*Ali Spezzate*

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Lullaby;
view post Posted on 19/3/2009, 22:32




CITAZIONE (Shynee @ 19/3/2009, 19:55)
Perfetti? Lei mi sta antipatica

Intendevo che sono perfetti insieme XD
 
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Shynee
view post Posted on 20/3/2009, 00:20




Oh, beh... XD

Capitolo 11.

Chiuse l’ultima cerniera dell’ultima valigia.
Qualcosa dentro invogliava ed eccitava la sua voglia di urlare e gettare tutto all’aria. Non voleva partire. Per la prima volta, non voleva lasciare casa sua. Si sentiva un leone in gabbia, era nervoso e sembrava che pesanti catene lo tirassero verso quel maledetto furgoncino che l’avrebbe portato migliaia di chilometri lontano dalla sua famiglia, dalla sua lingua... lontano da lei.
Ammise con se stesso che sapeva che il momento di partire sarebbe arrivato prima o poi. La sua mente aveva sempre allontanato quel pensiero e adesso che era giunto, non era preparato.
Proprio ora poi...
Chiuse gli occhi e si sfregò le dita sulle tempie, sospirando. Glielo avrebbe detto?
Si diede dello stupido: ma certo che si... Sarebbe stato squallido da parte sua non metterla a parte di nulla. Ma come glielo avrebbe detto? Lei la sera prima era scappata via e non gli aveva dato il tempo di parlare, di spiegare...
Non gli aveva dato il tempo di niente. E quel niente ora più che mai gli sembrava vuoto e doloroso. Quel niente sarebbero state le giornate senza le sue risate, senza le sue battute fuori posto, senza i suoi accorati tentativi di giustificarsi. Quel niente sarebbe stata la sua vita passata su palchi e set di servizi fotografici senza la certezza che lei ci sarebbe stata sempre, oltre quel muretto.
- Bill – qualcuno entrò nella sua stanza con passi non molto pesanti. Non era Tom, poco ma sicuro. Gustav nemmeno, lui era più silenzioso. Andando ad esclusione rimaneva solo l’hobbit: Georg. Con due dita, ancora di spalle si massaggiò il setto nasale, mentre chiudeva gli occhi.
- Che vuoi – ringhiò a voce bassa. Quella frase non aveva nemmeno il tono di una domanda, sapeva già cosa gli avrebbe detto l’amico. Ma lo rifiutava, mentre la rabbia cresceva, aumentando il suo desiderio di mettere per la prima volta veramente in pratica ciò che “Schrei” diceva.
- Nervosetti eh? – disse Georg, con cipiglio infastidito – Scendi, intanto qualcuno sale a prendere le ultime valige, gli altri sono già giù – lo informò uscendo poi dalla stanza. Serrò le palpebre, contraendo tutti i muscoli. Se da una parte voleva rimanere in silenzio, dall’altra la buona educazione gli imponeva di rispondere. Optò per la seconda scelta.
- Faccio una telefonata e vengo – rispose. Già, sarebbe andato. Come al solito non si sarebbe opposto ai ritmi opprimenti del suo manager. Eppure non voleva partire. Quante volte l’aveva ripetuto, nella sua mente? Tante, troppe per essere contate.
Ma lui era quello, no? La sua vita era tutta un viaggio, un conoscere persone nuove per poi dimenticare i loro volti e i loro nomi appena dieci minuti dopo, una sequenza di rapporti troncati a causa del lavoro.
Qualcuno entrò con passi pesanti nella sua stanza e raccolse dal letto le restanti due valige. Finalmente si decise ad aprire gli occhi e l’imponente figura di Saki sfilava davanti a lui con due enormi bagagli rossi.
- Bill, vieni? – gli chiese con fare gentile. Aveva sicuramente capito che non era giornata.
Guardò ancora il cellulare ancora abbandonato sul letto, poi rivolse il suo sguardo all’uomo.
- Scendo tra cinque minuti – mormorò e il bodyguard stranamente non replicò, anzi uscì velocemente dalla stanza, le valige appese alle mani.
Riguardò il cellulare abbandonato sul letto, la cui lucina blu lampeggiava regolarmente ogni sette secondi. Sospirò e prese il coraggio a quattro mani.

Era stanca, stanchissima ed erano solo le otto di mattina. Praticamente erano due giorni che non dormiva.
Sotto gli occhi arrossati e gonfi erano evidenti due profondi e scuri solchi. Era pallidissima.
Si sistemò meglio su quella sedia di plastica troppo scomoda e affondò la faccia nel borsone nero poggiato sulle sue gambe. Chiuse gli occhi e cercò il buio. Perchè nonostante tutto, lei amava il buio, più della luce. Sentiva il vociare delle persone sedute intorno a lei, nell’enorme terminal pieno di negozi appena all’ingresso dell’aeroporto. La gente la circondava, piena di bagagli, di affanni, preoccupazioni, ma lei era sola. Come al solito. I suoi zii l’avevano accompagnata all’aeroporto e poi erano andati via, salutandola calorosamente, con baci, carezze e qualche lacrima di circostanza.
Ma lei dei saluti calorosi non se ne faceva niente, visto che in quel frangente era comunque sola come un cane. Sola fuori... e dentro.
Il suo volo era alle nove e dodici, avrebbe solo dovuto fare il check-in e poi sarebbe planata verso... casa sua? Non sapeva nemmeno se considerare “casa” un posto abitato da gente a cui lei nel migliore dei casi non interessava. Ricordava che una vecchia canzone degli U2 diceva “A house still doesn’t make a home”. Quanto era vero...
Si sentiva a pezzi. Stanca, ancora prima di aver vissuto nulla del suo ritorno.
Il solo pensiero di dover ritornare in quella casa... riprendere le vecchie abitudini... ritornare a scuola.
Ritornare alla solitudine e alle macerie della sua famiglia. Si chiedeva a cosa fosse servito quel mese di vacanza, dato che stava già sprofondando nella situazione iniziale. E al consueto dolore, se ne sarebbe presto aggiunto un altro, più profondo. Lo sentiva già crescere dentro di lei, lento, ma inesorabile. Fino a quando sarebbe esploso dentro di lei e lei sarebbe implosa, ancora una volta. Ormai era routine.
Il suo cellulare, nascosto nella tasca dei suoi jeans era acceso, ma non era arrivata nessuna chiamata. Nemmeno una di sua madre. Solo Samuel, la sera prima, l’aveva chiamata. Almeno qualcuno si ricordava ancora di lei.
Sbuffò, impaziente, guardandosi intorno. Uomini armati di trolley che inseguivano un aereo dai motori già accesi, mamme che ripulivano amorevolmente il mento sporco di gelato dei loro figli, adolescenti, ragazzi... era tutto normale.
Lei il check-in l’avrebbe fatto dopo mezz’ora. Non sapeva nemmeno perchè i suoi zii l’avevano accompagnata così in anticipo.
Il suo telefono vibrò nella sua tasca, la suoneria dei Linkin Park suonava fastidiosa e irriconoscibile, in mezzo a tutto quel trambusto. Lo tirò fuori e rispose, senza nemmeno controllare il numero.
- Pronto? - disse, cercando di dare alla sua voce una parvenza di normalità. Dall’altra parte qualcuno inspirò.
- Vale? – la chiamò una voce esitante. E nel sentire quel timbro, qualcosa dentro di lei si mosse. Non sapeva esattamente cosa, ma si mosse, scatenando sensazioni a cui non sapeva dare un nome.
- M...Mamma? – chiese, la voce che tremava di emozione, inspiegabilmente.
- Si – confermò lei. Spontaneamente, sorrise, sorvolando il tono gelido improvvisamente assunto dalla sua voce. Si aspettava delle scuse, o almeno una spiegazione sul perchè non si era fatta sentire, sul perchè nelle ultimissime telefonate era stata distaccata. La sentì inspirare, un’altra volta. Forse le avrebbe detto qualcosa... per farla stare meglio. Dopotutto era sempre riuscita a capirla e in quel momento non stava per niente bene.
- Sei all’aeroporto? –
Il sorriso scomparve dal suo viso, quando riconobbe di nuovo la freddezza nella sua voce.
- Si – rispose, aggrappandosi all’ultimo lembo di speranza che le dicesse qualcosa per farla sentire meno sola. Ma non riuscì a mascherare il filo di tristezza che s’intrecciò con la sua voce.
- Bene, quando atterri a Roma, fammi uno squillo –
E chiuse la chiamata, prima che lei potesse dire qualcosa. Prima che potesse chiederle se fosse successo qualcosa, prima di ogni perchè, prima di tutto. Abbassò gli occhi, il guscio rigido del cellulare ancora vicino all’orecchio arrossato e caldo. Strizzò gli occhi e lo abbandonò nel borsone. Non era certa che l’avrebbe chiamata davvero, una volta atterrata a Roma per prendere un altro aereo che l’avrebbe finalmente portata nella sua città.
Però c’era qualcun altro che doveva chiamare. L’avrebbe fatto più tardi... si, sicuramente più tardi.

Quel giorno, dire che David era nervoso era semplicemente un eufemismo. Volendo essere precisi aveva un diavolo per capello, e i motivi erano i più svariati: non era riuscito a recuperare un jet privato per i ragazzi, per cui sia lui che loro dovevano accontentarsi della prima classe di uno di quei comunissimi aerei per ricconi sfondati. In più si era sorbito un lungo monologo appena sveglio da parte di sua moglie imbestialita che non perdeva occasione per fargli pesare che non era mai in casa con lei, che la lasciava sempre sola. Il loro volo era tra meno di un’ora, sarebbero sicuramente arrivati in ritardo per il check-in e Bill inoltre tardava a scendere. Lui invece era già in macchina con gli altri, che batteva nervosamente un piede e faceva altrettanto nervosamente coincidere ad intermittenza gli indici.
- Ma perchè Bill non scende? – borbottò Gustav mentre guardava distrattamente fuori dal finestrino oscurato. Tom ignorò la domanda e si stravaccò meglio sul sedile di pelle, sbadigliando. Intanto Georg salì in macchina e si sedette accanto a David. Quando non vide Bill, sbuffò esasperato.
- Ma che fine ha fatto Bill? – gli domandò isterico.
- Doveva telefonare alla sua amorosa – rispose Georg con una punta di ironia nella voce. Poi prese a giocherellare con il suo nuovissimo cellulare.
David sentì i capelli rizzarsi improvvisamente in testa e sgranò gli occhi. Amorosa?! Da quando Bill aveva una “amorosa”?! E perchè lui non ne sapeva niente? E soprattutto...perchè non si era accorto di niente?! Bill era forse impazzito?!
Fece un lungo respiro e s’impose un tono di voce tranquillo. Nascose la sua agitazione dietro una maschera di finto disinteresse e sorrise tranquillamente, rivolgendosi al bassista.
- Amorosa? Chi? – chiese curioso, con una finta faccia angelica. Sapeva che Georg non era molto scaltro, per cui avrebbe ingenuamente risposto. Per certi versi gli faceva molto comodo quella sua qualità...
Il ragazzo lo guardò, stava per parlare. Stava già tendendo le orecchie, per assorbire tutte le informazioni, quando un’altra voce baritonale gli raggiunse alta e minacciosa alle orecchie.
- Niente David, Georg scherzava –
L’avrebbe riconosciuta fra mille: era quella di Tom. Vide che lanciò un’occhiata minacciosa al bassista. Georg lo ignorò bellamente e si voltò di nuovo verso di lui, con un sorriso malefico dipinto sul viso.
- Bill sta intrallazzando con una ragazza che ha conosciuto qualche settimana fa – gli disse candidamente. Georg non fece nemmeno in tempo a terminare la frase che David si catapultò in casa. Tom gli urlò qualcosa per fermarlo, ma lui non ascoltò.
Travolse Kaya, e si precipitò nella stanza di Bill. Si fermò sulla soglia e vide che armeggiava con i tasti del telefono.
- Bill che cosa fai?! – urlò, facendolo sobbalzare. Il ragazzo abbassò repentinamente il cellulare e lo guardò un po’ spiazzato e spaventato al tempo stesso.
- Una telefonata... – disse con voce triste e soprattutto pacata. Una cosa che sorprese David non poco, visto che Bill teneva quasi maniacalmente alla sua privacy e ogni volta che veniva interrotto s’incavolava come una belva. Ma quella volta era diversa. Gli andò incontro e gli strappò il cellulare di mano, distraendolo con un sorriso e una pacca sulla spalla. Guardò furtivamente il display ancora illuminato e notò un nome selezionato nella rubrica: Valentina.
- Dai Bill, saluterai i tuoi familiari dopo, adesso scendiamo, dobbiamo evitare la folla, non sono riuscito a far svuotare l’aeroporto per l’ora della nostra partenza, se ci beccano è la fine e siamo già in ritardo – parlò come un registratore con l’intento di distrarlo dal cellulare e trascinò Bill fuori dalla porta, il braccio ancora poggiato sulle spalle gracili. Stranamente Bill non si oppose, anzi sussurrò flebilmente qualcosa e si lasciò trascinare. Aveva un viso estremamente abbattuto. David pensò che se non fosse stato preoccupato a pensare a come tenerlo lontano da quella ragazzina per evitare problemi lavorativi alla band, gli avrebbe quasi fatto tenerezza.
Strinse il telefono di Bill tra le dita: quello che stava facendo non era affatto corretto. Era la vita di Bill in fondo, non la sua, non ne aveva il diritto. Ma mentre scendeva le scale con Bill davanti, scacciò via quelle noiose considerazioni e conservò il telefono nel borsello, rigorosamente firmato, che portava a tracolla. In fondo lo faceva per lui, per evitare che commettesse sciocchezze. Non faceva niente di male.
Quando Bill entrò in macchina, salutò tutti quanti, come al solito. Si sedette accanto a Gustav e a Tom. David vide che i gemelli si scambiarono un’occhiata eloquente. A volte pensava che avessero il potere di comunicare telepaticamente. Chissà cosa si erano detti... A volte invidiava quella loro capacità. Scacciò quei pensieri e si concentrò sul furgoncino che intanto era partito, diretto verso l’aeroporto, lasciandosi alle spalle Berlino e di conseguenza qualche possibile amore destabilizzante.

- Largo, fate passare, fate passare! -
Saki e almeno altri otto uomini circondavano i Tokio Hotel da tutti i lati, mettendoli in salvo dalle poche fan che avevano previsto (forse grazie a qualche sfera magica) il giorno della partenza verso Los Angeles. Erano in ritardo per il check-in ma David sapeva che senza di loro l’aereo non sarebbe andato da nessuna parte. Ad un tratto qualcosa vibrò nel suo borsello: il cellulare.
Avvisò Saki che si sarebbe allontanato un minuto e uscì di nuovo un attimo fuori dall’aeroporto, poiché dentro non c’era molta ricezione. Frugando nel borsello si stupì che il cellulare che suonava non era il suo, bensì quello di Bill. E il mittente era una certa “Valentina”. Non ci pensò due volte e aprì la chiamata. Per i sensi di colpa ci sarebbe stato tempo dopo. Se ci sarebbe stato tempo...
- Pronto? – disse con voce dura. La tizia dall’altra parte inspirò profondamente. Si sentì già irritato.
- Buongiorno, posso parlare con Bill? – chiese gentilmente. Chissà perchè si aspettava una di quelle vocine sottili con l’accento poco marcato, e chissà anche con qualche sfumatura francese. La voce che sentì invece, non era dura, ma nemmeno troppo sottile, con un accento diverso certo, ma non francese.
- Con chi parlo? – chiese, un po’ ostile.
- Sono una sua amica –
- E io sono il suo manager – ribatté quasi per sfidarla. Non era più certo che le avrebbe passato Bill. Anzi, non lo era mai stato.
- Buono a sapersi, ora posso parlare con Bill? E’ importante – dal tono poté percepire un certo fastidio. Ne fu a sua volta infastidito. Ma con chi credeva di parlare? Con suo padre?
- Bill è impegnato, e poi non sono sicuro che voglia parlare con te – rispose con un sorriso malefico stampato in viso.
- Come? – la ragazzina era evidentemente stupita. Certo, lui le avrebbe dato tutte le delucidazioni di cui necessitava...
- Bill non ha tempo da dedicare alle avventure. Ci ha raccontato di te e se vuoi saperlo ha detto che eri solo un passatempo, come le altre – disse tutto d’un fiato. Alla ragazzina dall’altro lato del telefono si mozzò il fiato. Ghignò ancora: scopo raggiunto. Voleva chiudere la chiamata subito, non aveva tempo per ascoltare le crisi di pianto dovute all’orgoglio ferito di una paperetta qualunque, ma aveva qualcos’altro da aggiungere.
- E se non lo sai, adesso stiamo partendo per Los Angeles, quindi togliti dalla testa quel ragazzo e cancella il suo numero. E’ sprecato per una come te –
Aspettò che la ragazza scoppiasse a piangere e chiudesse la chiamata, invece nessuna di queste prevedibili reazioni si verificò. Sembrava che fosse rimasta impassibile.
- D’accordo, allora scusi il disturbo – rispose invece con voce ferma. Non era nemmeno tanto triste. La rabbia gli ribollì dentro e lo portò inevitabilmente ad assottigliare gli occhi.
- Di niente – disse brusco e chiuse il telefono. Ancora più incazzato un po’ per non essersi accorto di nulla, un po’ per essere stato sconfitto dalla fermezza di una mocciosa, rientrò in aeroporto e raggiunse gli altri.

- E se non lo sai, adesso stiamo partendo per Los Angeles, quindi togliti dalla testa quel ragazzo e cancella il suo numero. E’ sprecato per una come te – si sentì rispondere. Chiuse gli occhi e il suo corpo si scosse, come colpito da qualcosa. Però le lacrime non scendevano. I suoi dotti lacrimali rimasero asciutti, mentre dentro si sgretolava tutto il rimasuglio dei suoi sentimenti. Che stupida. Che idiota.
- D’accordo, allora scusi il disturbo – rispose cortese, tappandosi un orecchio con la mano libera a causa della confusione che la attorniava. Si aggrappò a quel che rimaneva della sua dignità e s’impose di non attaccare il telefono per prima. Avrebbe dato l’immagine di una ragazzina ferita e lei era si ferita, ma non così stupida da mettere in mostra la sua sofferenza al primo stronzo che le capitava. Non sapeva se per la confusione che si faceva sempre più forte o per la rabbia, premette ancor di più la mano sul suo orecchio.
- Di niente – rispose l’uomo bruscamente e le chiuse il telefono in faccia. Lei allontanò dall’orecchio il suo e lo abbandonò di nuovo nel borsone, ignorando le urla che si facevano sempre più forti. Tra un quarto d’ora avrebbe fatto il check-in e avrebbe dimenticato. Ma in quel momento sentiva di nuovo la sensazione di un coltello piantato dalla gola fino al cuore. Non sapeva se credere alle parole di quell’uomo. Nemmeno lo conosceva... allora perchè glielo aveva detto? E se fosse stato tutto vero?
Lei... un passatempo. Un passatempo. Nonostante tutto, nonostante l’aiuto, le carezze, il conforto... i baci, era stato un passatempo. Le riusciva difficile credere che Bill fosse capace di una cosa del genere, ma forse voleva solo evitare di guardare in faccia la realtà e quell’uomo era stato molto chiaro. Si, era sicuramente così. Doveva solo mettersi l’anima in pace... e fasciarsi ancora una volta. Stava giusto per sospirare, quando una ragazza tutta borchie e teschi, all’improvvisò le sfrecciò davanti urlando, correndo così velocemente che pensò di aver avuto un’allucinazione.
- Questa è pazza – mormorò, voltando la testa nella direzione in cui correva. Assottigliò gli occhi e quando vide cosa, o meglio, chi, scatenava tutto quel trambusto, si alzò in piedi e dilatò gli occhi. Si coprì la bocca con le mani: non poteva crederci...
Georg che sorrideva alle fan, attorniato da gorilla con cui aveva precedentemente (e sfortunatamente?) avuto a che fare.
Gustav con un’espressione sobria e composta in volto, che camminava a testa alta, lanciando ogni tanto sguardi e sorrisi alle poche ragazze ammassatesi al TCA solo per loro.
Tom che con il suo solito passo strascicato e altalenante si guardava intorno, l’onnipresente sorriso dipinto sul bellissimo volto.
E più dietro Bill. Bill che non stava in testa era una cosa allarmante. Bill che aveva un sorrisino di circostanza stampato in viso e guardava in basso mentre camminava, anche quella era una cosa allarmante. Il pensiero che la causa di quella tristezza fosse lei invece era una cosa stupida.

