vogliamo sopravvivere in questa gabbia di pazzi! – ribatté sorridendo.
Anche lei sollevò un angolo della bocca. – Stai insinuando che sono un noioso robot? – domandò, ironica.
Dunja ridacchiò. – No, ma lo diventerai se continui così -
Anche lei si unì alla sua risata, stirando le labbra in un vero sorriso.
- Ora va molto meglio – affermò la donna, evidentemente più serena.
Valentina guardò il suo orologio, poi tornò con gli occhi sul suo capo.
- Potresti avvisare tu i ragazzi quando sarà ora di farli rientrare? Dovrei fare una telefonata importante – le chiese, portandosi tutti i capelli su una spalla. Faceva veramente caldo a Lisbona in agosto, e lei non aveva un maledetto elastico.
- Certo, vai pure – concesse la donna.
Valentina percorse il corridoio buio e scese i tre scalini che conducevano direttamente alla porta d’ingresso. In pochi secondi si ritrovò di nuovo in strada, di fronte al furgoncino riservato ai membri dello staff più vicini alla band.
Estrasse il suo cellulare dalla piccola borsa, fissando il display spento. Si lasciò scappare un sospiro.
Gloria e Samuel avevano provato a rintracciarla, diverse volte. Ma lei non aveva mai risposto. Se fosse per coraggio, o vigliaccheria, non lo sapeva. Ciò di cui era certa era che si occupava con il lavoro appositamente per non pensare. La sua mente le giocava brutti scherzi, e senza che lo volesse la riportava indietro di un mese e mezzo, alla vita che aveva lasciato per disperazione. Inizialmente non aveva nostalgia, ma con il passare delle settimane… era diventato un peso quasi insostenibile. Continuamente i ricordi le passavano davanti agli occhi come la pellicola di un film, a volte sognava sua madre tra le braccia di un uomo dal volto nero. Ma aveva trovato un rimedio.
Scosse i capelli che le erano ritornati appiccicati al collo, facendo quella telefonata di lavoro per zittire la sua testa.
Pochi minuti dopo, i ragazzi e Dunja, Saki, Tobi e altri tre membri dello staff che non conosceva uscirono in strada.
- Staremo nel tourbus o in albergo? – chiese Bill appena la vide. Nel suo campo visivo entrarono anche Tom, che inforcava gli occhiali da sole, e Gustav, che si infilava un berretto rosso in testa. Solo Bill non poteva permettersi di farlo, vista la chioma leonina e gli occhi pesantemente truccati. Perchè un tipo come lui si notava anche se vestito di stracci…?
- Nel tourbus per ora, ma passeremo la notte in albergo – rispose lei, ingoiando.
- E perché usare il tourbus se dobbiamo stare in albergo? Non attira l’attenzione? – intervenne Georg. Non l’aveva visto. Proprio in quel momento un grosso pullman si fermò poco lontano da loro.
- Perché dobbiamo lasciarlo nel parcheggio dell’albergo – rispose Dunja al suo posto. – Ora salite, su. Valentina, tu vai con loro –
Lei si stava già dirigendo nel furgoncino, ma si arrestò di colpo e la guardò con gli occhi sgranati quando sentì quell’ordine. Ma perché, perchè qualcuno aveva deciso di punirla proprio quel giorno?
- Come? – chiese.
- A me sembra un’ottima idea – convenne Bill, regalandole uno dei suoi sorrisi diamantiferi.
Dunja annuì, perfettamente in accordo con lui. - Ma certo che lo è. Siete coetanei, sicuramente ti troverai più a tuo agio con loro che con noi vecchietti – spiegò ancora, aprendo lo sportello del furgoncino.
Lei acconsentì riluttante.
Dopo un paio di sollecitazioni di fare in fretta, salì sul bus dopo i ragazzi. Non l’aveva mai visto dall’interno. Si immaginava un ambiente piccolo e scomodo, poco funzionale. Invece era tutt’altro. Era uno spazio piccolo, sì, ma ben organizzato in due piani. E aveva quasi più mobili di casa sua e tecnologie avanzate.