Cazzo se è una giornata di merda.
Ecco il primo pensiero di Bill appena era entrato in aeroporto e appena aveva intravisto una quindicina di adolescenti appostate per aspettarli.
Sorrideva si, anche se in modo forzato e quel giorno non aveva proprio voglia di fare il leader della sua band, per cui se ne stava leggermente più indietro degli altri. Non molto, altrimenti David glielo avrebbe fatto notare, ma quanto bastava per dare un po’ retta al suo istinto di piantare tutto. Improvvisamente il manager gli passò davanti raggiungendo non sapeva chi a passo veloce e deciso, quasi rabbioso. Il volto era collerico, la fronte aggrottata e gli occhi che lanciavano saette a chiunque avesse la sfortuna di incrociarli.
Camminò ancora, mentre le ragazze venivano allontanate un po’ troppo scortesemente.
Si stavano dirigendo direttamente al gate, c’era confusione ma non molta. Qualcuno gli diede una pacca sulla spalla. Sollevò la testa all’improvviso e vide Tom, con un mezzo sorriso rassicurante che lo guardava, mentre intorno la folla che imperversava si faceva più lontana e si chetava.
- Signorina, si deve allontanare da qui – disse uno delle guardie del corpo. Bill non ci fece molto caso, fino a quando non riconobbe la voce che rispose.
- Mi tolga le mani di dosso! Io sto aspettando il mio volo – rispose parecchio contrariata. Ma non fu quello che li sorprese entrambi: fu la persona a cui apparteneva che non si sarebbe mai aspettato di vedere lì. Entrambi i gemelli infatti voltarono la testa di scatto verso la persona che aveva urlato.
- Vada a raccontarlo a qualcun altro, non può stare quì – rispose quell’uomo, che nemmeno conosceva, ma aveva due prosperose guance da criceto. La stava spingendo per la spalla e la “esortava” ad andare via. Non ci pensò due volte, si allontanò da un Tom stupito e infranse la barriera di uomini intorno a lui. Con la coda dell’occhio vide David voltarsi verso di lui e sgranare gli occhi. Non vi badò nemmeno.
- Lasciala, la conosco – disse alla sua guardia del corpo. Il suo tono di voce era pacato, ma molto poco sicuro. Lui stesso era poco sicuro di ciò che stava per fare. Poi deglutì, scosso da qualcosa. Non aveva il coraggio di guardare negli occhi lei, per cui continuava a fissare il bodyguard.
- La conosci? – ripeté l’uomo, sorpreso.
- Si, devo ripetertelo? –
L’uomo un po’ titubante la lasciò e si allontanò di qualche passo. David invece si avvicinò a passo di carica e gli afferrò un braccio. Si voltò immediatamente verso di lui. Chissà perchè sentiva che l’avrebbe mandato presto nell’unico posto dove meritava di stare. Cioè a fanculo.
- Ma che stai combinando? Dobbiamo partire e siamo già in ritardo! – sibilò a denti stretti, sorridendo maniacalmente. Era palese che cercava di mantenere un po’ di quell’autocontrollo di cui non era mai stato molto dotato. Bill si divincolò dalla sua presa con uno strattone, intenzionatissimo a rispondergli a tono.
- Si, anche io, sono in ritardo – parlò subito Vale. Sentiva che la voce le tremava, nonostante cercasse di mantenerla fredda e distaccata – Ci vediamo – aggiunse e si voltò, per allontanarsi.
Rimase un attimo gelato sul posto: che significava “Anche io, sono in ritardo”?! Che doveva partire anche lei? E che non si sarebbero rivisti più?
- Bene, allora andiamo – David gli afferrò di nuovo il braccio e tentò di trascinarlo via. Si sentì parecchio irritato da quel continuo cercare di controllare la sua vita e i suoi desideri.
Con un ringhio si liberò dalla sua presa e cercò di raggiungerla. David lo chiamò, ma non lo ascoltò nemmeno, perchè lei si allontanava, il capo chino e il trolley che scivolava sul pavimento. Dopo appena due falcate le fu vicino. Le poggiò una mano sulla spalla, ma lei si voltò, sottraendosi al suo tocco, con uno scatto che fece sobbalzare perfino lui. Quando incrociò il suo viso, i suoi occhi riconobbe l’espressione più dura e delusa che le avesse mai visto dipinta in viso. La guardò.
- Dove vai? – le chiese. La domanda gli sembrò idiota.
- A casa mia. Tu dove vai? – assottigliò gli occhi, guardandolo. Lui abbassò il braccio, e sospirò: non poteva biasimarla se era arrabbiata. Tuttavia non riusciva ad afferrare i motivi di tanta rabbia.
- A Los Angeles – rispose a voce bassa, come se gli costasse ammetterlo.
- Buon divertimento allora –
Secca, lapidaria. Le sue parole e la loro durezza lo colpirono dritto al centro del petto. Poche cose lo avevano colpito con tanta intensità nella sua vita. Riuscì a percepire la rabbia in quella piccola frase, una rabbia che non si spiegò. Valentina afferrò ancora la maniglia del suo trolley e si voltò per andare via, i capelli raccolti in una coda bassa e scomposta le ondeggiavano sulla schiena. Scosse la testa impercettibilmente e le afferrò la mano libera, costringendola a voltarsi.
- Che significa tutto questo? – chiese stizzito. Lei strattonò la sua mano, liberandosi e lo guardò come se fosse un idiota, la fronte aggrottata e le sopracciglia avvicinate.
- Tutto questo cosa? – chiese.
Lui alzò gli occhi al cielo: la cosa che più non sopportava di lei era che riusciva perfettamente a fingere. Come se tra loro non fosse mai successo niente e questo, oltre ad imbestialirlo, gli faceva male.
- Questa stupida messa in scena, che significa? – chiese gesticolando. Si sentiva all’improvviso molto, molto incazzato. Incazzato perchè non aveva tempo, perchè doveva andare via, perchè lei si ostinava a chiudersi sempre più nel suo guscio e a procedere nella sua vita con lo sguardo basso e il capo chino. Era un’incazzatura che pulsava nel suo petto, s’ingrandiva e lo logorava, fino a procurargli dolore.
Vale inarcò il sopracciglio e incrociò le braccia sul petto.
- Prova a chiederlo al tuo manager cosa significa – rispose, concisa.
Lui non capì. Cosa c’entrava il suo manager?
- Vale non ti capisco – disse spiazzato. Era sincero, non la capiva. E aveva l’impressione che le sue fossero tutte scuse per non affrontare la verità. La verità che anche lei provava qualcosa per lui. Ne era sicuro. Altrimenti non lo avrebbe mai baciato.
Vale si lasciò scappare un sorriso a tradimento e scosse la testa. Guardava il pavimento.
- Devo andare – disse alla fine.
La voce cambiò, diventando triste e rassegnata quasi. Ancora quella sua fissazione di fingere ed ignorare tutto. Quando sarebbe cresciuta?
No, non poteva andare a finire così. La rabbia d’un tratto divenne affanno, paura. Paura di finire qualcosa che forse non era mai nemmeno cominciato.
- No! – urlò.
Ma cosa sperava di concludere, trattenendola? Anche lui sarebbe andato via comunque. Eppure le aveva di nuovo preso la mano fredda e l’aveva avvicinata a se. I loro petti si sfioravano quasi. Incontrò di nuovo i suoi occhi: non dardeggiavano più e il suo viso era pieno di una strana calma malinconica, di accettazione.
Un’altra cosa che non riusciva a capire di lei: non lottava contro i dolori, contro la vita. Non lottava per ottenere quello che voleva. Però poi si ritrovò a pensare che non sapeva cosa voleva. Non l’aveva mai saputo, perchè non glielo aveva mai chiesto.
- Ti prego... – continuava a pregarla, ma le sue erano preghiere vuote, prive di speranza. Non era sicuro che lei avrebbe fatto qualcosa per cambiare il corso delle cose.
- No Bill lasciami andare – disse pacata. Infatti.
Però lui, non sapeva se per la sua volontà o per un riflesso della sua mente, non allentava la presa della sua mano. Lei lo pregò con gli occhi e aggrottò la fronte.
- Per favore... – disse di nuovo. Lui si trovò costretto a cedere.
La lasciò scuotendo la testa, contrariato e lei si voltò, allontanandosi. Aveva il capo chino.
Per la prima volta veramente non poteva fare nulla per far cambiare le cose come voleva lui. Per la prima volta, non poteva ottenere ciò che desiderava, perchè ciò che desiderava voleva scomparire su un aereo diretto chissà dove. In un posto troppo lontano. Era semplicemente impotente. Era sconfitto, ferito, arrabbiato, non sapeva nemmeno lui cosa provava esattamente in quel momento. Erano emozioni troppo grandi, troppo numerose che forse lo avrebbero fatto esplodere.
Poi, all’improvviso, qualcuno lo trascinò via per un braccio, beffandosi del suo dolore, per immergerlo di nuovo in un mondo a cui per la prima volta sentiva di non appartenere.

Capitolo 12.

Bill finalmente era solo. Beh, solo relativamente, visto che nella accogliente sezione 1° Classe dell’aereo c’erano comunque altri sediolini, la maggior parte occupati da uomini vestiti elegantemente e signore ingioiellate. Appoggiò il viso su un pugno e guardò dall’oblò il mondo, che si era fatto piccolo piccolo. Chiuse gli occhi.
Tamburellò le dita sulla gamba magra fasciata da un paio di jeans scuri, mentre i ricordi di ciò che era successo appena un’ora prima sfilavano davanti alla sua mente e venivano esaminati tanto da non riuscire più a metterli bene a fuoco. Dopo un po’ sentì qualcuno rimbalzare rudemente sul sediolino (o meglio, poltrona) vuoto accanto a lui. Non c’era
bisogno di aprire gli occhi per sapere chi fosse. Dopotutto, chi si sarebbe mai adagiato su una poltroncina con la
grazia e la discrezione di un bombardamento se non suo fratello?
- Queste poltrone sono le più comode che abbia provato da quando ho messo piede su un aereo – disse Tom, stravaccandosi ancora di più e schiacciandosi le mani sotto la nuca. Bill mugolò incurante, cercando di mandare a suo fratello il chiaro messaggio che voleva essere lasciato in pace. Riaprì gli occhi e fissò ancora il vuoto, dal finestrino.
- Pensa c’è pure il lettore DVD con tanto di cuffie per ogni poltrona! – continuò Tom imperterrito, ma Bill sbuffò infastidito. Finalmente si decise a voltarsi verso di lui.
- Ci sono in ogni aereo, treno, jet, pullman che prendiamo, Tom. Parli come se fosse la prima volta che viaggi – esalò annoiato.
- Lo so, volevo solo dire qualcosa per risollevarti – rispose Tom con noncuranza.
- Ah beh, ci sei riuscito perfettamente – disse e ritornò a guardare il cielo azzurro, poggiando il mento sul pugno.
- Sul serio sai? Non hai una bella cera – disse Tom, sinceramente interessato al suo colorito. Lo scrutava con attenzione, interessato anche al più minuscolo foruncolo che costellava il suo viso. Bill roteò le pupille e sbuffò, rivolgendo lo sguardo verso di lui.
- E’ la stessa che hai tu ogni giorno, solo che fa sembrare triste e adorabile me e un idiota te – ribattè astioso. Tom, con suo grande stupore non si scompose più di tanto. Anzi, scrollò le spalle con noncuranza e si infilò le mani nelle tasche del jeans, sfilandole dalla sua nuca.
- Eh no Bill, io non soffro di pene d’amore – rispose tranquillamente.
- Solo perchè hai il cuore più duro della pelle di un pachiderma –
Forse non doveva replicare così, ma in quel momento il nervosismo logorava ogni più piccola parte di lui.
- No, solo perchè io non mi vado ad innamorare del primo bel faccino che mi capita sotto il naso per più di un giorno - ribatté, con la stessa calma.
Innamorato?! Lui era innamorato?! No, impossibile. Non gli era mai passato per la testa di esserlo. Quella frase lo colpì dentro come un milione di spilli acuminati e si sentì improvvisamente molto più nervoso di quello che già era in precedenza.
- Muori Tom – ringhiò inferocito e si voltò di nuovo. Si sentiva arrabbiato non perchè Tom fosse stato superficiale come al solito, ma perchè un angolino remoto della sua mente sapeva che quella era la verità, una verità che non voleva affatto accettare, che lo avrebbe fatto soffrire ancora di più.
- Lo farei pure se servisse a sollevarti caro fratellino, ma ho due buone ragioni per esimermi – rispose sornione, le labbra distese in un sorrisino furbo. Bill sbuffò esasperato, ma ammetteva di essere curioso.
- E cioè? – chiese, velando la sua curiosità con un tono indifferente.
- E cioè che primo, non voglio privare il pianeta, o meglio, le ragazze del pianeta di una simile fonte di piacere... – Bill lo guardò spalancando gli occhi – ...per le pupille, che hai capito! – Tom si corresse subito. Lui roteò gli occhi, ma sentiva che lentamente il nervosismo che gli pesava sul cuore cominciava a nebulizzarsi.
- Ok, il secondo motivo? – chiese, sperando che fosse più intelligente. Ma ne dubitava molto.
- Il secondo motivo è che se mancassi io, durante le interviste chi parlerebbe a monosillabi mentre tu fai una pausa per respirare, tra un monologo e l’altro? – fece una pausa, sfarfallandogli in faccia le ciglia – Di certo non quelle due emorroidi di Georg e Gustav – si auto ripose, ancora con quel sorrisetto stampato in viso. A quel punto, Bill non riuscì a non rilassarsi un po’. La pacatezza del fratello in quei casi era contagiosa. Un angolo della bocca si sollevò contro il suo volere, fissando l’espressione saccente del fratello. Si abbandonò contro lo schienale morbido della sua sedia e inspirò profondamente. Quando espirò, cercò di buttare fuori ogni preoccupazione, ogni peso, ogni dolore insieme all’aria e in parte, ci riuscì. Peccato che gli ultimi rimasugli di quel malessere, quelli più profondi fossero rimasti avvinghiati al suo cuore. Quelli non sarebbero passati presto, ci sarebbe voluto tempo. Accidenti, ancora non riusciva a crederci. Ci era cascato.
- E comunque potrei anche giustificare questa tua patetica caduta in basso – ricominciò Tom, lasciandosi andare anche lui contro la poltrona. Mentalmente lo ringraziò per averlo distratto dal ricominciare a farsi seghe mentali, e nella sua mente si insinuò anche il pensiero che fosse stato intenzionale il parlare proprio in quel momento.
- Ah, grazie. Davvero, adesso posso dire di sentirmi tranquillo – rispose pacato Bill ad occhi chiusi. Ma stava sorridendo.
- Si, perchè quella ragazza non deve essere come le altre. Insomma, è riuscita a piacere a te, a cui solitamente piace solo te stesso. E’ quasi prodigioso –
Bill gli diede uno schiaffetto con il dorso della mano sul braccio e ridacchiò. Però era vero... lei era diversa da tutte quelle che aveva conosciuto, o da tutte quelle che si era portato a letto. Forse perchè aveva passato la convalescenza con lei e l’aveva conosciuta di più. Sospirò ancora, arreso al fatto che qualunque cosa pensasse, o facesse, la mente l’avrebbe riportato a lei.
Tutte le strade portano a Vale.
- Beh, che si fa? – chiese Tom all’improvviso.
- Siamo su un aereo, che vuoi fare? –
Tom lanciò uno sguardo alla fila opposta alla loro. Bill seguì la traiettoria dei suoi occhi e vide Gustav, addormentato sul sedile, che ronfava con la bocca aperta. Insieme, guardarono subito il pacco pieno di gommose posato sul tavolino di fronte a loro.
Poi si guardarono negli occhi.
Poi si sorrisero in modo maligno.

Ancora una volta cambiò posizione sul sediolino, accavallando una gamba sull’altra. Chiuse gli occhi e cercò di nuovo di dormire.
“Ti prego...”
Ancora quelle parole. La sua mente gliele ricordava, dandole l’impressione che Bill fosse davvero accanto a lei a sussurrarle quelle preghiere nell’orecchio. Serrò ancor di più le palpebre e voltò la testa da un lato. Senza volerlo prese a torturarsi le pellicine delle dita.
“Per favore...”
Il tono si fece ancora più supplichevole e la voce più impregnata di dolore. D’un tratto rivide il viso di Bill davanti a lei, che sorrideva, in quel suo modo puro, sconvolgente. Così malinconico da sembrare più fragile del cristallo, tanto bello da poterla quasi commuovere. Aprì gli occhi improvvisamente, scuotendosi tutta, poi si batté una mano sulla fronte. Doveva smetterla, smetterla si ripensarci, si stava facendo del male.
Eppure sembrava essere sceso dalle nuvole, sembrava sincero.
Sembrava che davvero non capisse di cosa lei stava parlando. E allora perchè quell’uomo le aveva detto quelle cose? Perchè mai avrebbe dovuto mentire? Nemmeno lei capiva.
Le aveva chiesto di non andare via, l’aveva pregata. E continuava a farlo, indirettamente, nella sua testa. Sospirò. Quegli occhi erano stati di nuovo così vicini ai suoi, i loro petti si sono sfiorati tanto che lei aveva potuto sentire l’emozione pulsargli in corpo e aveva soppresso ogni istinto nascente di gettargli le braccia al collo. Aveva solo pensato a come andare via, fregandosene di lui e di quello che voleva dirle. Per fare la cosa giusta. Però improvvisamente la scelta di ritornare nel suo Paese, alle sue responsabilità, scolorì di fronte ai suoi occhi, perdendo ogni significato. E una domanda si affacciò indiscreta alla sua mente: era stata davvero la cosa giusta?
Scosse la testa per ripulire la mente da quei pensieri assurdi. Recuperò l’I-pod, seppellito sul fondo dello zainetto e infilò le cuffie nelle orecchie: non voleva pensare.
 
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Lullaby;
view post Posted on 20/3/2009, 11:54




Quanto lo odio Jost!
 
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Shynee
view post Posted on 21/3/2009, 14:04




Capitolo 13.

La sua faccia era gelida, priva di ogni emozione emergente. Sua madre stava rigida e immobile davanti a lei che la aspettava.
Quando la vide, rimase esterrefatta, gelata sul posto. Dilatò gli occhi in un modo impressionante, vedendo a pochi passi da se la figura di sua madre, che teneva per mano quel piccolo cavallo imbizzarrito di Giorgia. Era cambiata tantissimo. Non era più la solita donna un po’ malmessa, con un ché di trascuratezza nel viso e nel sorriso caldo che le dava l’aspetto di una mamma. Una mamma un po’ fragile, ma pur sempre mamma. In quel momento era diversa. Alta, più sottile, non molto truccata ma con i capelli ordinati, lasciati lisci e corvini contornare il volto, per poi scendere sulle spalle e soprattutto con un viso che trasudava freddezza. Non sorrideva, la guardava e basta, quasi annoiata di vederla.
Ingoiando il sasso che bloccava il suo esofago, riprese a camminare, trascinando il suo trolley e il suo borsone. Sorrise.
- Vale! –
Sua sorella le corse incontro, le mani paffute tese verso di lei, i capelli castani che si agitavano e un sorriso innocente dipinto sul suo volto infantile. Valentina abbandonò a terra borsone e trolley e aprì le braccia per ricevere la sua sorellina. La accolse come un lago riceve l’acqua della cascata di un fiume, e per poco non perse l’equilibrio e cadde all’indietro.
- Finalmente sei tornata! – cinguettò Giorgia con il mento ancora appoggiato sulla sua spalla. Avere di nuovo quel corpicino fragile tra le braccia la riempì di gioia. Vale sorrise, prima che lei si distaccasse dal suo abbraccio: per un attimo aveva dimenticato che Giorgia non era affettuosa se non lo stretto indispensabile. E in quel momento aveva fatto lo stretto indispensabile.
La madre le si avvicinò poi, con un sorriso tirato stampato in faccia. Sembrava incollato, per quanto era finto. Le fece male. Si sollevò e andò verso la madre a passi lenti, calibrati.
Quando le fu vicino la salutò con un sorriso sincero e cercò di abbracciarla, ma Gloria la scostò con una mano.
- Raccogli i tuoi bagagli, andiamo – le disse distaccata e lapidaria. Ma che era successo a sua madre? E quella nuova donna chi era? Senza proferir parola fece come le aveva detto.
- Gio, dammi la mano, non vorrei perderti di nuovo – ordinò Gloria e la bambina anche se reticente fu costretta a lasciarsi mettere un guinzaglio. Valentina stava per parlare, per chiedere qualcosa alla mamma, quando questa si voltò per dirle qualcosa.
- Guarda che è venuto anche il tuo amico Samuel, se vuoi puoi andare con lui, ha la macchina. Così ti fai un giro – disse tutto d’un fiato, ritornando alla freddezza iniziale. Vale cominciava a sentirsi male: era appena arrivata e non aveva ancora combinato niente e già Gloria la trattava come se avesse dato fuoco alla casa. Decise che non poté fare a meno di assecondarla. Non poteva chiederle nulla, è abbracciarla, solo fare quello che lei le chiedeva. E quella era un’evidente preghiera di togliere il disturbo. Sospirò e abbassò lo sguardo, ancora una volta.
- D’accordo, andrò con lui – esalò mortificata.
Una volta fuori, Valentina scorse la figura alta di Samuel, caviglie e braccia incrociate sul petto, poggiata alla sua macchina. Teneva la testa bassa e la bocca corrucciata, sembrava cogitabondo. Sempre biondo, sempre bello anche con una modesta camicia bianca e un paio di jeans addosso. In lui rivide l’unico suo amico, quello che non l’aveva abbandonata, che non aveva cominciato a trattarla con freddezza senza motivo. Lasciò i bagagli alla madre e andò verso di lui, senza poter fare a meno di sorridere. Era contentissima di rivederlo, almeno lui ci sarebbe stato sempre.
Ma perchè allora, per un momento aveva visto appoggiata a quella macchina una figura alta e longilinea dai capelli corvini e gli occhi scuri...?
Scacciò quei pensieri.
- Samuel! – gridò forte, cercando di riempire la sua mente, dove un nome fluttuava insistentemente, fino a diventare una cantilena senza senso. Il ragazzo sollevò di colpo la testa e allora anche le sue labbra pallide e leggermente sottili si distesero, sorridendo. Le andò incontro a braccia quasi aperte e quando furono vicini si abbracciarono. Quando si allontanarono, l’amico si concesse uno sguardo dalla testa ai piedi di lei.
- Però, sei un po’ malandata, ma tutto sommato di trovo bene – disse osservandola ancora, con fare da esperto intenditore. Valentina sorrise e gli diede una pacca amichevole sul braccio.
- Accompagnami a casa, poche storie – disse, ancora sorridendo. Sapeva di potersi permettere quel tono con lui, non se la sarebbe presa.
- Agli ordini – rispose alzando le mani e salirono in macchina. Quella di Samuel era una bella utilitaria rossa, discreta, ma nuova. Le aveva raccontato che gliel’avevano regalata per il suo diciottesimo compleanno appena avevano cominciato a frequentarsi. Il ragazzo accese il motore e partì, a velocità sostenuta.
- Allora, raccontami che hai fatto in questo mese – disse continuando a guardare la strada, con un gomito poggiato sullo sportello e una mano sul volante. Valentina sorrise in modo malinconico e fissò le sue scarpe. Doveva dirglielo o no?
- Ah beh, ho dormito, ho poltrito, ho guardato la TV... Una pacchia insomma – rispose sorridente. No, forse per il momento era meglio non dire nulla.

Quando entrarono nel paese, Valentina chiese di andare a casa. Aveva dormito qualche ora sull’aereo, ma si sentiva ancora stanca e aveva un bisogno impellente del suo letto e del suo cuscino. Samuel alla richiesta la guardò con un sopracciglio inarcato e un’espressione eloquente.
- Non ci penso nemmeno bella mia, mi sono preso un giorno libero per poter stare con te oggi – replicò, ma non era arrabbiato. Vale spalancò gli occhi.
- Ti sei preso un giorno libero dal lavoro... per me? Sono toccata – disse con voce sottile sfarfallandogli le ciglia in faccia e mettendosi teatralmente una mano sul petto. Lui la guardò ancora più scettico, fissando la sua espressione canzonatoria e ironica. Come era brutto nascondere, fingere. Appariva felice, ma si sentiva distrutta.
- Se preferisci posso riportarti a casa tua dove ti aspetta una pila infinita di compiti da recuperare – la minacciò con voce tranquilla. Perse per un secondo tutta la sua aria allegra e una lunga pellicola mostrò ciò che l’attendeva a casa. E non erano solo i libri e il carico infinito di arretrati da recuperare il problema.
- No, no. – sorrise vagamente lugubre – Meglio andare a fare un giro –
Sentì improvvisamente un grosso masso di cemento franare proprio all’altezza dei polmoni.
- Ora si ragiona – approvò Samuel.
Lei sollevò lo sguardo e gli rivolse un mezzo sorriso annuendo, mentre il suo amico svoltava a destra. Non voleva dare spiegazioni, non voleva parlare di come si sentiva, non voleva parlare di niente. Ciò che desiderava era solo rimandare... rimandare tutto al più tardi possibile.
“Sei solo una bambina” una voce sottile e dolce quanto il miele, ma insolitamente severa risuonò nella sua mente, crudele spietata. E due occhietti vispi incastonati in un viso da elfo dispettoso si affacciarono davanti ai suoi occhi. Serrò le palpebre e schiacciò le labbra, un altro po’ di lei affondò nell’oblio.
- Vale? – la chiamò l’amico. Quando lo guardò, notò la sua espressione curiosa e rifletté che aveva esagerato nel lasciarsi andare ai ricordi.
- Niente – sorrise rassicurante.
Il ragazzo accostò in una strada molto larga e frequentata. Il marciapiede di cemento plumbero era gremito di gente che camminava non badando minimamente a loro. Era strano ritrovarsi tra gente normale, pensò Vale, dopo aver passato tanto tempo con persone che non potevano mettere il naso fuori casa senza essere abbacinati da milioni di flash. Per la verità era strano ritrovarsi la fra gente, abituata solo alla compagnia di Anja e dei suoi parenti e a quel quartiere desolato.
- Scendi? – disse Samuel gentilmente, aprendole lo sportello. Lei lo guardò accigliata, come per chiedergli spiegazioni. Lui alzò le spalle.
- Beh, sono le due passate, io ho fame e immagino che anche tu ne abbia – chiarì lui. In effetti aveva un po’ di fame. Un po’ tanta a dirla tutta e la cucina italiana le mancava. Senza dire nulla scese dall’auto e si fece accompagnare dall’amico in uno di quei posti frequentati soprattutto da adolescenti, forniti di panini, pizze e comodi tavolini di plastica. Non molto formale, ma meglio così: non le piacevano le cose formali. Entrarono e, ordinati un panino alla carne e una vaschetta di patatine inzuppate di salsa di ketchup, maionese e senape per uno, si sedettero ad uno dei tavolini liberi.
- Fammi capire: – cominciò Vale, cominciando a sgranocchiare la consistenza morbida del pane – Che è successo a Jasmine di tanto terribile da farmi correre qui in fretta e furia neanche fosse scoppiata la rivoluzione francese? – come era bello poter parlare in Italiano e concedersi certe espressioni. Con il Tedesco non poteva farlo, non era abbastanza padrona della lingua.
Samuel continuò a mangiare e scrollò le spalle – Ah, mia sorella. Niente di grave, un falso allarme – rispose ingoiando anche lui. Vale aggrottò la fronte, molto dubbiosa.
- E cioè? –
- E cioè una semplice intossicazione. Avrà mangiato qualcosa di tr...-
- Vuoi dire che mi avete fatta venire qui da Berlino per una stupida intossicazione? – abbaiò lei.
- Vale calmati – disse il ragazzo stupito, notando che la confusione nel locale si era improvvisamente zittita e la gente si era voltata verso di loro. Lei ubbidì, senza fare troppe storie.
- Abbiamo solo pensato che se per caso fosse andata male, tuo padre avrebbe avuto bisogno del maggiore sostegno possibile. E poi, saresti comunque ritornata – spiegò il ragazzo, tra un morso e l’altro.
Le costava ammetterlo, ma aveva ragione. Non sarebbe cambiato nulla. Continuò a mangiare in silenzio, interrotta ogni tanto dai brevi commenti sulla gustosità del panino da parte dell’amico, mentre lei ruminava tranquillamente.
- Sai è bello vederli così felice – esordì, spezzando il silenzio una volta finito il suo panino.
- Chi? – chiese Vale, infilando in bocca l’ultima patatina.
- Tuo padre e mia sorella. Sono cos’ felici e spensierati, sembrano davvero innamorati –
Vale storse la bocca e ingoiò, a fatica. Era davvero suo padre l’uomo di cui il suo amico stava parlando o qualche suo clone con un carattere più trattabile?
- Innamorati... che vuol dire?- chiese quasi senza rendersene contro. Che domanda scema: lo sapeva cosa significava, o se lo sapeva.
- Suppongo che sia un forte attaccamento ad una persona... – rispose con tono pensieroso Samuel, che si abbandonò contro lo schienale della sedia – Perchè? –
Lei non rispose e bevette un sorso d’acqua.
- Dai, non dirmi che ti sei innamorata! – esclamò Samuel entusiasta. Vale ignorò il sorriso abbagliante e l’improvvisa gioia che lo aveva illuminato tutto d’un tratto.
- No – ammise con voce piatta. Le venne naturale negare, anche se in fondo non stava negando. Perchè non era innamorata, giusto?
- Ho capito –
- Bene –
- Bene –
- Lo conosco? – domandò l’amico divertito. Ancora quella luce che Vale ignorò, troppo presa a negare a se stessa la cruda verità.
- Può darsi – concesse, guardando da un’altra parte. Era un bugia, lei non era affatto innamorata. L’aveva solo detto per tenere a bada la curiosità dell’amico, non per altro. E allora perchè cazzo sentiva quel continuo macigno al posto dei polmoni impedirle di respirare e il desiderio di voler ancora toccare quelle labbra?

Dopo aver parlato un altro po’ ancora, Vale chiese di farsi portare a casa, nella speranza di poter dormire decentemente nel suo letto, con il suo cuscino come non faceva da giorni.
Appena varcò la soglia ed entrò nella cucina però, tutte le sue speranze collassarono. Rimase sull’uscio, impietrita, dimenticando improvvisamente tutta la stanchezza iniziale.
- Santo cielo... – fu tutto ciò che riuscì a mormorare. Le facoltà di controllare il proprio corpo sembravano averla abbandonata. Fissò ancora attonita quella visione sconcertante: le ante delle dispense in basso della cucina tutte aperte, e le pentole che avrebbero dovuto stare ordinatamente riposte nello stipo in basso a sinistra, campeggiavano secondo un ordine confuso sul pavimento; il frigorifero aperto e svuotato e tutte le carte di salumi e formaggini che avrebbero dovuto stare piene, nel ripiano più in basso, giacevano vuote, proprio ai piedi del frigorifero. Il loro contenuto galleggiava su un disgustoso e liquido coacervo color verde bile in ogni pentola. Sul pavimento si potevano chiaramente distinguere macchie di ketchup, maionese e latte, adornate dai granuli delle spezie più varie e più colorate. Le loro confezioni vuote erano accantonate in un angolo. Il divano sporco, il tavolo e le sedie praticamente dipinti di quella brodaglia stomachevole. E una figurina non molto alta e sottile che volteggiava candidamente tra le pentole e le padelle traboccanti, perfettamente a proprio agio. Mormorava qualcosa tra se e se con aria gentile e aveva nella mano impiastricciata un mestolo con cui si divertiva a travasare il contenuto da un recipiente all’altro.
- Giorgia... – la richiamò Valentina, con voce stridula. Improvvisamente un paio di fari marrone scuro si fissarono tranquilli su di lei e gli angoli della bocca si distesero tranquilli.
- Ciao Vale – la salutò garrula – Vuoi anche tu un po’ di minestra speciale? –
Era sempre stata una bimba con una parlantina piuttosto florida, per avere solo quattro anni, Vale lo sapeva bene. E insieme alle sorprendenti capacità verbali aveva sviluppato anche sorprendenti capacità di combinare disastri di proporzioni bibliche, come rompere tutti i piatti e i bicchieri della credenza, aprire tutti i pacchi di merendine e cereali nel supermercato solo per prendere il giocattolino (e quindi aprire una confezione di coltelli di plastica per aprire la bustina che lo conteneva) e nascondere tutta la biancheria intima nella nicchia riservata al contatore dell’acqua sul balcone, ma quello era l’apice.
- Che stai facendo? – che domande sceme che le venivano fuori nei momenti come quelli. Era sempre stato così. La piccola Giorgia le sorrise in modo angelico e sollevò le sopracciglia.
- Sto dando da mangiare ai miei bambini, le maestre all’asilo lo fanno sempre! Vuoi essere anche tu una bambina e io faccio la maestra? – le chiese porgendole una padella piena di quella strana accozzaglia disgustosa. Ma che era successo?
- Dov’è mamma? –
La bambina posò la padella a terra e incrociò le braccia luride sul petto, sporcando ancora di più la canottiera che portava.
- A dormire. Ma sei così violenta, non mi rispondi nemmeno! – mugugnò, mettendo su un’espressione offesa. Usava sempre la parola “violenta” per dire che qualcosa era cattivo, brutto o sgarbato.
Vale sgranò ancor di più gli occhi, scandalizzata e si fiondò in corridoio a passo rapido e furioso. Ma che stava succedendo? Quando entrò in camera, vide sua madre che dormiva beatamente nel letto, coperta da un vestitino leggero che non aveva mai visto, e da un cuscino in faccia. Si sentì furiosa, ardente di rabbia come non si sentiva da tempo. Le andò vicino e la scosse violentemente.
- Svegliati! – urlò, sbatacchiandola. La madre grugnì qualcosa di incomprensibile, poi si decise a sollevarsi. La guardò con occhi socchiusi, le pieghe del cuscino stampate in faccia.
- Oh, Vale... – disse con tono dolce, un tono che lei riconobbe subito e che quasi la distrasse dalla voglia di prenderla a schiaffi. Ma Gloria scosse la testa improvvisamente e si mise seduta composta sul letto, riprendendo la sua aria severa.
- Che vuoi? – domandò infatti, quasi sprezzante. Lei ricambiò con uno sguardo carico d’odio.
- CHE VOGLIO?! VOGLIO CHE CONTROLLI TUA FIGLIA E CHE TE NE PRENDA CURA, ALMENO QUANDO NON CI SONO! NON HAI VISTO CHE HA TRASFORMATO LA CUCINA IN UN CAMPO DI GUERRA?! – sbraitò, piegandosi leggermente in avanti. La voce era tanto impregnata di rabbia da essere roca.
Gloria con suo stupore non si scompose più di tanto. Inarcò un sopracciglio e la guardò, altezzosa come non era mai stata.
- Ora però ci sei, no? Rimedia. Io ho sonno. – concluse, stendendosi di nuovo sul materasso.
Valentina sentì il cuore schiacciato dal peso di un lottatore di sumo e il fegato colpito dalle frecce di una balestra pesante. Quella donna non era sua madre. Quel corpo tonico e improvvisamente più magro, quel viso dall’aria sprezzante che guardava il mondo come se fosse un paio di gradini più in alto, non potevano appartenere alla donna che aveva conosciuto prima di partire.
- Tu non sei mia madre... – mormorò, scuotendo la testa rassegnata. Le parve di vederla scuotersi solo un secondo, come se la cosa l’avesse ferita o colpita, ma sicuramente era solo frutto della sua immaginazione. Si diresse in cucina e diede un altro sguardo alla confusione. Sua sorella continuava a scorrazzare inciampando ogni tanto nelle pentole e versando il contenuto sul pavimento. Sospirò rassegnata e decise di imboccarsi le maniche. Il tempo per riposarsi e per studiare avrebbe dovuto trovarlo dopo, in quel momento c’erano cose più importanti da fare.

- Tu non sei mia madre... – sentì sussurrare sua figlia e digrignò i denti nel cuscino, sussultando appena. Udì i suoi passi farsi più lontani, più attutiti. Cominciò a piangere, quasi senza rendersene conto. Stava facendo del male alle sue figlie, ciò che più amava al mondo. Ma non poteva... doveva allontanarle. Doveva farlo, altrimenti qualcosa di molto spiacevole sarebbe potuto accadere. E non poteva permetterlo, non poteva, anche a costo di rinunciare a loro.
Si sentiva straziata. Vedeva continuamente Daniel prendere il suo cuore e stracciarlo davanti a lei senza alcuna pietà, con il solito ghigno sadico di quando lei gli consegnava una grossa parte dei soldi guadagnati durante la notte, una volta finito il suo “turno”.
Valentina era forte. Valentina ce l’avrebbe fatta, avrebbe retto.

Sbatté la porta del suo camerino con così tanta violenza che rimbalzò e si spalancò di nuovo. Imprecando in lingue che non sapeva nemmeno di conoscere, la sbatté di nuovo e questa finalmente si chiuse.
- Vaffanculo – mormorò, lasciandosi cadere sul divano. Non sapeva nemmeno lui a chi o cosa fosse diretto, lo disse e basta. E sentì la voglia di dirlo ancora e ancora, finché non fosse rimasto senza voce. La sua “preziosissima” voce. La sua fottutissima voce del cazzo.
Quando Bill Kaulitz arrivava a non considerare importante la salute delle sue corde vocali, i motivi potevano solo essere due. Anzi tre: aveva scambiato la bomboletta dell’insetticida per la lacca per capelli, aveva visto un enorme scarafaggio, oppure un’esibizione era andata male. In quel caso era successo che l’esibizione in Los Angeles con Monsoon e Ready Set Go! era andata talmente male che persino le giustificazioni dello staff (“E’ rock’n roll!”) non erano riuscite a calmare il torrente di veemente autoaccusa scaturito dalle sue labbra. Aveva stonato più volte e non era riuscito ad arrivare a tonalità per cui solitamente non faceva grossi sforzi.
La cosa triste e avvilente era che aveva sgambettato per il palco più di un’oca sparata. Quella che lo faceva più incazzare invece era che aveva gracidato non solo perchè era stata la sua prima effettiva esibizione dopo l’operazione alle corde vocali, ma perchè le parole delle canzoni lo avevano rimandato all’ultimissima persona a cui avrebbe desiderato pensare. Specialmente durante Monsoon. Quel maledettissimo “And when I lose my self, I’ll think of you” lo aveva scritto lui stesso e solo in quel momento ne comprendeva il significato effettivo. E quel dannato “Together we’ll be running somewhere new”, dove aveva gracchiato di più: adesso gli appariva chiaro e spiegato nella sua apparente complessità. Tutto questo perchè? Solo perchè l’aveva pensata.
Tamburellando un piede a terra, piegò il ginocchio dell’altra gamba e ci appoggiò la testa dalla chioma puntuta. Chiuse gli occhi e si abbandonò ai pensieri.
Chissà che stava facendo in quel momento. Probabilmente era tornata da un pezzo a casa sua. Chissà come si sentiva, cosa stava pensando, chi stava guardando, da chi stava scappando. Forse se l’avesse chiamata avrebbe potuto riavvicinarla... parlarle, almeno.
Ma perchè lo aveva trattato in quel modo all’aeroporto? Più ci pensava, più non ne veniva a capo.
“Prova a chiederlo al tuo manager cosa significa” aveva detto. Ma che significava? Forse David era la chiave...
- Bill? – Tom entrò in camerino senza bussare, come al solito. Non si sforzò di sollevare la testa per guardarlo.
- Mhm... – mugugnò, con gli occhi chiusi.
Riuscì a capire che Tom si sedette su uno degli sgabelli avanti agli specchi a muro e riuscì a capire che quella volta sarebbe finita male, perchè lui era troppo nervoso e Tom sebbene fosse ben intenzionato, era troppo poco paziente per sopportarlo. Che prospettiva di merda.
- Che c’è, sei venuto a propinarmi una delle tue cazzate riguardo a questi camerini e riguardo a quanto sono comodi? – lo aggredì improvvisamente, senza rendersene conto. Tom rimase muto e marmoreo, ma sapeva che dentro di lui stava cominciando ad arrabbiarsi. – Perchè se per caso fosse così potresti anche andartene, non cambierebbe niente – continuò imperterrito. Che stronzo che era. La cosa bella era che se ne rendeva conto. Schifoso, squallido.
- Bill non voglio litigare, devo dirti una cosa import... –
- Se non vuoi litigare dimmi velocemente quello che devi e vattene via, voglio stare da solo – berciò lui senza alcuna sensibilità, senza alcun rispetto. E a quel punto Tom perse quel poco di pazienza che lo animava. Perchè se l’esibizione era andata male per lui, anche per la band valeva lo stesso e questo innervosiva tutti. Si alzò dallo sgabello con una veemenza che lo fece rovinare a terra e si diresse verso la porta. Prima di aprirla tutta si bloccò e si voltò verso di lui.
- Ero venuto a dirti che stasera hai fatto davvero pena, sembravi una gallina sgozzata. Vedi di darti una svegliata, prima che ti sgozzi io – lo apostrofò riottoso e uscì, sbattendo quella dannata porta nera che si chiuse al primo tentativo.
Bill sentì una morsa dolorosa attorcigliarsi alle sue budella. Quelle erano state le parole più dure che ricordava di aver sentito uscire dalla bocca di suo fratello rivolte a lui.
Gli faceva male tutto, la testa, le gambe, il cuore. Sanguinava, solcato da ferite profonde, quelle più dolorose.
Strinse i denti e riappoggiò la testa sul ginocchio piegato. Si sentì scosso contro la sua volontà da singhiozzi silenziosi e gli occhi si inumidirono.
- Vaffanculo... – mugugnò disperatamente tra le lacrime, premendo la fronte e i pugni sudati contro la gamba. Lo sapeva che quella sera sarebbe finita male. Lui lo sapeva.