- Wow – le sfuggì, guardandosi intorno. Le luci erano abbassate, per creare un’atmosfera tranquilla, che si confaceva bene al calare della sera.
- Stai avendo una visione mistica? – le chiese Tom, voltandosi indietro per guardarla. Lei sostenne il suo sguardo strafottente, ma non rispose. Le porte dell’autobus si chiusero dietro di lei.
Immediatamente tutti presero le loro postazioni: Tom e Georg seduti al divano intenti a giocare a qualche videogioco. Gustav con il suo portatile. E lei cominciò già a sentirsi persa, senza un posto. Qual era il suo ruolo lì?
- Vieni – le disse una voce dolce e accomodante, quasi vellutata. Si girò nello stesso momento in cui Bill la prese per mano. Nessuno sembrò far caso a loro. Si lasciò guidare su per le scale, fin quando sentì solo i loro passi echeggiare nell’ambiente, le voci dei ragazzi al piano di sotto sempre più distanti.
Lì, alla luce soffusa dei piccoli faretti incastonati nel soffitto, Bill la rinchiuse in un abbraccio. Lo fece come se non avesse aspettato altro da settimane. Si lasciò trasportare nel suo abbraccio per un po’, poi le loro labbra si cercarono da sole. Si baciarono, con una lentezza voluttuosa che faceva perdere la testa. Non ci fu nessun segno di indecisione o timore, da parte di entrambi. Fu così spontaneo e naturale che Vale ebbe la paura di non riuscire ad apprezzarne la reale bellezza.
- Finalmente… - sussurrò lui quando le loro labbra bagnate si separarono.
Vale la pensava esattamente come lui, ma non c’era bisogno di dirlo. Avevano avuto poche occasioni di stare insieme, troppo poche. E Bill aveva lo strano potere di farla sentire amata, protetta in alcune occasioni, e in certi frangenti aveva bisogno di lui come ne aveva di respirare. Non se lo sapeva spiegare. Lui era come la scoperta di un mondo nuovo. C’era così tanto da vedere, tanto da sperimentare…
Fu scossa da un brivido.
- Vale? – la richiamò.
- Mhm? – mugolò, ancora stretta nel suo abbraccio, la guancia contro il petto.
Ops. Forse aveva dimenticato di dare qualche segno di vita.
- Sei viva? –
- Stai zitto. Fammi rilassare – gli ordinò, continuando a tenere gli occhi chiusi. Era il paradiso quello?
La voce di Bill tremò di riso represso. – E vuoi farlo in piedi? –
Non rispose, limitandosi a sbuffare leggermente. Poi entrambi si sedettero sul letto di Georg, le spalle premute contro la parete e le teste abbandonate. Vale chiuse ancora gli occhi. Si sentiva come incubata in un’aura di pace e serenità, un’aura dove c’era un confortante calore. Ma non lo stesso che si appiccicava addosso durante il giorno, l’afa estiva. Un tepore confortante, rilassante.
- Sai che sono offeso con te, vero? –
Ecco. Aveva rovinato il momento perfetto. Quella lingua tenerla a posto mai?
- Perché? – riuscì a biascicare. Fu una domanda posta più per educazione, che per reale interesse.
- Perché in queste settimane mi hai praticamente ignorato. Ed eri inquietante, sembravi un automa – rispose lui, incurante che le sue motivazioni in quel momento suscitavano in lei lo stesso interesse di una partita di calcio. Cioè zero.
- Sì, lo so. Sono stanca, infatti –
- Ci credo. Costruirsi una maschera addosso e mantenerla è difficile… – constatò. La sua faccia sembrò di colpo stanca. E triste. Catturò tutta la sua attenzione.
- Lo sai bene tu, vero? – lo stuzzicò, cercando di tirarlo su. Bill non colse la provocazione, continuando a rimanere serio. Un’ombra di malinconia gli passò davanti agli occhi, ma fu solo un attimo.
- Volevo dire che mi sei mancata – spiegò, poggiandosi su un gomito. Vale si sentì di colpo in imbarazzo. Anche lui le era mancato, ma non l’avrebbe mai ammesso così facilmente. Non riusciva a capire come Bill riuscisse a dire certe cose con tanta spontaneità.