Tom sbatté la porta e uscì dal camerino di Bill più lugubre di un cimitero di notte. Aveva un aria visibilmente incazzata, forse era andata male, rifletté Georg. Gli si avvicinò e lo fece voltare, appoggiandogli una mano sulla spalla.
- Come è andata? – gli chiese, appena imbarazzato. Tom corrucciò le labbra e scosse i rasta, lo sguardo basso. Aveva intuito bene: era andata male.
- Male, è intrattabile. – rispose l’amico avvilito – Stasera è meglio lasciarlo sbollire. Ho fatto male anche io ad andare da lui... – mormorò l’ultima frase rivolto più a se stesso che a lui, con aria molto pentita.
Le spalle di Georg si afflosciarono, il suo sguardo divenne scoraggiato. Che idiota che era stato. Un emerito idiota.
Quasi a voler contrastare il clima e le previsioni totalmente scoraggianti, la mano amica di Tom gli diede una pacca sulla spalla. Sollevò la testa e vide il sorriso rassicurante e appena mesto di Tom.
- Dai amico, a tutto c’è rimedio. Perfino alla tua idiozia galoppante – motteggiò, con la sua aria strafottente di sempre. Non poté fare a meno che regalargli anche lui uno dei suoi sorrisi storti e gli diede una piccola spinta.
Lo superò senza dire nulla, diretto verso il suo camerino: aveva bisogno di una doccia.

Sotto l’acqua calda ripensò a quando aveva preso da parte Tom circa un’ora prima dello spettacolo, mentre Bill era sotto le mani esperte di Natalie.

Flashback.
- Tom... dobbiamo parlare – mormorò, attento che nessuno lo sentisse. Tom che armeggiava con la chitarra seduto sul divanetto, non alzò lo sguardo su di lui.
- Ti ascolto – rispose dopo un po’ con aria assente, tenendo costantemente il ritmo della musica con la testa, gli occhi chiusi e lo sguardo perso tra le note.
- Da soli – specificò e Tom finalmente lo guardò, sollevando un sopracciglio a metà tra lo scettico e l’ironico. Non disse nulla, posò la chitarra sul divano di pelle e si lasciò trascinare da lui in una stanza più piccola.
- Senti, se ti sei innamorato di me, e credimi lo comprenderei, voglio solo avvisarti che mi dispiace, ma preferisco ancora l’altro sesso –
- Stai zitto Sparacazzate e ascoltami – berciò Georg zittendolo. Gli indicò un’enorme scatola contenente un amplificatore e gli fece cenno di sedersi. Quando l’amico fu seduto, si adagiò anche lui sul pavimento e gli raccontò. Gli raccontò che dopo che erano entrati in aeroporto, aveva visto David uscire di nuovo ed estrarre dal borsello il cellulare di Bill. Gli raccontò che, incuriosito dall’improvviso pallore del manager nel vedere chi chiamava, aveva ascoltato la conversazione e dal tono usato si capiva perfettamente con chi stesse parlando. Gli raccontò ogni parola che era riuscito a carpire in quei pochi momenti in cui non era stato sollecitato dai bodyguard a proseguire, in particolare quella frase che si era stampato a fuoco in testa, perchè poteva essere la chiave per risolvere tutto quel macello.
“Bill non ha tempo da dedicare alle avventure. Ci ha raccontato di te e se vuoi saperlo ha detto che eri solo un passatempo, come le altre”
Tom era saltato su appena glielo aveva detto, come se fosse stato punto da uno spillo sul sedere. Si alterò giusto un po’ per i due soliti motivi: primo perchè David non poteva controllare le loro vite. Poi perchè a parte quella Valentina, non c’erano state “altre” per Bill. E in quel momento Georg realizzò ciò che Bill provava. Quella ragazza con l’aria innocente che lui aveva scambiato per la maschera di una vipera in realtà era sincera, altrimenti Bill se ne sarebbe reso conto. Dopotutto non era da lui dare subito fiducia, in particolar modo alle ragazze.
Capì che cosa aveva combinato con solo poche parole e capì che avrebbe dovuto districare quella matassa di fili intricati.
- Lo sapevo che c’era qualcosa sotto... – meditò Tom cogitabondo, ritrovando tutta la sua calma iniziale – Quella ragazza cerebralista non mi è mai sembrata tanto cerebrolesa... – continuò, pensieroso. Georg roteò gli occhi.
- Senti, lascia perdere i paroloni adesso. Io ho combinato questo casino, ma tu mi devi aiutare a risolverlo – lo interruppe dai suoi pensieri. Tom aggrottò la fronte e lo indicò con un indice nerboruto.
- Tu? – chiese dubbioso.
- Si io. Sapevamo tutti che Bill la stava frequentando, ma a me quella tizia non ispirava molta fiducia. Così l’ho detto a David, nel pulmino.. – concluse abbassando gli occhi - Ti ricordi? – lo guardò di nuovo, come per cercare una risposta nei suoi occhi. Tom finalmente parve capire, data l’espressione illuminata.
- Quando sono salito io per chiamare Bill, lui mi ha detto che doveva fare una telefonata e sarebbe venuto. David sicuramente l’avrà raggiunto e gli avrà rubato il cellulare mentre chiamava. In aeroporto avrà detto qualcosa di molto sconveniente, data la reazione di quella Valentina... – dedusse con lo sguardo basso. Si aspettò delle accuse da parte dell’amico, delle parole amare e cattive, ma quando sollevò lo sguardo su Tom, vide solo uno sguardo ammirato.
- Però Georg, non sapevo che avessi un cervello provvisto di capacità logico-deduttive sotto i capelli... – mormorò serrando le labbra. Lui lo spinse leggermente, non senza essere più sollevato.
- Dai dobbiamo trovare una soluzione, anche perchè Bill sta evidentemente da schifo e non possiamo continuare così –
Tom lo guardò: - E quindi? – chiese aspettando. Georg lo guardò, gli sfarfallò le ciglia in faccia. Gli occhi dell’amico si sgranarono, la bocca si spalancò.
- No, no, no, non hai capito niente, quello con la sua nevrosi galoppante e mi squarta come un quarto di manzo! Andrà male, malissimo! -

Ed era andata esattamente così, pensò Georg uscendo dalla doccia. Si avvolse un asciugamano in vita e rifletté che forse era stato anche meglio. Lui e le sue parole stavano alla radice di tutto e a costo di non farsi rivolgere più la parola da Bill (sapeva quanto fosse permaloso), gli avrebbe parlato lui.

Capitolo 14.

La sveglia suonò di nuovo, trillando come ogni giorno governato dalla routine.
Che palle, pensò Valentina con elegante scocciatura. Si girò su un fianco per prendere la sveglia dal comodino. Si decise ad aprire gli occhi solo quando quel dannato aggeggio bianco le trillò in mano, scuotendola tutta. Premette quel bottone rosso e vide l’orario: le sei e mezza. Perfetto, per una che era andata a letto alle undici e mezza dopo aver messo a letto una specie di mastino che si spacciava per bambina (che dopo la performance con le pentole e il liquido verde bile aveva tentato quasi riuscendoci di mettersi in piedi su una sedia pericolosamente vicina alla ringhiera del balcone dicendo che voleva toccare le stelle... e loro abitavano al terzo piano). Non si può dire che si sentisse esattamente riposata. Scostò le coperte e si stiracchiò pigramente nel suo letto cercando di ritrovare la mobilità delle proprie membra, bocca compresa. Era maggio e cominciava davvero a fare caldo, ma Vale era freddolosa e non riusciva a non tenere almeno un lenzuolo addosso se non ad Agosto.
Si sollevò scuotendo i capelli che le si erano aggrovigliati intorno al collo.
Come d’abitudine, si recò nella stanza da letto della madre. Le faceva da sveglia ogni mattina per avvisarla che doveva andare a lavorare.
Quando entrò, Gloria dormiva. Nulla di anormale se non fosse che aveva gli occhi neri, con evidenti residui di matita e ombretto, e un rossore innaturale dipinto intorno alla bocca. Cosa significava?
Si chinò su di lei, e la scosse delicatamente.
- Mamma, svegliati... devi andare a lavorare – mormorò vicino al suo orecchio. Gloria si lamentò leggermente nel sonno e affondò il viso nel cuscino come al solito quando non voleva svegliarsi.
- Mamma... – la richiamò, paziente. Chissà, forse anche quella volta le avrebbe risposto male.
- Che c’è? – mugolò con voce impastata e assonnata. Lei sorrise, suo malgrado.
- Devi andare a lavorare... –
- Lavorare? – sua madre improvvisamente sembrò riscuotersi. Sollevò il viso dal cuscino, poggiandosi sui gomiti e la guardò, gli occhi castani socchiusi.
- Si mamma, lavorare – spiegò non badando alla stranezza del viso di sua madre. – E comunque, perchè hai il viso truccato? – domandò con sincera curiosità. Gli occhi di sua madre non s'indurirono come al solito, ma forse era solo colpa del sonno.
- Niente Vale, lascia stare – disse meno brusca del solito. – Comunque sappi che ho preso un permesso a tempo indeterminato, per cui non venire più a svegliarmi la mattina. Oh, e già che ci sei, sveglia Giorgia per favore, vestila e accompagnala all’asilo prima di andare a scuola. Io oggi non ce la faccio – detto questo, Gloria tuffò di nuovo il viso nella consistenza morbida del guanciale.
Vale rimase un attimo spiazzata: che significava che aveva preso un permesso a tempo indeterminato? Che si era licenziata?
- Sbrigati o farai tardi – la incitò la voce morbida di Gloria.
In silenzio, ritornò nella sua stanza. Nel letto disfatto accanto al proprio, avvolta nella coperta leggera di Winnie the Pooh, dormiva la piccola, angelica Giorgia.
“Ed ora chi la sveglia?” pensò, con pesante preoccupazione, battendosi un palmo sulla fronte.
Accese la televisione, sul canale su cui solitamente a quell’ora trasmettevano i cartoni animati, e alzò il volume. Un po’ di sano baccano l’avrebbe sicuramente se non svegliata, almeno messa in remoto contatto con la realtà.
Si diresse in bagno, intenzionata a farsi un bella doccia, ma prima guardò la sua immagine riflessa nello specchio: era cambiata. Non sapeva perché, ma si trovava diversa. I lineamenti, il modo di guardarsi, e guardare con gli occhi il mondo. Corrugò le labbra, aggrottò la fronte, in un impulso di rabbia: che mondo di merda. Non ci si poteva fidare di nessuno, nemmeno della propria famiglia. Specialmente della propria famiglia, pensò mentre cominciava a spogliarsi del pigiama.
Un quarto d’ora dopo, dopo aver fatto la doccia ed aver lavato i denti, Valentina si trovò a fare i conti con un osso duro: sua sorella, che intanto si era svegliata e guardava rilassata i cartoni animati.
- Giorgia, comincia a prepararti mentalmente perché appena finisco di vestirmi devi saltare giù dal letto senza fare storie – le annunciò mentre seduta sul letto e con l’asciugamano sulle spalle, si infilava la biancheria. Sapeva di poter parlare in quel modo davanti a sua sorella, Giorgia era fin troppo intelligente e furba.
- Ohi, hai capito? – chiese voltandosi verso di lei. La bimba spalancò i suoi occhioni e le sorrise ancora mezza intorpidita per il sonno.
- Si, ho capito – disse, incespicando tra le sillabe. Vale ritornò ai suoi vestiti con aria preoccupata. Lo sperava, sperava davvero.

- Oddio Giorgia no! –
Vale s’infilò velocemente l’ultima scarpa e si lanciò all’inseguimento della sorella, che aveva aperto la porta d’ingresso e scendeva le scale spedita verso il portone, con la scusa di “voler andare da sola all’asilo perché Vale andava sempre da sola a scuola”.
La ragazza la riacchiappò a metà della scalinata. Menomale che non aveva imparato ad usare l'ascensore... ancora.
- Ma che ti è saltato in mente, sei pazza?! – la rimproverò. La sua voce rimbombò nell’androne vuoto. La bimba si corrucciò in un’espressione offesa e si lasciò trascinare dalla sorella verso casa.
- Non è giusto, io voglio essere grande! – protestò la bimba. – E non stringere la mano, mi fai male! – continuò con la sua voce bianca, visto che sua sorella le stava quasi stritolando il polso.
- Non sei nelle condizioni di poter parlare – berciò Vale con tono autorevole. Giorgia non ribatté, ma fece sporgere il suo labbro inferiore come un balcone. A Vale dispiaceva doverla trattare così, ma qualcuno doveva insegnarle la disciplina, visto che sua madre aveva deciso di impazzire. E non sarebbe stato affatto facile, lo sapeva. Giorgia non si lasciava comandare facilmente.
Entrarono in casa e Vale si piegò sulle ginocchia di fronte alla figura di sua sorella e cominciò ad abbottonare i bottoni della camicetta che non le aveva dato il tempo di abbottonare.
- D'accordo, adesso, mentre io mi preparo lo zaino e do una sistemata ai capelli, tu ti infili il grembiule che sta sul divano dal verso giusto, e metti il panino che sta sul tavolo nello zainetto tuo, che sta accanto al grembiule. Senza combinare danni, senza gridare, senza lamentarti, senza scappare. Chiaro? - chiese sollevando lo sguardo su di lei.
- Chiaro – brontolò la bambina, perpetuando nel mantenere quell'espressione offesa assolutamente adorabile. Vale per poco non si lasciò sfuggire un sorriso e si voltò, camminando nel corridoio.
Abbassò la maniglia della porta e si voltò indietro, guardando la porta chiusa della stanza di sua madre.
- Noi andiamo! - urlò, una mano chiusa intorno alle dita della bambina.
“Dimmi qualcosa, fai qualcosa...” pregò ad occhi chiusi, sperando che magari sua madre uscisse da quella camera e le baciasse in fronte come faceva sempre. Ma non si udì nemmeno un suono provenire da oltre la porta. Che stupida, per un momento ci aveva creduto veramente. Sorrise amaramente attraversando la soglia, si chiuse la porta alle spalle. E insieme a quella di casa, un'altra serratura dentro di lei si serrò. Non si sarebbe più affezionata a nessuno, non avrebbe più dato fiducia a nessuno. A quel punto non le interessavano più nemmeno i motivi del comportamento di sua madre, qualunque essi fossero. Non sarebbero mai stati tanto gravi per poter giustificare il suo comportamento. Se le avesse voluto realmente bene, non l'avrebbe mai caricata di responsabilità così grandi.
Gloria non era più la stessa persona. E nemmeno lei.
Mentre usciva dall'ascensore, zaino in spalla e bambina (strepitante, perchè non voleva tornare all'asilo) con zainetto a seguito, un nome rimbalzò nella sua testa, prepotente, rumoroso. Non il nome del suo amico più vicino, quello che senza che lei ne fosse consapevole, si sarebbe fatto in quattro pur di vederla solo sorridere. No, sarebbe stato troppo facile. Il nome di una persona lontana, uscita dalla sua vita velocemente come ci era entrata. E la cosa che più le faceva male era che non l'avrebbe rivista più. Ciò di cui aveva bisogno, era proprio ciò che non poteva avere.

Facendo più o meno i salti mortali, riuscì ad arrivare a scuola con qualche minuto d'anticipo. Quando entrò in classe, diciassette teste si voltarono quando lei salutò con un “Buongiorno” appena sussurrato. Trentaquattro paia di occhi si sgranarono, la fissarono come se stessero assistendo alla rivelazione di Fatima.
- E tu che ci fai qui? - gracchiò una ragazza vicino alla cattedra di fronte a lei, che Vale riconobbe come la sua compagna di banco.
- Come che ci faccio qui? Sono venuta a scuola – rispose dirigendosi verso il penultimo banco della fila vicino alla porta. Poggiò lo zaino sulla superficie verde acceso e si sedette accanto. Gli altri continuavano a guardarla.
- Ma che avete da guardarmi in quel modo? - chiese, sinceramente curiosa. Ilenia, la sua compagna di banco, le si avvicinò.
- Niente, non ci aspettavamo di vederti. Eravamo convinti che ti fossi trasferita in Germania – s'intromise Biagio Bassi con la sua voce baritonale, pollici infilati nei passanti dei jeans e solita espressione indifferente, guardandola come se fosse una reietta. Il resto della classe annuì, come spinta da una sola mente.
- No, è stato solo per poche settimane – spiegò Vale stringendosi nelle spalle.
A salvarla dalla sua condizione di centro dell'attenzione generale, fu il professor Ruotari, che entrò in classe drizzandosi nei suoi centocinquanta centimetri appena superati. Gli studenti presero il loro posto e Vale trasse un sospiro di sollievo. Non c'erano stati accoglienti benvenuti, calorosi abbracci o semplici strette di mano, per il semplice motivo che in classe, era quella più estranea a tutti. Per i primi due anni il suo estraniamento e il suo ostinarsi a non voler dare molta confidenza a nessuno era stato quasi problematico per i suoi compagni, ma poi con il tempo, come ogni cosa, era stata accettata. Parlava con gli altri, scherzava come tutti, apparentemente sembrava amichevole. Ma appena in classe ci si concedevano momenti in cui i ragazzi e i professori parlavano di argomenti personali, lei automaticamente non interveniva, e sviava l'interlocutore con altre domande.
Il professore si accomodò dietro la cattedra e aprì il registro di classe. I suoi capelli bianchi riflettevano la luce che penetrava la finestra e le iridi grigie veleggiavano sulla classe.
- Buongiorno a tutti - salutò la classe, che rispose al saluto, alzandosi in piedi. - Guardate un po' chi ci onora della sua presenza oggi! La signorina Chiaretti! - esclamò con falso entusiasmo mentre sorrideva, mostrando i denti giallognoli. Quello era il professore di storia e filosofia, nemico naturale di tutti i ragazzi. Lo rifuggivano anche senza che lo conoscessero. Gli studenti lo capivano a pelle che dovevano stargli lontano, gli allarmi interni ululavano come ambulanze appena lui era nelle vicinanze. Antipatico fino all'ultima cellula e soprattutto pericoloso. Vale si sforzò di sorridere gentilmente, nonostante la voglia di pregarlo di onorare uno psichiatra della sua presenza le premesse sulla lingua. Rispondere a tono sarebbe stato controproducente e comunque non era da lei.
- Fatto buone vacanze tra le selve germaniche? - domandò, annotando un assente sul registro. Quando ebbe finito di scrivere, premette le estremità della sua stilografica tra gli indici e la guardò sorridendo in quel modo terrificante.
- Si professore, grazie – rispose Vale, abbassando lo sguardo.
- Mi auguro che abbia recuperato il programma di questo mese Chiaretti, altrimenti potrebbe risultare molto problematico. Siete in quinto e quest'anno avete la maturità; le assenze devono essere limitatissime e la condotta irreprensibile, almeno per chi aspira al massimo. Di certo, un'alunna che si prende quasi un mese di ferie non è avvantaggiata e di sicuro non sarà aiutata agli orali, ma confido che tu lo sappia – terminò, bagnandosi appena le labbra con la lingua, assaporando tutto il potere che aveva. Se voleva rassicurarla o motivarla, quello non era certo il modo migliore per farlo.
- Recupererò il programma strada facendo – rispose Valentina, sintetica. Le stava venendo l'ansia.
- Lo spero per te, Chiaretti. Veder cadere una mente come la tua sarebbe un peccato, oltre che tristemente patetico – le disse, con aria di superiorità. Cavoli se non le piaceva quel professore; quasi si era dimenticata di quanto potesse essere sgradevole.

Si rifugiò nel suo portone alle due e mezza passate, un po' sudata per il sole già troppo caldo, stanchissima, e spossata già dallo scenario che avrebbe trovato in casa. Si stampò un'espressione imperscrutabile sul viso ed entrò nell'ascensore, sbuffando. Non aveva voglia di rincasare. Uscì dalla cabina e aprì la porta con le chiavi.
Sorprendentemente, quando entrò in cucina, non trovò la desolazione che si aspettava: sua madre si era alzata dal letto, aveva apparecchiato ed ora di spalle ad armeggiare ai fornelli, sua sorella giocava tranquillamente sul divano sbatacchiando due Barbie mutilate e la televisione era accesa. C'era un clima caldo.

- Sono tornata... - la voce di Valentina le giunse alle orecchie suonando annoiata, appena vibrante. Gloria sussultò e fece traboccare malamente sui fornelli il contenuto del mestolo appena estratto dalla pentola. Si schiacciò le labbra e si dipinse in viso un'espressione rilassata e distaccata insieme. Sorrise appena a sua figlia, che guardava lo scenario ordinato della cucina con viso sorpreso, sospettoso. Le fece terribilmente male. Sicuramente non se lo aspettava.
Riflettendo, Gloria aveva capito che sua figlia aveva pur sempre diciassette anni e non poteva scaricarle addosso tanto dolore. Si sarebbe dovuta allontanare da lei gradualmente, in modo da procurarle meno sofferenza possibile.
- Ciao, come è andata a scuola? - si finse disinteressata, ma le interessava parecchio. Valentina fece scivolare lo zaino su un braccio e lo posò a terra, mantenendo la sua espressione scettica.
- Bene – rispose telegrafica. - Vuoi che continui io? -
Andò subito al sodo. Tipico di lei quando non voleva parlare o aveva paura. In quel caso non seppe cosa scegliere, ma entrambe le possibilità erano giustificabili.
- No, siediti – le disse, continuando ad armeggiare con il mestolo e i piatti impilati accanto alla pentola piena di pasta. Le avrebbe chiesto molto altro, come era andata la scuola, come si sentiva, chi aveva incontrato mentre era stata via. Se avesse potuto avrebbe anche scavato dentro la sua anima, ma doveva esserle vicina solo lo stretto necessario. Non poteva metterla in pericolo. Alle sue spalle sentì dei passi e una sedia strisciare sul pavimento, segno che Valentina aveva obbedito in silenzio. Anche quel silenzio le fece male.

- E quindi? -
- E quindi il professore mi ha ricordato che sono in quinto e che sono molto svantaggiata rispetto agli altri. Praticamente mi ha detto in modo implicito che non mi renderà la vita facile – terminò Valentina con un sospiro scoraggiato. Samuel imbronciò le labbra, scrutandola.
- E tua madre invece? - chiese, cambiando argomento. Lei sentì il cuore collassare su se stesso.
- Altra bella gatta da pelare... - piegò le gambe e le circondò con le braccia - Non la capisco più, sembra un'altra donna. Ieri tornata a casa mi aspettavo di trovare lo stesso scenario di cui ti ho parlato, invece ho trovato tutto in ordine, stava perfino cucinando. Mi ha salutata, anche se era molto distaccata. Non so più cosa devo aspettarmi ormai... non capisco più niente – terminò con un tono di voce molto simile ad un sussurro. Posò il mento sulle ginocchia e osservò le macchine scorrere sulla strada di fronte a lei. I lampioni erano già accesi, ma la luce del pomeriggio inoltrato illuminava ancora la città. Il calore del sole riscaldava il ferro della panchina su cui erano seduti.
- Mi dispiace, Vale – Samuel spezzò il silenzio, mortificato. Lei sorrise appena e alzò le spalle.
Che strano: un mese prima non avrebbe mai mostrato la sua tristezza a qualcuno così deliberatamente, invece ora si concedeva quel momento di debolezza come se fosse normale. Glielo aveva insegnato Bill... Bill. Proprio lui. La tristezza, la sensazione di debolezza fu repentinamente sostituita da una dolorosa rabbia. La parola “passatempo” dentro di lei era come una grossa palla meccanica.
- Posso abbracciarti? - chiese il suo amico premurosamente. Lei lo guardò.
- No – rispose senza pensarci nemmeno, poi ritornò a fissare le auto che scorrevano. Il suo tono non fu aggressivo, anzi. Quel no fu appena mormorato.
- Sai forse devi risolvere questo tuo problema – disse il ragazzo subito dopo, guardando in avanti. Lei aggrottò la fronte e si voltò verso di lui, dubbiosa.
- Che vuoi dire? - chiese, mettendosi già sulla difensiva. “Problema”... che parola orribile.
- Voglio dire che dovresti cercare di superare un po' di blocchi che hai – rispose schietto, come al solito. Era sempre diretto Samuel, a volte troppo. Lei si aggrottò.
- Quali blocchi? - chiese con voce acuta. Sapeva di cosa Samuel stava parlando, ma una parte di sé si rifiutava categoricamente di richiamare alla memoria i ricordi. Lui voltò la testa verso di lei e sfilò le mani dalle tasche dei jeans. Sembrava quasi... offeso.
- Non puoi continuare a non farti toccare per sempre. Mi conosci da parecchio, non ho mai cattive intenzioni credo che tu lo sappia. Dovresti affrontare un po' di fantasmi del passato – spiegò Samuel con una calma che la fece innervosire.
Fece una smorfia che doveva esprimere indignazione, ma ciò che venne fuori fu solo l'immagine di un animo ferito.
- E' una questione che non ti riguarda – rispose cercando in tutti i modi di mantenere la calma, le mani che cominciavano a tremare.
Rimandare, rimandare, solo rimandare.
- Io invece penso di si - la contraddisse il ragazzo, convinto - Voglio aiutarti, Vale perchè ti... - esitò un attimo, abbassando lo sguardo – ...perchè ti voglio molto bene e odio vederti soffrire così -
Valentina si passò una mano tra i capelli, serrando gli occhi.
Si alzò, spazientita, e raccolse dalla panca verde la sua tracolla.
- E' meglio che vada – disse sistemando la borsa sulla spalla. Samuel non capiva, lui ignorava ciò che lei sentiva. Non poteva sapere cosa le era successo.
Con sua sorpresa anche l'amico si alzò e si piazzò di fronte a lei, inchiodandola con i suoi severi occhi turchini.
- Sai solo scappare come una bambina. Lo fai con tutti: con me, con tua madre, con tuo padre, scappi perfino da te stessa. Vuoi deciderti a crescere? -
Quelle parole... quanto le facevano male. Le facevano maledettamente male, perchè sentiva che non erano vere. Non quella volta almeno. Lei era consapevole di ciò che provava: non era da Samuel che voleva essere abbracciata.
Rimase a fissare il ragazzo di fronte a lei sostenendo il suo sguardo senza cedere di un pollice. Non sarebbe scappata.
- Solo perchè hai scoperto cosa mi è successo non ti puoi permettere di giudicare me e le mie battaglie. Combatto ogni giorno più di quanto tu possa immaginare e il fatto che non voglia essere toccata da te, non... non vuol dire niente – gli sibilò in faccia, decisa come lo era stata poche volte nella sua vita - Ho solo sbagliato – terminò socchiudendo gli occhi. Poi infilò il cellulare che aveva in mano nella tasca anteriore della sua borsa e lo superò, lasciandolo di sasso ad assimilare una triste verità.

Georg uscì dalla sua stanza e si chiuse la porta alle spalle. Diede un'occhiata al piano: non c'era nessuno. Meglio così, avrebbe potuto concentrarsi su quello che doveva fare e avrebbe potuto scegliere la morte di cui morire. Attraversò il corridoio a braccia incrociate e testa bassa, respirando pesantemente contro i capelli piovuti davanti al viso.
Arrivato davanti alla stanza di Bill, respirò a fondo e bussò.
Dopo pochi secondi la figura sottile del vocalist spuntò sulla soglia, un'espressione rilassata dipinta sul viso. Solo in quel frangente Georg sembrò valutare attentamente le conseguenze di quello che sarebbe successo di lì a pochi minuti.
Bill si sarebbe arrabbiato sul serio: avrebbero litigato, non gli avrebbe parlato per un bel pezzo; si sarebbe conseguentemente spezzata l'armonia del gruppo e questo avrebbe avuto delle ripercussioni su concerti, interviste, sessioni di autografi...
Si rese conto si essere terrorizzato.
- Georg? - Bill lo stava guardando accigliato. La sua faccia tutto sommato serena, rendeva tutto più difficile.
- Posso entrare? -
Bill sembrò un momento colpito dalla sua serietà, ma subito si scostò per lasciarlo passare. Georg entrò e si posizionò in piedi al centro della stanza. Mentre si girò verso il suo compagno, sentì la porta chiudersi.
- Devo dirti una cosa – esordì. La voce bassa e quasi cavernosa, accostata al suo nervosismo aveva un suono grottesco, poco piacevole. Bill si appoggiò con la schiena alla parete, scrutandolo.
- Dalla tua faccia sembra che ti abbiano costretto ad usare il deodorante, Georg – scherzò con un sorriso ilare.
- Magari fosse questo... - mormorò affranto; - Si tratta di... - fece una pausa per prendere fiato – Valentina –
Appena soffiò fuori quel nome, il sorriso di Bill si spense. Le spalle s'irrigidirono, i pugni si serrarono e braccia e gambe s'incrociarono. Si mise sulla difensiva, incapace di nascondere la fitta di dolore che lo aveva colpito all'istante.
Vederlo in quello stato gli mise addosso una strana sensazione. Bill, sempre pieno di vita fino a sfiorare l'iperattivo, l'egocentrico a cui piaceva stare in piedi al centro della stanza quando tutti gli altri erano seduti, quello capace di scherzare anche su cose serie adesso se ne stava rigido come un tronco appoggiato alla parete, senza nessunissima voglia di scherzare.
- Che ne sai tu di Valentina? - sibilò, molto vicino al ringhiare. Il suo viso era pieno di risentimento.
- Sicuramente meno di te, ma sai... - si bloccò, scoprendo di non avere il coraggio. Che doveva dire? Optò per la verità, nuda e cruda. - Di lei niente, ma so cosa è successo all'aeroporto – si decise ad ammettere, trattenendo il fiato poco dopo.
Mentre guardava una sedia alla sua destra, si aspettava una qualche reazione del ragazzo, un urlo, un'esclamazione, invece Bill non si scompose. Rivolse di nuovo a lui il suo sguardo e lo trovò rigido, impenetrabile, ma ancora con il pieno controllo di se.
- Anche io so cosa è successo all'aeroporto. Se permetti, l'ho vissuta io – sentenziò, la voce bassa e roca: un tono molto poco consono alla voce stridula di Bill. Gli occhi erano assottigliati e lo guardava come se stesse per assalirlo da un momento all'altro.
- No, non capisci. Io so perchè ti ha... perchè si è comportata in quel modo. Non è impazzita, c'è una ragione – spiegò, gesticolando appena con le mani. Sperava in una qualche reazione di Bill, ma fu scoraggiante la sua immobilità.
- Cioè? - chiese e quella volta la voce fu appena più rotta, tradita da una qualche emozione. Georg sentì (inspiegabilmente) animarsi una debole speranza dentro di lui. Non pensava solo all'armonia del gruppo, ma anche alla sua felicità. Bill dopotutto, era suo amico.
- David le ha detto delle bugie su di te. Le ha detto che tu ci hai raccontato di lei definendola come un passatempo, una come tante altre. Le ha detto che non è alla tua altezza, o qualcosa del genere. L'ho sentito io stesso –
L'impenetrabilità di Bill cedette: impallidì e sgranò gli occhi. L'orrore puro s'impossessò del suo volto.
- E come ha fatto a parlarle? Non l'ha mai nemmeno vista... - all'istante bloccò le sue elucubrazioni e si immobilizzò. Fissò lo sguardo su Georg, che invece conosceva già la riposta.
- Il cellulare – mormorarono all'unisono, ma con voci diverse: Georg rassegnato e pacato, Bill sorpreso e pieno d'orrore. Per una volta gli riuscì difficile mettersi nei suoi panni. L'universo del suo amico era Bill-centrico, per cui era facile misurare le cose con il suo metro, ovvero i suoi desideri. Ma lo stesso Bill da tutti conosciuto, che si preoccupava dello stato d'animo, dei sentimenti di qualcuno che non fosse lui (o suo fratello) era davvero... impensabile. No, non impensabile: nuovo era la parola giusta.
- Ma non ha senso! - esclamò il moro sollevandosi finalmente dalla parete e lasciando la sua maschera impenetrabile cedere sotto il peso delle sue emozioni. Prese a camminare per la stanza con fare irrequieto.
Ecco la parte più difficile che arrivava...
- David non sapeva di... me... e lei. - la voce gli tremò appena sulle ultime parole della frase – Ammesso che ci abbia parlato non avrebbe avuto ragione di mostrarsi così ostile. Al massimo l'avrebbe liquidata velocemente come fa con le ragazze di Tom, invece ha infierito... di proposito -
“Diglielo. Diglielo senza troppi giri di parole, non fare il codardo”
- Bill – lo interruppe prima che la sua paura gli impedisse di tirarsi indietro – Gliel'ho detto io -
Il ragazzo s'impietrì. Fissò lo sguardo sul pavimento, gli si bloccarono le mani, irrigidite lungo i fianchi.
- C-cosa? - chiese con voce stridula, gli occhi ridotti a due fessure.
Georg sospirò scoraggiato: quella domanda era il preludio della sua furia. La paura delle conseguenze gli attanagliò i polmoni, anche se non aveva mai sperato in una reazione comprensiva. Dall'inizio aveva saputo che Bill era troppo legato. Troppo innamorato.
- Gliel'ho detto io – confessò di nuovo, guardando la ceramica del pavimento. Bill boccheggiò un paio di volte: sembrava paralizzato. Voltò la testa nella sua direzione solo qualche secondo dopo.
Seguì un silenzio pesante. La tensione si respirava. Si guardarono a lungo, nessuno dei due intenzionato a rompere quel delicatissimo equilibrio che si era creato. Sembravano due statue in bilico su un precipizio.
- Perchè? - fu tutto quello che soffiò Bill, dopo un po'. Tremava.
- Perchè mi sono lasciato prendere dai pregiudizi, dalla paura. Quella ragazza sembrava così... diversa che ho creduto che stesse recitando una parte per farti cadere... in una trappola, non so nemmeno io. Mi sembrava troppo diversa dalle ragazze che conosciamo noi solitamente. E poi a pelle mi è stata subito antipatica, con quei suoi sorrisi, il suo modo di guardarci come se fossimo marziani... –
- Quindi... l'hai fatto solo per... una stupida soddisfazione personale! – lo interruppe Bill scandalizzato, guardandolo come se lo volesse davvero incenerire.
- No, ho avuto solo paura per... - provò a spiegare.
- Io non ho bisogno di una balia, hai capito?! Decido io le persone da frequentare! - gridò stringendo i pugni, le nocche bianche. Georg si sentì attaccato e arrabbiato, tutta la calma e la preoccupazione precedenti svanirono in un soffio.
- Tu non hai bisogno di una balia? Quella tizia invece si, vero? Con quei suoi sguardi pieni di riconoscenza, quegli occhietti grandi... - ribatté, innervosendosi al solo pensiero. Quel pomeriggio in cui Valentina assistette alle loro prove lui non era stato affatto tranquillo, si sentiva a disagio con quello sguardo strano puntato su di loro. Infatti ricordava di non essere stato molto gentile.
- Lei non aveva bisogno di nessuna balia, io volevo starle vicino! - gridò, indicandosi con l'indice - Io mi ero affezionato, io l'ho voluta accanto a me, non il contrario! Per la prima volta ho incontrato una persona che non conosceva Bill Kaulitz dei Tokio Hotel, una persona vera. E Georg, io non accetto che uno dei miei due migliori amici me l'abbia strappata dalle mani. Non posso accettarlo -
Non seppe cosa ribattere: rimase impietrito dalle sue parole. Solo una triste verità emerse nella sua mente: si era comportato da vero pezzo di merda. Non aveva giustificazioni.
- Quindi Georg ti do una dritta: fai quello che cazzo ti pare con la tua vita, ma non entrare, ripeto, non entrare nella mia! - concluse voltandosi, dopo un ultimo sguardo furente. Poche volte Bill era stato così deciso nella sua vita. Non ricordava nemmeno l'ultima volta in cui si era alterato in quel modo.
- Vai via – lo sentì dire, ancora di spalle. Sentì una fitta da qualche parte in fondo allo stomaco.
- Bill... -
- No. Lasciami solo – gli disse con voce perentoria. Da dietro poteva vedere la schiena ancora rigida.
Si allontanò e uscì dalla stanza, badando a fare meno rumore possibile con le scarpe. Che cazzo di casino aveva combinato.

La porta si chiuse, rimase da solo. Si sentiva arrabbiato, ma i sentimenti più grandi in quel momento, i più dolorosi erano la frustrazione e la delusione. Infilò le cuffie nelle orecchie nel tentativo disperato di calmarsi e lasciar scemare la rabbia. Si gettò sul letto, mentre White Flag di Dido rimbombava a volume massimo.
Non se lo sarebbe mai aspettato. Non da Georg. Da David si, quell'uomo era come un mantra velenoso che faceva di tutto per guadagnare il più possibile, anche a costo di legarli con le catene ai palchi, anche sacrificando la loro vita privata. Ma Georg... Georg era suo amico. Non pensava che gli avrebbe fatto male volontariamente. Più ci pensava e più non riusciva ad accettarlo.
E Valentina... strinse gli occhi e si morse le labbra al solo pensiero. Chissà come doveva essersi sentita. Forse più o meno come si sentiva lui in quel momento, cioè di merda.
E' proprio vero che le cose non si capiscono se non si provano sulla pelle. E lui capiva finalmente lei e i suoi comportamenti, anche a distanza. Il sapore amaro del tradimento in bocca, la ricerca della solitudine, la chiusura in se stessi. Finalmente dava loro un senso.
Quanto gli mancava. Ogni volta in cui era da solo, mai si concedeva di pensare a lei e ai suoi sorrisi, cercava sempre di tutelarsi dal dolore. Invece quella volta gli fu impossibile. Ci pensò, ci pensò e ci pensò ancora, fino a ricordare ogni più piccolo particolare di lei, dai suoi pregi fino ai difetti che lo facevano tanto innervosire, ma che in qualche modo contribuivano al desiderio di vederla di nuovo.
La sua risata rara e per questo così piacevole da sentire; il suo sorriso sempre vagamente malinconico; i suoi occhi smarriti poco prima che lo baciasse, le sue labbra calde e timorose, la pelle del suo zigomo. Serrò le palpebre e la mascella, sentendo il cuore comprimersi. Le sue lacrime, le sue paure. Quel modo bizzarro che aveva di reagire alle situazioni imbarazzanti esplorando con gli occhi il pavimento, la ciocca di capelli che sfuggiva sempre al nodo in cui li avvolgeva. I suoi movimenti fulminei quando le si avvicinava, la prima cosa che aveva riconosciuto in lei quando l'aveva conosciuta meglio.
Vide tutto chiaramente. Tutti i ricordi erano limpidi e affilati, affondavano impietosi, incuranti. Cosa avrebbe dato pur di averla ancora vicino. Lei con tutte le sue turbe mentali aggiunte, senza eccezioni.
Sorrise, poggiandosi su un fianco sul materasso morbido.
Tom aveva ragione dall'inizio. Continuando a sorridere ad occhi chiusi, si scoprì tristemente... innamorato.
 