- Sai che pensavo? – le domandò ancora. Alzò una mano e le portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, scoprendo una guancia colorita. Si sentì sfiorare la pelle, dolcemente.
– Che pensavi? –
- Che di te non so niente - rispose, – Non so nemmeno da dove vieni esattamente -
Vale ridacchiò. – Che grave problema – approvò, sentendo subito dopo la risata di lui unirsi alla sua.
- No, davvero. Mi racconti qualcosa? –
Finse di pensarci un attimo. - Mi chiamo Valentina, ho da poco compiuto diciotto anni e sono italiana, precisamente di Chieti. Mi piacciono gli animali, la pizza, e… -
Bill le diede una leggera spallata. – Dai, seriamente – specificò, sorridendo.
Il sorriso di Vale si affievolì, poco a poco. Si sistemò dritta contro lo schienale di legno improvvisato, ripensando a ciò che aveva lasciato dietro di sé, e sprofondò in un baratro di precaria tristezza. Non c’era niente di bello da raccontare, proprio niente. C’era solo da dimenticare.
- Bill – cominciò, ripescando il suo debole sorriso. - Non ti sembra troppo tardi per le domande difficili? -
Il ragazzo sbuffò. Lasciò cadere una mano sul materasso, e incurvò la schiena contro la parete, guardando avanti a sé.
Ops… l’aveva fatto innervosire.
- Bill, che c’è? – chiese, sporgendosi appena verso di lui.
- Io non ti capisco – rispose bruscamente, ma con tono sostenuto. – Pensi che andrei a sbandierare ai quattro venti la tua vita? –
- No… - rispose. E non lo credeva infatti. Ma le faceva troppo male rivangare tutto.
- E allora! Voglio solo conoscerti di più. Ma davvero ti ritieni così importante da non essere accessibile a nessuno? –
Ogni accusa era uno schiaffo in piena faccia. Ogni parola le perforava il cranio. Era crudele trattarla così. E ingiusto. Non aveva idea di che espressione avesse, ma probabilmente era un brutto misto di dolore e frustrazione.
- Ma che stai dicendo! -
Qualcuno da giù urlò di abbassare la voce e zittirono entrambi. Vale fece un respiro profondo, poi contò fino a trenta.
- Okay – ricominciò, attirando l’attenzione del ragazzo. – Non devi pensare che non mi fidi di te. Il problema è mio -
Il suo sguardo parve incuriosirsi. – Che vuoi dire? – le chiese, la fronte aggrottata.
E come faceva a spiegarglielo? – Voglio dire che ci sono un sacco di cose… particolari. E io non sono sicura di riuscire a… parlarne – ammise, a fatica. Gli occhi erano bassi, quasi si vergognasse di ciò che aveva confessato.
- Magari tirarle fuori ti fa bene – insistette il ragazzo. Non vide altro nel suo viso se non sincero interesse. Ma non bastava.
Gli sorrise, paziente. - Magari non ora –

Bill si arrese, scuotendo la testa. Per quanto si sforzasse non riusciva a decifrarla, quella ragazza. Non importava quanto lui cercasse di andare a fondo e scavare, lei non gli permetteva di avvicinarsi in nessun modo. Era l’atteggiamento che più lo frustrava, e che, paradossalmente, gli faceva perdere fiducia in se stesso. Voleva solo dimostrarle che teneva davvero a lei, che voleva starle vicino. Ma non glielo permetteva.
Anche in quel momento aveva voglia di parlare, di dirle un sacco di cose. Magari anche le più stupide. Ma perché avrebbe dovuto lui cominciare uno scambio a senso unico?
- Che sta pensando la tua testolina? Vedo del fumo – disse Valentina, di nuovo di buonumore. Il suo sorriso non servì ad addolcirlo.
- Che sei impossibile – rispose subito, imbronciato.
L’avviso che erano arrivati in albergo troncò lì la conversazione.


Scusate il ritardo!
 
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