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Lullaby;
view post Posted on 21/3/2009, 17:25




Anche se tutto sembra nero, sia per Bill che per Valentina, presto le nuvole lasceranno il posto ai raggi del sole...
 
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Shynee
view post Posted on 22/3/2009, 01:28




Capitolo 15.

Due settimane dopo

Jasmine sbucò dalla cucina con un vassoio sulle mani, tre tazzine piene e una zuccheriera posate sopra. Era ancora bionda e bella come la testimonial della pubblicità di un fondotinta, ma la gravidanza cominciava ad arrotondare dolcemente il suo corpo, senza renderlo però, sgradevole.
- Ecco il caffè – disse gentilmente, chinandosi per posare il vassoio al centro del tavolo.
- Grazie – disse Valentina, la voce un po’ forzata. Era sempre restia a mostrarsi gentile, nemmeno la lontananza le era servita ad addolcirsi un po’ verso di lei. Anzi, se poteva evitava la sua presenza, un po’ per egoismo, un po’ per non assistere all’inizio della fine per lei e suo padre. Eppure sembravano entrambi felici: lei si muoveva spontaneamente e parlava con suo padre senza soppesare le parole e lui non mostrava il minimo segno della sua indole. Vivevano insieme da quasi un mese e mezzo, avrebbe già dovuto essere stata “colpita” dall’impulsività di suo padre…
- Sai Vale, mi chiedevo cosa volessi fare dopo il liceo – esordì la voce di suo padre seduto sul divano.
- Ehm, non lo so, io… non ci ho pensato – boccheggiò lei, presa in contropiede. Cominciava ad agitarsi, consapevole che quella frase era il preludio di un futuro programmato da suo padre. L’aveva costretta a frequentare lo il liceo Scientifico quando lei voleva iscriversi al Classico, e i risultati si vedevano: bassi voti in matematica, e storia e filosofia affrontati con un professore che si divertiva a fare il sadico invece che il suo mestiere.
- Andrai all’Università, sicuramente. Potresti prendere matematica, o ingegneria elettronica – fantasticò, sorseggiando il caffè dalla tazzina marrone.
“No, no, no!” avrebbe voluto urlare, in preda al panico e alla rabbia. La stava condannando ad un futuro costruito su fallimenti, per uno stupido capriccio. Rimase immobile, non permise al viso di tradire alcuna emozione.
- Ma lascia che sia lei a decidere no? Così non la fai respirare! –
Vale voltò la testa di scatto. Jasmine aveva parlato. L’aveva difesa! Proprio lei!
- Scusa? – la voce dell’uomo scese di qualche ottava, divenendo severamente cortese. Brutto, brutto segno…
- Sto dicendo che la vita è sua, non puoi decidere tu per lei – rispose Jasmine.
Il viso di suo padre s’indurì, le labbra s’incresparono impercettibilmente. Rivolse lo sguardo serio verso di lei.
- La pensi anche tu così? – le chiese. Vale annaspò, non avendo la minima idea di cosa rispondere.
- Si… - sillabò alla fine. Jasmine ridacchiò.
- Ma certo che la pensa così! Guarda che faccino spaventato che ha, poverina – disse indicandola con una mano. Il tono suonava ilare, ma meno scherzoso di prima.
- Sono suo padre, credo di sapere cosa è meglio per lei – ribatté perentorio. La ragazza non si lasciò intimorire, anzi, gli rivolse uno sguardo in cagnesco.
Restò a guardare impietrita l’elettricità che scorreva in quel momento tra i loro visi. Era sicura che se avesse intromesso un dito, si sarebbe bruciata.
Il trillo del citofono interruppe gli sguardi ed evitò possibili litigate.
- Ne riparleremo – disse Jasmine in tono minaccioso. Poi si alzò ed andò ad aprire. Vale invidiò il suo coraggio, lei non l’aveva mai avuto. Era sempre… scappata, si era sempre sottomessa. Forse non andava bene.
Pochi secondi dopo, nel salotto spuntò Samuel che teneva in mano una scatola di cartone chiusa con lo scotch da pacchi. Lo posò a terra accanto alla porta e solo quando si raddrizzò la vide. I suoi occhi non s’indurirono, ma non si illuminarono nemmeno come ogni volta in cui la vedeva.
- Grazie per avermeli portati, Samuel, senza di te sarebbero rimasti a casa di mamma a vita – stava dicendo intanto Jasmine. Il padre di Vale si alzò dal divano e aiutò la ragazza ad aprire la scatola per mettere a posto quello che conteneva. Vale non aveva idea di cosa fosse, né vi prestò attenzione. Guardava Samuel.
Non si erano più parlati né visti da quel giorno. Né una telefonata, né una visita. Niente. E la cosa più strana era che non ne aveva nemmeno sentito il bisogno. Le dispiaceva, si. Ma non era lui che le mancava.
Non riuscì a sopportare più quello sguardo pressante come un peso di piombo sul suo viso. Si alzò dalla sedia, raccolse la tracolla.
- Io devo andare – annunciò ad alta voce. Tutti si distrassero.
- Ma dai, sei rimasta qui meno di un’ora, cos’avrai da fare di tanto importante? –
“Non trattenetemi, vi prego…”
- Devo… devo andare a studiare, e poi mia madre è da sola a casa con mia sorella… dovrei essere lì, ecco – disse, accampando tutte le scuse plausibili che le venivano in mente. Jasmine si arrese.
- Ti accompagno io, casa tua è lontana – propose Samuel. La sua voce fu così ferma che Vale non ebbe il coraggio di ribattere.

- Non pensi di dovermi delle scuse? -.
- Rifletti su quello che mi hai detto e poi vediamo chi deve delle scuse a chi -.
- D’accordo, non sono stato gentile a dirti quelle cose, tu però… -.
Voltò la testa verso di lui; si guardarono. Il ragazzo sospirò.
- D’accordo, è stata colpa mia. Però ho bisogno di risposte da te, Vale – le disse, con tono gentile. Lei annuì, ma da qualche parte in fondo allo sterno sentiva una sensazione fastidiosa.
- Mi devi spiegare cosa volevi dire quando mi hai detto che… - fece una pausa: evidentemente era difficile per lui parlarne. Strano, non aveva mai avuto peli sulla lingua, Samuel. Eppure accostò la macchina e spense il quadro. – Quando mi hai detto che non volevi essere toccata da me e che non voleva dire niente, cosa volevi dire? – chiese, recitando più o meno le sue stesse parole. Lei ricordò. Ricordò tutto, ma non era ancora in grado di spiegare le sue parole ad alta voce.
“Ti sei innamorata di Bill”.
- NO! – strillò. Non era vero. Non poteva essere possibile. Ricordò che pensare ad alta voce non era scelta consigliabile solo quando vide Samuel guardarla in un modo diffidente. Sospirò e cominciò: - Io… - cosa doveva dire? Non lo sapeva nemmeno lei. – Mi sono lasciata guidare dall’istinto, non ho pensato a quello che dicevo - disse.
Samuel batté piano un palmo sul volante e rise, tetramente. Fu una risata che esprimeva dolore e delusione, la sua, una risata che la fece sentire vagamente in colpa.
- Questo spiega tutto – mormorò.
- Tutto cosa? –.
Il ragazzo sorrise.
- Allora è vero che ti sei innamorata, in Germania – rispose, ma fu costretta a tendere le orecchie per carpire la frase, che era poco più che un sussurro.
- Dove vuoi arrivare? – chiese. Si stupì che la sua reazione non fosse stata il negare apertamente. Forse non era del tutto bugiarda con se stessa, forse una parte di lei era sincera.
- Tu… tu non ti rendi conto dei danni che combini anche solo parlando – rispose il ragazzo, evasivo quanto lei. A quel punto non ce la fece più: era esausta per la tensione provata a casa di suo padre, ed erano solo le cinque del pomeriggio, a casa la aspettava una madre pazza e una montagna di capitoli da recuperare, per non parlare della sorella. Non aveva proprio voglia di mettersi a decriptare le risposte di Samuel. Aprì lo sportello e scese dalla macchina, ignorando che era ancora molto distante da casa. Il ragazzo la raggiunse poco dopo. Si sentì strattonare dalla spalla e fu costretta a voltarsi. Quando incontrò il suo sguardo, vide due occhi azzurri furiosi.
- Dove vai? –
- A casa. Samuel non ho voglia di decodificare i tuoi messaggi in codice, perchè se non l’hai notato, ho già abbastanza grane a cui pensare. Non completare il quadretto, per favore – lo pregò con voce ferma, ma supplichevole al tempo stesso. Si scrollò la mano del ragazzo dalla spalla con un gesto infastidito, e quando il contatto si interruppe, sentì la pelle macchiata. Se la strofinò come reazione involontaria.
- Quindi hai paura, anche di me? Vale, credevo che avessi capito, invece sei cieca – disse Samuel.
Lei sbuffò e batté un piede a terra, cercando di controllare la collera. La testa pulsava.
- Non sono affari tuoi! Lo capisci questo o hai bisogno di un diagramma di flusso? – urlò. Per strada, davanti a tutti. Se ne fregò che aveva attirato l’attenzione dei passanti, non si curò del capannello della gente che si era assiepata attorno a loro per guardare la scena.
- Non sono affari miei?! Una delle mie amiche più care ha paura di me e io dovrei restare impassibile? – ribatté il ragazzo gesticolando. Il dolore alla testa aumentò. – Non posso nemmeno toccarti e scatti come una molla, solo perché tuo cugino ti… - non terminò la frase. Uno schianto lo colpì sulla guancia e la pelle si arrossò dopo qualche secondo. Pelle contro pelle, forza e fragilità. Vale rimase con il braccio a mezz’aria, boccheggiante, con le lacrime che le attraversavano le guance. Aveva cominciato a piangere e non se n’era accorta.
Il ragazzo voltò piano il viso. La guardava sorpreso, ma desolato.
- TI ODIO! – strillò, i pugni stretti. Tutti i passanti trasalirono, per quanto quello strillo trasmetteva la rabbia che covava dentro. Lo spinse con due mani, gli occhi chiusi, e poi lo superò. Si fece largo tra la gente che cercava di dirle qualcosa o di fermarla e cominciò a correre, gli occhi strizzati, i pugni stretti.
Urtò qualcuno, ma non sentì nemmeno lo scontro e l’imprecazione infastidita. L’unica cosa se percepiva era un taglio netto dalla gola fino allo stomaco. Le doleva tutto, una macchia nera si gonfiava nel suo petto come un palloncino. Di più, sempre di più, non la faceva respirare. E faceva così male che avrebbe voluto squarciarsi il petto e strappare via il cuore.
Svoltò un angolo, si fermò per riprendere fiato. Scivolò contro il muro freddo, la stoffa della maglietta che si sollevava appena. Non vedeva nessuno, non sentiva i rombi dei motori delle macchine che scorrevano, i vocii dei passanti che la guardavano e storcevano il naso.
Come aveva potuto? Come aveva potuto Samuel urlare il suo segreto in mezzo a tutti? E perché sembrava che la sua vita fosse stata stravolta all’improvviso?
Lì, in tutta quella confusione interiore, si sentì estremamente sola. Era come se stesse annegando in se stessa.
Senza rendersene conto, pescò il cellulare dalla tracolla e pigiò qualche tasto. Poi lo portò all’orecchio, attendendo che si connettesse.
Dopo sei squilli (li aveva contati per non sentire le pulsazioni nella sua testa) una voce rispose: - Pronto? –.
Tirò su con il naso.
- Bill…? -.

Era arrabbiato. Si, doveva essere proprio incazzato nero. Ne aveva tutte le ragioni, d’altronde. A cosa serviva essere sempre gentili e cordiali, se poi si veniva comunque abbandonati e presi a pesci in faccia? Tanto valeva comportarsi da stronzi. I risultati erano gli stessi, ma con un po’ di dolore in meno. Chi è stronzo riceve insulti, scansa affronti, ma non ci bada, perchè non si cura dei sentimenti degli altri. Fa solo i propri interessi, e forse è giusto così.
Per Bill era diverso, però. Questo pensò Tom, nel frangente in cui, appoggiato con la schiena al muro, vide il fratello ridere come un cretino mentre abbracciava una ragazza americana e la conduceva verso il suo camerino personale. Doveva averla raccattata dalle prime file, chissà come. Era piuttosto carina, formosa, più bassa di lui. Poteva avere si e no diciotto anni. Traversava il corridoio che portava ai camerini con il capo basso e le labbra distese in un sorriso timido, la mano poggiata sul petto di Bill. Increspò le labbra. Non parlavano nemmeno la stessa lingua. Incrociò le braccia sul petto e piegò un ginocchio, posando il piede contro il muro.
- Sta messo male – constatò la voce di Georg, avvicinatosi silenziosamente. Si appoggiò con la spalla al muro, mentre la coppia spariva dietro un’anonima porta grigia.
- Si, non aveva mai fatto così – convenne Tom.
Bill aveva cominciato a fare quella storia da poco più di una settimana, dopo un’altra litigata con Georg, a cui aveva assistito personalmente.
“Senti:” gli aveva detto l’amico con calma, per smorzare i toni della conversazione. “Sei arrabbiato con me e lo capisco. Ti ho chiesto scusa. Ma mi sembra che anche la tua morosa non abbia esitato a credere alle parole di uno sconosciuto piuttosto che darti fiducia. Non è giusto scaricare la tua frustrazione su di me”.
Bill era rimasto un attimo atterrito; sicuramente un colpo basso del genere non se lo aspettava. Se ne andò senza dire una parola.
Da quel giorno sembrò cambiato di botto. Parlava, sorrideva, cantava perfettamente. Non mostrava ostilità verso nessuno, nemmeno verso David. Ma aveva cominciato a portarsi a letto ragazze di cui non conosceva nemmeno il nome, beffandosi del fatto che probabilmente non le avrebbe riviste più. Che loro non lo avrebbero rivisto più. Tom in un momento si vide riflesso in lui: era così che appariva agli altri? Così… penoso? Perché Bill visto con occhi esterni faceva solo pena. Quel comportamento puzzava di maschera, di falsità. E magari loro che ne conoscevano i motivi potevano pure capirlo, ma dall’esterno? Come appariva agli altri?
- Credi che dovrei sentirmi in colpa? – chiese Georg, strofinandosi l’asciugamano bianco dietro il collo sudato.
Tom alzò le spalle. – Credo di no. Non sarebbe utile –.
- Dannate femmine. Portano solo guai - disse Georg. Imprecava, ma Tom era sicuro che nel profondo non smetteva d’incolparsi. Tipico della sua indole, mascherare tutto dietro una finta calma o una pacata irritazione.
Dopo pochi secondi, Gustav li raggiunse, la sua faccia trasudava palese fastidio. Si strofinò i capelli bagnati di sudore con un asciugamano.
- Quel cretino non poteva scegliere posto migliore per dare sfogo ai suoi impulsi satiriaci. Ma che gli è preso? – sbottò irritato. Tom mise le mani in tasca e le sue dita sfiorarono i gusci rigidi di due cellulari. Il proprio e quello di Bill, che gliel’aveva dato perché i suoi pantaloni erano troppo stretti e si sarebbe intravista la forma.
- Niente. L’hai detto tu che è cretino – rispose Georg. – Ci ha fatto la predica per anni ed ora… - lasciò la frase in sospeso, teatralmente.
- Chissà se lo vedessero le sue fan ora, cosa penserebbero di lui –
Tom a quel punto si stufò. – Adesso smettetela – disse stizzito. I due smisero immediatamente di parlare. – Ci sono sempre due camerini. Se avete così esigenza di lavarvi, andate lì, invece di spettegolare come due comari – continuò, seguendo l’impulso di difendere suo fratello. Dopotutto se davanti alla prima cretinata non perdevano occasione di parlarsi alle spalle, come avrebbero reagito di fronte ad ostacoli più grandi?
I due annuirono piano e si allontanarono, camminando nel corridoio e superando la porta chiusa. Ignorarono i lamenti che si potevano udire da dietro.
Tom espirò e poggiò la testa al muro, chiudendo gli occhi. Begli amici.
Proprio mentre anche lui si stava avviando, mescolandosi al viavai di gente con attrezzature in spalla, la vibrazione del cellulare solleticò la sua coscia. La suoneria non si poteva nemmeno sentire, nell’attutita confusione dell’ambiente.
Quando riuscì ad estrarre quel dannato oggetto dal tendone da circo che erano i suoi pantaloni, vide che il cellulare (o meglio, palmare) che vibrava era quello di Bill.
Lesse il nome di chi chiamava e sbiancò.
Merda. Merda, merda, merda. Che doveva fare?
“Rispondi. E’ l’unica cosa che puoi fare”.
Annuì a se stesso e pigiò il pulsante verde, portandosi poi il telefono all’orecchio.
- Pronto? – disse, incerto. Sentì il suo aspirare con il naso, insieme a dei vocii e a rombi di motori.
- Bill…? – chiese con tono supplicante. Sembrava che stesse piangendo, nonostante il vento che soffiava nel microfono.
“Oh no, no ti prego…” pensò alzando gli occhi al cielo. Non doveva rispondere, maledetto lui.
- Ehm, veramente sono Tom. Bill è… impegnato – disse. La ragazza trasalì un momento. Si sentì il suono di un piccolo schianto, sembrava pelle.
- D’accordo, scusa se ho disturbato… - mormorò lei. La sua voce si ripulì delle ultime macchie di pianto, ma sembrava ancora arrochita. Quasi gli dispiacque.
- No, non ti preoccupare. Sicura di stare bene? – chiese. Il tono con cui aveva pronunciato il nome di suo fratello sembrava implorante, forse era un po’ stravolta. La sentì ridere appena.
- Ho passato momenti migliori, grazie. Mi fa piacere sapere che ti ricordi di me -.
Tom roteò gli occhi. – Credimi, nessuno ti ha dimenticata. Hai scombussolato un po’ gli animi di tutti – ammise, ma subito dopo si pentì. Si era lasciato scappare qualche parola di troppo.
- Davvero? Spero non sia una cosa tanto grave -.
“Ma scherzi? Hai solo scatenato il satirismo di Bill, che la notte passa più tempo a scopare che altro, Georg si tortura con i sensi di colpa, e, ciliegina sulla torta, il vocalist e il bassista dei Tokio Hotel hanno rischiato le penne durante una violenta colluttazione. Niente di grave”.
Gongolò da solo per qualche secondo. Chissà come avrebbe reagito se avesse risposto così.
- Oh, ma certo che no – rispose, ancora sorridendo. – Ehm… io devo andare, mi cercano. Devo dire a Bill che l’hai chiamato? – chiese, ansioso di terminare quella chiamata.
- No, per favore. Ho… sbagliato. Grazie Tom, state bene – disse, poi la chiamata s’interruppe. Distaccò il telefono dall’orecchio e fissò il display, sospirando: ritornò lo sfondo iniziale.
Chissà quanti soldi andavano via per le chiamate oltreoceano…
Si avviò verso i camerini, tappandosi le orecchie quando raggiunse le prossimità della porta dov’era sparito Bill e, appena posò la mano sulla maniglia della porta del secondo camerino, un’idea lo colpì in testa. Sgranò gli occhi, e sorrise, come se la lampadina sospesa sul suo cappello si fosse illuminata.
- Georg! Gustav! Ragazzi, venite qui! – urlò, spalancando la porta.
Lui era un genio. Ne era già convinto, ma se ne convinse ancora di più mentre aspettava che i ragazzi lo raggiungessero. Un Georg a piedi scalzi e senza maglietta, e un Gustav coperto solo da un asciugamano bianco, si precipitarono vicino alla porta.
- Cazzo hai da gridare tanto!? – disse uno dei due, ma Tom non se ne accorse, occupato com’era al gloriarsi da solo.
Si chiuse la porta alle spalle, lentamente. Dopodiché stirò le labbra in uno strano sorriso che fece accigliare Gustav e indietreggiare Georg.
- Ho un piano -.

La ragazza gemette più forte. Doveva chiamarsi Brittany, o Britney… gliel’aveva detto, ma non se lo ricordava. Inebriata dal piacere, chiedeva sempre di più. E lui la esaudiva, artigliando le sue cosce, graffiandola sulla schiena, dando colpi decisi e rabbiosi. Non curandosi che sfiorava il farle male.
Non gliene importava niente. Perché avrebbe dovuto, dopotutto? L’unica che amava davvero e a cui non aveva mai chiesto nulla non ci aveva pensato due volte prima di fargli male, perché avrebbe dovuto pensarci lui?
Spinse ancora, più forte, vincendo un urlo della ragazza sotto di se. Si sentiva potente vedendo il viso piccolo di lei distorto dal piacere. Poteva usarla per ottenere ciò che voleva, farle male, dominarla o farsi dominare. E poi avrebbe potuto dimenticarla, cambiarla, riusarla. Lui poteva tutto. La ragazza senza nome invertì le posizioni ancora una volta. Rotolarono sul pavimento freddo.
- Mi hai fatto male… - ansimò vicino al suo orecchio, con un tono che non aveva nulla dell’innocenza che ostentava all’inizio. Un sorriso malefico distese labbra di Bill: era quello il suo scopo.
Incastrò le dita nei suoi capelli, giudicando superflue le parole, e catturò le labbra in un bacio famelico, non lontano dalla violenza. Un bacio che non aveva nulla di dolce, nulla di tenero. Un bacio scevro di ogni sentimento. Di ogni tenerezza, del sapore delle labbra, della timidezza. Dell’amore.
Non esisteva nulla di tutto questo in quel momento.
Fece scivolare le mani sulle sue spalle, le fece scendere lungo la schiena dorata, concedendosi una carezza appena accennata su quella pelle tenera. Scese lungo i glutei e poi lungo le cosce tornite. La spinse verso il basso e con un ultimo, deciso colpo, si bearono insieme dell’ultima goccia del loro piacere.
La sconosciuta ricadde al suo fianco, coperta da una patina lucida di sudore, ansimando soddisfatta. Anche lui espirò aria. La ragazza si spostò su un fianco, voltandosi verso di lui. Si poggiò su un gomito, la luce del neon che si rifletteva sulla sua pelle lucida.
Sorrise, in un modo dolce. Con le dita, scostò una ciocca corvina di lui appiccicata alla fronte. Molto dolce. Seguì il profilo del suo naso, socchiuse un po’ le sue labbra turgide e accarezzò il petto glabro. Troppo dolce. Così dolce che si sentì infastidito. Quell’aspetto del sesso aveva cominciato a non piacergli. Ci si abbracciava, ci si scambiava tenerezze, ci si faceva domande stupide. Lui non cercava tutto questo. Scostò con malagrazia il braccio di lei e si sollevò. Ripescò i suoi boxer da un angolo e ci entrò dentro.
Meglio finirla presto, per non dare stupide illusioni.
- Vai via. Cerca Saki e fatti accompagnare fuori, non sarà un problema – le disse in inglese, mentre si sistemava l’elastico sulla vita. Si voltò con aria scocciata, non sentendo rumori, e vide la ragazza senza nome ancora seduta sul pavimento, svestita e con la fronte aggrottata.
- Cosa…? – domandò, la voce ritornata improvvisamente timida e appena incredula. Intrisa di una dolcezza che lo irritò.
- Hai capito. Vai, ho da fare – ripeté lapidario.
La ragazza ingoiò, distogliendo lo sguardo da lui. Senza dire una parole si alzò, ripescò i suoi vestiti sparsi qua e là per la stanza e si vestì. Bill avrebbe potuto giurare di aver sentito dei singhiozzi smorzati ogni tanto. Sbatté la porta prima di andarsene e lasciarlo nuovamente solo.
Si appoggiò alla parete della piccola camera con la testa. Chiuse gli occhi e sorrise soddisfatto. Non aveva mai provato quel genere di sensazione. Era un mare nero e viscoso, pieno di un liquido che lo tirava verso il basso. Ma era così piacevole annegarci e sentire i polmoni inebriati di quel petrolio profumato che non gli importava che potesse far male, a lui o agli altri. Per un momento, s’illuse di avere il coltello dalla parte del manico.

Capitolo 16.

Maggio fu un supplizio. Valentina faticava a tenere il passo delle lezioni, recuperare quelle che aveva perso e farsi interrogare, tutto contemporaneamente. L’unico aiuto su cui poteva contare era la benevolenza dei professori (tranne quello di storia e filosofia) che spezzettavano le interrogazioni in modo da distribuirle su più ore. Spesso la sera non riusciva a finire di studiare ed era talmente stanca che si buttava sul letto, crollando trenta secondi dopo. Di conseguenza i compiti da terminare la obbligavano ad alzarsi due ore prima la mattina.
Mangiava poco, parlava poco, non usciva praticamente mai, se non per andare a scuola. Pur di recuperare tutto il tempo perso dimenticava i suoi tumulti interiori e i disguidi con Gloria. Praticamente non stava vivendo più e da un lato ne era contenta: avere la mente occupata significava non pensare, non pensare significava non ricordare e non ricordare significava non soffrire.
Ovviamente c’era una falla, un inconveniente in quello studiato meccanismo che la uccideva. Tutto ciò che si sforzava di dimenticare, cancellare, rimuovere di giorno, riaffiorava proprio quando lei era più vulnerabile: di notte. Nei sogni, se sogni si possono chiamare. Nell’ultimo c’era lei camminava in una strada lunga, illuminata da una fila di lampioni. All’improvviso tutto diventò buio e qualcuno prese a toccarle con forza le gambe, i fianchi, il seno…
Rabbrividiva al solo ricordo. Con un sospiro e stizza malcelata si rese conto che dopo quasi sei mesi era sensibile ai ricordi come il primo giorno.
Il piacevole caldo di giugno arrivò, insieme all’alleggerirsi delle lezioni scolastiche. Ma neanche dopo un mese di lavoro frenetico e sfiancante, riusciva concedersi un po’ di relax in più.
C’era qualcosa di nuovo a turbarla, qualcosa di terrificante. Un pomeriggio aveva aperto un nuovo messaggio arrivato sul cellulare. Dopo averlo letto, era sbiancata.
“Ma come, torni in Italia e non me lo fai sapere? Credo che ci penserò io. Ci vediamo presto, il tuo cugino preferito”.
Impulsivamente, ebbe la voglia di prendere il primo aereo e rifugiarsi nel posto più lontano possibile. Si rese conto però, che tutto quello che poteva fare era rimanere al suo posto e stare il più lontana possibile da quel mostro abominevole.
Non poteva andare avanti così… doveva fare qualcosa. Ma cosa? Se l’avesse denunciato avrebbe spaccato la sua famiglia, coperto la sorella di suo padre di vergogna, e tradito anche lui, suo padre, che non l’avrebbe creduta di sicuro.
Se non l’avesse fatto invece, sicuramente sarebbe andata a finire come per molte altre ragazze… e a quel punto i problemi da affrontare sarebbero stati ancora più grandi.
Lei era ancora in tempo. Aveva l’occasione di evitarlo, ma si faceva condizionare dalla paura. Le dava la nausea. Il sistema in cui viveva la disgustava, un sistema in cui non si poteva nemmeno essere liberi.
Il secondo di giugno, verso le otto di sera, Vale finì di studiare, forse grazie ad un miracolo (o una disgrazia, secondo i punti di vista). Rimise a posto i libri, preparò la cartella e mise in ordine la scrivania, giusto per passare il tempo.
Poi si buttò sul suo letto, facendo scricchiolare leggermente la rete metallica. Guardò il cellulare. Era la prima sera libera che aveva dopo il periodo di fuoco. Scorse i numeri in rubrica ed arrivò alla lettera B. Fitta al petto. Il terzo nome con la lettera B registrato in rubrica era il suo. Chissà che stava facendo…
- Vale, devi uscire – Gloria proruppe in camera sua, parlando con tono severo. Vale le rivolse uno sguardo accigliato.
- Perché? –
La madre boccheggiò, guardandosi intorno. Per un attimo sembrò non sapesse cosa dire.
- Perché… perché è un mese che te ne stai qui, sempre chiusa in camera, sempre a studiare. Non esci più, non vedi tuo padre limitandoti a telefonate brevi, non vedi Samuel… -
- Non ti è interessato fino ad ora, perché questa uscita adesso, mamma? – la interruppe appena sentì il nome di Samuel. Non l’aveva più voluto vedere, né ci aveva voluto parlare, nonostante i numerosi tentativi di mettersi in contatto con lei. L’aveva ferita nel profondo, e quel che era peggio, in modo viscido, meschino, subdolo.
- M’interessa perché vedo che stai esagerando. L’ho chiamato io, tra un quarto d’ora sarà qui. Fatti trovare pronta – le disse, poi fece per uscire dalla stanza.
- NO! – urlò Vale, alzandosi dal letto come una furia. Gloria si voltò verso di lei scrutandola di sottecchi. – Non puoi farlo! – continuò. L’idea di rivedere Samuel la spaventava e l’impuntarsi improvviso di sua madre la faceva infuriare.
- Oh, si che posso. Ti sei confinata qui come un cesso, adesso i tempi duri sono passati. Esci, ti fa solo bene – disse Gloria. Le parole di sua madre non si spiegavano, forse per questo le rivolse uno sguardo carico di rabbia e tensione. Tutto le sembrava assurdo.
- Da quando ti interessa quello che faccio? Da quando sono tornata non te ne frega più niente di me, non mi chiedi cosa faccio e cosa provo, non sei nemmeno più tu. Adesso te ne esci con questa storia che passo troppo tempo in casa. Non conosci più niente di me e pretendi anche di sapere cosa mi fa bene. Sei solo ridicola! – l’ultima frase l’aveva detta urlando, gemme salate le si raccoglievano agli angoli degli occhi. Le aveva soffiato in faccia tutta la rabbia e la frustrazione che inconsciamente aveva accumulato in quel tempo.
Vale riprese fiato, lasciando che la tensione scemasse in un formicolio che le attraversava tutte le braccia, comprese le punte delle dita. Paradossalmente, Gloria assorbì tutta la rabbia senza infuriarsi, arrabbiarsi, gridare. Però tutti i muscoli del viso erano contratti, gli occhi e la bocca serrati, forse per evitare di parlare. O di piangere. Le fece tanto male che per poco non le gettò le braccia al collo.
Dopo circa mezzo minuto, Gloria prese un lungo respiro e deglutì.
- Hai ragione. Come hai detto tu, non m’interessa cosa fai, ma tra dieci minuti devi essere fuori di qui. Credimi quando ti dico che è meglio per te -
Questa volta Vale non ribatté. Lasciò che Gloria uscisse dalla sua camera, poi pescò una felpa qualunque e ci entrò dentro. Andò in bagno, si lavò i denti e raccolse i capelli in una coda disordinata. Il risultato lasciava un po’ a desiderare, era stata più carina in passato. Però perchè doveva essere carina? E soprattutto… per chi? Di certo non per se stessa. Scrollò le spalle al suo riflesso, afferrò il cellulare e lo mise in una borsa insieme a chiavi di casa e fazzoletti, e uscì.
Si chiuse il portone alle spalle, e si appoggiò contro la superficie, le mani incastrate tra la schiena e il vetro. Sospirò, preparandosi mentalmente all’incontro con l’amico. Doveva essere calma, paziente, razionale. Pronta.
Pochi secondi dopo, una Punto rossa parcheggiò proprio di fronte a lei. La luce accesa all’interno dell’abitacolo si rifletteva sui capelli biondi che sfioravano appena le spalle in un taglio scalato.
Si guardarono per una manciata di secondi, durante i quali Vale mantenne un’espressione severa ma perfettamente composta, che non lasciava trapelare nulla del suo subbuglio interiore. Provava un misto tra voglia di gridare addosso a Samuel prendendolo a schiaffi e scappare via come una bambina.
Il ragazzo fece abbassare il finestrino.
- Vuoi rimanere lì? – le disse con un sorriso ilare, - Dai, sali – la incitò con un gesto del capo. Era apparentemente sereno. Vale sperò con una punta di cattiveria che anche lui si sentisse come minimo imbarazzato.
Si scostò, fece il giro dell’auto e vi entrò, accomodandosi sul sedile. Appena seduta, incrociò le braccia e accavallò le gambe, tenendo lo sguardo serio fisso sulla strada.
Samuel partì senza dire una parola, ma uno snervante sorrisetto appena accennato gli distendeva le labbra. Quando Vale se ne accorse, la sua sadica, piccola speranza che si sentisse vagamente in colpa si demolì.
- Hai intenzione di chiuderti nel tuo mutismo per tutto il tempo? – chiese il ragazzo all’improvviso, continuando a guidare. Vale rispose con il silenzio. Non sapeva perché si ostinava a non parlare. Probabilmente per non vomitargli addosso la serie di improperi poco carini che si stava formando nella sua testa, o forse perchè aveva davvero esagerato e non poteva perdonarlo su due piedi. Continuò a guardare Chieti che scorreva lenta e illuminata dal finestrino.
Il ragazzo sospirò, continuando a guidare senza meta per qualche minuto. Poi, stanco del suo silenzio, riprese a parlare:
- Senti, lo so che ho sbagliato. Ti ho ferita, mi dispiace, mi meritavo quello che ho avuto. Però… -
- Però niente. Mi hai ferita e ti sei meritato quello che hai avuto. Punto – lo interruppe con tono serio. Non seppe come riuscì a controllare la sua voce senza incrinarla. – Non hai la minima idea di cosa mi hai fatto. Anche se non hai… non sei andato fino in fondo, si è capito tutto lo stesso e mi sono sentita così umiliata… così messa a nudo davanti a persone che non mi conoscevano. Probabilmente uno schiaffo è stato insufficiente, ma basta che ti abbia fermato – disse. La voce si ammorbidì verso le ultime frasi, sopraffatta dalle emozioni dei ricordi.
- Lo so, mi dispiace. Però sai… per me è dura. Non sempre riesco a controllarmi –
Lo guardò scettica e un po’ infastidita. – Cosa è dura? Non è indispensabile toccarmi –
- No, ma vederti abbattuta e sapere di non poter fare niente, nemmeno confortarti con un abbraccio si. Sapere che dopo tanto tempo hai ancora paura di essere toccata da me; apprendere che è stato un caso fortuito il venire a conoscenza di tutto, perché altrimenti tu non mi avresti mai nemmeno guardato, né detto spontaneamente. Tutto questo non hai idea di quanto sia frustrante – spiegò mesto. Non aveva mai visto quell’espressione di sincero sconforto agganciata al suo viso, di solito sempre solare. L’aveva visto sereno, felice, anche arrabbiato, ma mai triste in quel modo. Per un secondo si sentì quasi in colpa.
- E poi… - continuò, la voce ancora più bassa di prima, - Sapere che ti sei innamorata è stata una sconfitta – ammise.
Qualcosa molto simile ad un pugno colpì Valentina proprio nello stomaco.
- Cosa? – chiese incredula. Ancora una volta Samuel sospirò. Parcheggiò l’auto nel parcheggio intorno a Piazza Garibaldi e spense il motore.
- Scendi – le disse gentilmente. Lei ubbidì. Il ragazzo chiuse la macchina con il telecomando e prese a passeggiare insieme a lei. Posta al centro della piazza circoscritta da diverse panchine, c’era una fontana circolare, al cui centro c’era una struttura da cui guizzavano mille rivoli colorati dalle luci dei lampioni. Tutto intorno c’era un parco libero dalla vegetazione curata.
- Vedi, sono stato l’unico ragazzo che ti è stato vicino da quando ti ho conosciuta – disse, e nascose le mani nelle tasche, guardando il pavimento che scorreva sotto i piedi. – Sapere che in qualche modo ti fidavi di me e accettavi la mia compagnia mi riempiva di felicità e anche un po’ di orgoglio. Quando ti ho vista alla festa di Jasmine per la prima volta mentre discutevi con tuo cugino, mi sono sentito una nullità, perché non potevo fare niente. Poi ti ho vista piangere, ed è stato ancora più difficile. Da allora mi sono impegnato per diventarti amico, un po’ perché mi sentivo sinceramente dispiaciuto, un po’ perché volevo sentirmi utile. Non so cosa mi ha spinto a farlo, dato che avevo una vita felice. Un buon lavoro, una famiglia, tante ragazze che mi ronzavano intorno… - sorrise appena, ma Vale non seppe spiegarsi perché; – Avevo già sentito parlare di te da Jasmine, (puoi non crederci, ma ha un’ottima opinione su di te), perciò era come se già ti conoscessi. Mi affascinavi e ti volevo già bene. Poi conoscendoti meglio, quel “voler bene” è diventato qualcosa di più. Lo sentivo crescere giorno per giorno, alimentarsi di ogni ora che trascorrevamo insieme. Dovevo ancora capire cosa fosse diventato, finché non ho saputo che dovevi partire per la Germania. Per un po’ ne sono stato contento, perché quella “cosa” che mi occupava il cuore mi spaventava, inoltre sapevo che con ogni probabilità non avresti avvicinato nessuno altro ragazzo. Mi sentivo tranquillo. Però poi… anche se ti sentivo per telefono, mi rendevo conto che mi mancavi da morire. Mi mancavano soprattutto i tuoi sorrisi. – la guardò, sollevando gli occhi dal pavimento. - Non lo sai, ma quando sorridi sei bellissima – le disse e Vale arrossì appena, evadendo dal suo sguardo. – Anche quando arrossisci. – continuò, ridendo sommessamente. All’improvviso si fermò in mezzo ad una delle strade sterrate del parco. Vale si sentì tirare per il gomito e in un secondo si trovò fra le braccia dell’amico, in una stretta calda. Trattenne il respiro e lo guardò con gli occhi sgranati. Il cuore che già batteva velocemente, cominciò a pompare sangue freneticamente.
- Quando sei tornata ho capito cosa provavo per te ed ero pronto a dirtelo. Ma non ero pronto a sapere che un altro ti aveva rubato il cuore. E’ stato difficile. Ho mascherato tutto dietro la mia solita aria tranquilla, ma mi sono sentito sconfitto. Questa persona, chiunque sia, non ti è stata vicina quanto me. Non ha fatto tutto ciò che ho fatto io per te, eppure ha avuto molto più di quanto ho avuto io. Io lo so che lui poteva fare questo – la strinse ancora di più a se, facendo aderire i loro petti – e so anche che tu non facevi niente per impedirglielo. Non immagini quanta rabbia mi ha fatto -.
Vale cominciò a respirare in modo affannoso.
- Samuel… - cercò di richiamarlo in preda al panico, ma lui non la ascoltò.
- No, ti prego. Fallo per me, non scappare questa volta – la pregò con un sorriso dolce, intriso di malinconia. Con un dito le scostò un ciuffo che le copriva la fronte e lo trascinò dietro l’orecchio. Vale rimase immobile continuando a guardarlo con occhi spalancati. – Io non so cosa hai passato, non lo immagino nemmeno. E non sai quanto mi dispiace, perché vorrei riuscire a prendermi almeno una parte del tuo dolore per farti soffrire di meno – fece aderire le loro fronti e sfiorare i loro nasi. Le loro pelli calde entrarono in contatto.
- Sam… - disse cercando di dare una nota severa alla sua voce, ma ciò che le venne fuori fu poco più che un lamento strozzato. Continuò a non muoversi, a cercare di resistere tra le sue braccia ripetendosi che quello era un suo amico e le voleva bene, ma invece di sentirsi al sicuro si sentiva ingabbiata. Quel pensiero la terrorizzò: era la stessa sensazione provata poco prima di…
- Non lo so perché mi sono innamorato di te. Forse perché tra centinaia di ragazze tu eri l’unica che non potevo avere, ma non credo, perché non sono mai stato un playboy. Dovrò arrendermi al fatto che sei semplicemente speciale –.
Sorrise.
Vale ingoiò. Il viso di Samuel era pericolosamente vicino, così vicino da sfocare la vista. Gli occhi azzurrissimi, le sopracciglia bionde, il naso lineare.
Troppo vicino.
- Scusami – disse il ragazzo. Prima che Vale riuscisse ad afferrare il significo delle sue parole, la baciò. Premette le labbra calde sulle sue, infranse sul suo viso il respiro incandescente. Vale smise di respirare per non sentirlo. Si mosse sulla sua bocca con studiata lentezza, posando piccoli baci, assaggiando le labbra, il sapore, l’odore. Un brivido freddo la attraversò tutta, dal collo alla base della schiena, ma non sapeva se fosse per la mano di Samuel che la accarezzava o per semplice paura. Delle dita calde, delicate accarezzarono la sua guancia, poi scesero sfiorando il collo. E poi una percezione nuova: appena bagnata e morbida, e premeva appena sulle sue labbra.
Era aliena, sbagliata. Perversa. E fu troppo. Allontanò il viso con uno scatto, e ringhiando spinse via il ragazzo con forza. Non aveva idea di che espressione avesse, ma probabilmente era atterrita.
- Perché l’hai fatto? – ringhiò aggressiva. Implorò di aver immaginato tutto, ma le lacrime che si raccoglievano negli occhi le misero in faccia la realtà, impietose.
- Tu perché l’hai fatto? – le fece eco.
A cosa si riferiva? Al suo bacio con Bill? E che ne sapeva lui?
- Non ti riguarda – tentò, cercando allo stesso tempo di disciplinare il delirio nella sua mente. Fu tentata di schiaffeggiarlo di nuovo, ma meglio di no. Si voltò per andare via… ancora una volta.
- No, questa volta non scapperai via! – gridò il ragazzo piazzandosi davanti a lei. – Sono stanco delle tue fughe continue, voglio risolverla questa situazione! -.
- Non c’è niente da risolvere –. Tentò di superarlo, ma il ragazzo artigliò le sue spalle con le mani e la costrinse a rimanere ferma. – Non toccarmi! – strillò allibita. In quel momento lo odiava dal profondo. Lo odiava perché l’aveva baciata, perché l’aveva contaminata con le sue labbra fastidiose, perché la stava toccando, perché non le consentiva di fare quel che cazzo voleva. – Ma è possibile che devi fare sempre queste sceneggiate? –
- Io non farei le sceneggiate se tu non facessi la difficile! –
Vale si scrollò le mani del ragazzo di dosso con rabbia. – Non sto facendo la difficile, ti sto chiedendo solo rispetto, ma vedo che il significato di questa parola ti è sconosciuto –
Scoprì di odiare anche se stessa. Probabilmente se fosse stata normale le cose sarebbero andate diversamente.
- Rispetto?! Tu scappi in continuazione, io cerco solo di starti dietro! -
- Starmi dietro significa anche baciarmi contro la mia volontà? Fatti un giro sul dizionario, poi ne parliamo – soggiunse. Lo superò per andare via e Samuel non la fermò. Magari avrebbe potuto fermare il primo taxi e farsi portare a casa…
- Però lui poteva farlo, vero? Baciarti, intendo –
Vale si gelò sul posto Non si voltò.
- No, non poteva farlo – rispose abbassando lo sguardo. La sua voce suonò triste, sorprendendo perfino lei. – Però l’ho fatto io… - aggiunse, rispondendo ad una domanda silenziosa della sua mente. S’incamminò per uscire dal parco e raggiunse la piazza. Non sentì nessun passo dietro di lei, segno che Samuel non l’aveva seguita. Entrò nel primo taxi libero e diede l’indirizzo al tassista che poco dopo partì.
“Sei innamorata di Bill” insistette quella vocina fastidiosa nella sua mente. Le lacrime trattenute fino a quel momento finalmente sgorgarono. Prese a piangere silenziosamente. Altre lacrime scesero, mentre accadeva ciò che per tutto il tempo aveva cercato di evitare: il dolore della consapevolezza che cominciava a morderle il petto, dilaniando, straziando, spezzando. E sapeva che avrebbe continuato ancora per molto.
“Lo so”.

Tom si sedette di nuovo sul divanetto massaggiandosi stancamente le tempie. Bill continuò a camminare freneticamente per la stanza.
- Bill, mi stai facendo venire mal di testa -
Il gemello si voltò velocemente verso di lui con uno sguardo torvo.
- Non m’interessa. Questa storia è snervante, non abbiamo mai conferme precise! Insomma, organizziamo sempre tutto all’ultimo secondo e veniamo sbattuti da una parte all’altra del mondo come polpi! -
- Ma sembra che l’“ospitalità” con cui ti accolgono le fan non ti dispiaccia però… - disse Georg mentre sgranocchiava popcorn stravaccato sull’altro divano. Tom e Gustav gli lanciarono un’occhiataccia. David alzò gli occhi al cielo mentre sorseggiava acqua dal suo bicchiere.
- Molto divertente – rispose Bill sarcastico. - Il punto è un altro. Questo… - lanciò un’occhiata ai documenti sparsi sul tavolo – …Festivalbar a cui dovremmo partecipare ci sta facendo impazzire. Prima si fa, poi non si fa, se si facesse sarebbe tra poco e non voglio avere solo pochi giorni per provare -.
- Bill… - lo richiamò David con voce paziente. Il ragazzo interruppe il suo gesticolare frenetico e si voltò verso di lui, che intanto posava il bicchiere sul tavolo, accanto ai fogli. Gli andrò incontro e gli mise le mani sulle spalle con fare paterno. – Perché sei così in ansia all’idea di andare in Italia? C’è una ragione particolare? –
Bill ebbe un tuffo al cuore, ma la voglia di sputargli in un occhio glielo fece dimenticare. Fottuto bastardo.
Si tolse le mani dell’uomo di dosso e ingoiò, abbassando gli occhi. Doveva calmarsi.
- Ve l’ho detto. Non voglio ridurmi all’ultimo per provare. Solo questo – rispose. Si voltò e lasciò la stanza, diretto nella propria tana.
Nella stanza, a parte il rumoroso masticare di Georg non si udiva nessun rumore. Tom guardò David: non sembrava molto convinto dalla spiegazione che gli aveva dato.
- Non credo sia questo il vero motivo… - borbottò appoggiandosi al tavolo. Tom inarcò un sopracciglio.
- Certo che hai un intuito… - brontolò Georg sbuffando.
Il manager si accigliò appena. – Che volete dire? – chiese. Poi vide il sopracciglio di Tom praticamente scomparso sotto il cappellino e sembrò illuminarsi. – Oh! Dai, non ditemi che ci sta ancora pensando! – esclamò incredulo.
“Certo che no David, è solo incazzato perché hai praticamente fottuto la sua ragazza sotto gli occhi. Niente di che” non sarebbe stata una risposta appropriata. Gli serviva avere un buon rapporto con il manager, soprattutto per poter attuare il suo piano. Altrimenti era la volta buona che Bill iniziava a farsi di pere.
Gustav intervenne per lui: - Forse oggi gli gira male, capita a tutti – minimizzò alzando le spalle. David fece una smorfia annoiata, poi raccolse i documenti e ne fece coincidere perfettamente i bordi.
- Gli passerà, non parliamone più. Voi godetevi questi ultimi due giorni liberi, io intanto organizzo il ritorno in Germania. – disse, poi uscì dalla stanza d’hotel chiudendosi la porta alle spalle.
- Ma come fate a sopportarlo senza dire niente? – esalò Georg scuotendo appena la chioma ramata.
Gustav ridacchiò. - Dopo tanti anni di convivenza con te è facile – rispose, beccandosi poi un popcorn in faccia.
“Ora o mai più” si disse Tom.
- Ragazzi – li richiamò, serio, - Che ne dite di provare ad aiutare Bill, sul serio? – chiese.
Georg storse il naso in una smorfia contrariata.
- Ancora con quella storia del piano? Non avevamo deciso di aspettare? -
- Abbiamo aspettato un mese e non mi sembra di vederlo saltellare felice in giro. Vuoi aspettare che gli vengano i capelli bianchi? –
- O l’artrosi alle ginocchia? – s’intromise Gustav ghignando.
Georg alzò gli occhi al cielo. – Capirai, con tutte le tinte che si fa non li avrà mai i capelli bianchi – disse scocciato, appoggiandosi con la schiena allo schienale del divano.
- Appunto, quindi perché perdere tempo? – domandò Tom, come se fosse ovvio.
- Ma perché non lasciamo semplicemente che gli passi? Così non ci incasiniamo inutilmente –
Tom ebbe un attimo d’esitazione. Aveva toccato il tasto giusto. Poteva fare anche in quel modo e risparmiarsi casini, manovre complicate e possibili figure di merda con conseguenti prese per il culo a vita.
- Perché… perché Bill è un amico e se possiamo fare qualcosa di utile, la facciamo. Se proprio non avete voglia di regalargli un po’ di serenità, tranquilli, me la sbrigo da solo – disse, poi si alzò per uscire dalla stanza.
Georg scambiò un’occhiata con Gustav, che annuì impercettibilmente. Poi si alzarono entrambi dal divano. Georg trattenne Tom da un braccio e lo costrinse a voltarsi.
- Sei sicuro che Bill farebbe lo stesso per noi? – chiese, mescolando nella domanda un messaggio sottinteso. Tom parve coglierlo. Ci pensò un attimo, poi sorrise vivace.
- Certo – rispose, come se fosse ovvio. – Andiamo – disse poi, rivolgendo un’occhiata anche a Gustav.
Si diressero in trio verso l’ufficio dello studio di registrazione, interpretando una goffa imitazione di “Man in black”.
Arrivarono davanti alla porta bianca.
- Georg, vai tu. Sicuramente a te darà ascolto. Gustav tu vai da Bill. Io intanto… - deglutì mandando giù il suo groppo in gola – mi preparo mentalmente – esalò infine. Il solo pensiero di quello che doveva fare lo agitava.
I due annuirono e si divisero.
Tom intravide la figura di David davanti allo schermo del computer dalla porta aperta da Georg. Prima di andare via sentì Georg usare il tono che precedeva qualsiasi richiesta scomoda. Quel tono stridulo al punto giusto e per questo ancora più snervante.
- David, avrei un favorino da chiederti -
 
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Lullaby;
view post Posted on 22/3/2009, 15:34




A volte la mente di Tom sforna idee geniali U.U
 
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Shynee
view post Posted on 30/3/2009, 14:53




Capitolo 17.

Ultimamente Gloria pretendeva che dalle sei di pomeriggio alle nove di sera Valentina e Giorgia dovessero stare fuori casa, per “prendere aria”. Come motivazione a Vale sembrava piuttosto stupida, ma per evitare di litigare la assecondava, andando a studiare in biblioteca e accompagnando la sorella in ludoteca per giocare con gli altri bambini. Nei giorni pari della settimana invece, la lasciava dal loro padre, come da regolamento stabilito dal giudice.
Era giovedì 10 giugno, la scuola era finita da un giorno. Vale come al solito, alle nove di sera, si presentò a casa di suo padre, lo zaino pieno di libri in spalla. Era serena quella sera, forse per la fine delle lezioni scolastiche, o forse perché dopo esattamente quindici giorni avrebbe compiuto i tanto attesi diciotto anni.
Jasmine le aprì la porta. La gravidanza si faceva più evidente di settimana in settimana, nonostante cercasse di nasconderla indossando maglie molto più larghe di lei.
- Valentina! Vieni, entra pure – trillò con un bel sorriso. Vale entrò, facendo scivolare la spallina nera dello zaino sul braccio.
- Buonasera – salutò chiudendo la porta. – Dov’è la bambina più bella del mondo? – domandò ad alta voce. Abbandonò lo zaino a terra e si diresse in cucina, attraversando il piccolo ingresso, seguita da Jasmine.
Giorgia stava giocando con il Pongo, appollaiata su una delle sedie davanti al tavolo. Appena la vide, la bambina lasciò il suo pezzo di massa rossa e le sorrise, rivelando le due adorabili fossette sulle guance rosee.
- Eccola, la bimba più bella del mondo! - sorrise Vale.
- La bimba più bella del mondo, oggi ha rotto una bomboniera della cristalliera e ha rovesciato tutto il piatto della merenda – tuonò Jasmine superandola, diretta verso il lavandino.
Vale schioccò un’occhiataccia alla bambina. – E’ vero? –
- Si, ma non l’ho fatto apposta! – si difese con la sua voce infantile. Poi sventolò le ciglia lunghe, avvinghiandosi alle gambe della ragazza. – Sono ancora la bambina più bella del mondo? – le chiese sfoderando tutto il suo candore.
- La bambina più bella del mondo che ha anche la sorella più bella del mondo – precisò una voce maschile alle sue spalle. Vale si raggelò, riconoscendola. Il sorriso si spense.
Ma perché? Perché? Non era giusto… Proprio quel giorno, che era così serena…
- Ciao Valentina – salutò quella voce, con un compiacimento così palese che le venne voglia di dargli un calcio nello stomaco.
Si voltò lentamente, posando gli occhi su di lui: alto, muscoloso, ma molto anonimo con quei capelli neri e corti e i lineamenti squadrati, tesi in un sorriso perfido.
- Che ci fai qui? – domandò atterrita.
Il ragazzo sfarfallò le ciglia. - Sono venuto a salutare mio zio, che peraltro non c’è, ma non importa. Non mi saluti nemmeno? -
- Ciao, Marco – disse. Pronunciò il suo nome come se fosse un insulto.
- E’ da tanto che non ci vediamo, vero cuginetta? – domandò poggiandosi allo stipite della porta, le braccia raccolte sul petto. – Quasi quattro mesi – puntualizzò.
- Si, i quattro più belli della mia vita – replicò velenosa, voltandosi verso sua sorella ancora ancorata alle sue gambe. Doveva andarsene, doveva andarsene subito e non rimanere un secondo di più. – Gio, prendi lo zainetto e mettici le tue cose dentro, andiamo via. Mamma ci aspetta -.
- Ma no, andate già via? – si intromise Jasmine asciugandosi le mani con uno straccio. – E’ tardi e qui è lontano da casa tua. Rimanete per cena, poi vi accompagna Marco, se mai… -
- Si, ottima idea! – trillò il ragazzo, radioso.
- E poi Danilo tornerà a momenti. Dai, è da tanto che non ti fermi qui da noi – insistette la ragazza.
Giorgia sciolse la presa dalle sue gambe e batté le mani, saltellando. – Si, Vale! Rimaniamo, rimaniamo qua! –

Se non fosse stato per la sicurezza di avere accanto Jasmine, suo padre e sua sorella, non avrebbe mai accettato.
Si sedette a tavola a malincuore, in posizione rinsaccata, inquieta come se avessero dovuto macellarla. Marco si sedette proprio di fronte a lei, soddisfatto di suscitare in lei quelle reazioni. Ogni tanto, durante la cena, allungava i piedi sotto il tavolo e le sfiorava le gambe lasciate scoperte dai pantaloncini, a volte leggermente, a volte in modo audace, accompagnando il tutto con battute di cattivo gusto su di lei e sulla sua vita privata. Faceva domande inopportune e le lanciava occhiate discrete che però lasciavano poco all’interpretazione.
In quegli istanti, Vale sentiva di voler morire. Sarebbe voluta sprofondare, inghiottita dalla terra, cancellarsi e non lasciare nessuna traccia sé, nemmeno alla memoria.
Perché suo padre non notava niente? E perché Jasmine era così serena?
Proprio verso la fine della cena, Marco allungò un’ultima volta il piede verso di lei. Con un movimento rapido e discreto, Vale fece scattare la sua gamba, assestando un calcio al suo stinco. Marco soffocò l’istinto di urlare, trattenendo il respiro. Divenne paonazzo.
- Marco, tutto bene? – chiese il padre di Vale, poggiandogli una mano sulla spalla. Il ragazzo espirò, riprendendo un colorito normale.
- A meraviglia – gracidò lanciandole un’occhiata assassina.
- Bene. Ora accompagno le mie figlie a casa, è tardi – disse, alzandosi dalla tavola. Anche Vale si stava alzando, sollevata all’idea di non dover trascorrere un secondo di più in compagnia di suo cugino.
- Come, non le accompagno io? – intervenne Marco con voce querula.
Vale fece slittare il suo sguardo atterrito da suo cugino a suo padre, il cuore che pulsava ad velocità innaturale.
L’uomo imbronciò le labbra. – Beh, se vuoi accompagnarle tu… -
- No, lasciate stare – s’intromise Jasmine, pulendosi la bocca, - Le accompagno io, ho voglia di uscire per prendere aria –
- Ma Jasmine, tu… -
- Devo riposarmi, lo so. Ma non significa che devo confinarmi in casa. Gio, raccogli le tue cose –
Vale trasse un sospiro di sollievo, rilassando le spalle. Raccolse il suo zaino e se lo mise in spalla, mentre Jasmine andava a cambiarsi per uscire e suo padre aiutava la bambina a raccogliere i suoi giocattoli nell’altra stanza.
- Quel calcio me lo paghi – ringhiò il cugino a pochi centimetri dal suo viso, serrando le dita intorno al suo braccio. Vale irrigidì tutti i muscoli.
- Mi stai facendo male – replicò lei, cercando, senza riuscirci, di allentare la presa della sua mano.
- Te lo meriti, brutta puttanella -. Strinse di più la presa, attirandola verso di sé. Vale serrò gli occhi per il dolore.
- Lasciami, o mi metto a urlare – sibilò strattonandolo, la voce strozzata.
Il ragazzo ridacchiò. – Non l’hai fatto fino ad ora, non lo farai in futuro. Sai, non mi è mai interessato il fatto che siamo cugini… - la sua voce si fece più suadente, scendendo morbidamente di qualche tono. Guidò la mano sul suo viso, sfiorandole la guancia. Quando avvertì il suo tocco, Valentina sgranò gli occhi, smettendo di respirare. Le dita accarezzarono il collo, scendendo poi sulla canottiera, e accarezzando appena la sporgenza di un seno. – Però se non lo fossimo stati sarebbe stato più facile…-
- Jasmine! –
Nello stesso momento in cui urlò, suo cugino mollò la presa.
- Arrivo, ancora un secondo! – si sentì da un’altra stanza.
Vale si mise la mano sul braccio, massaggiando la pelle dove erano comparsi brutti segni viola. Marco intanto digrignava i denti, incredulo.
- Mi stai facendo arrabbiare, comportati bene – sibilò a denti stretti.
Avrebbe voluto sferrargli un altro calcio, un po’ più in alto però, per vederlo contorcersi dal dolore.
- Vai a farti fottere dai pazzi come te – replicò, guardandolo dritto negli occhi. – Papà! Ci vuole tanto? – urlò poi guardando verso la stanza della cucina.
Marco era paonazzo e il sangue ribolliva nelle vene.
In quel momento suo padre e Jasmine uscirono dalle rispettive stanze, Giorgia trotterellava con il suo zaino in mano.
Durante il tragitto in macchina, Vale stette nel più religioso silenzio, guardando le luci illuminate aldilà del finestrino.
Era spaventata, frustrata, arrabbiata. Ma anche abbastanza stupita. Non si sarebbe mai aspettata una reazione del genere da se stessa, anzi, non si sarebbe aspettata proprio una reazione. Si era difesa da suo cugino, lo aveva provocato e insultato.
Qualche mese prima avrebbe solo subito in silenzio. Chissà cosa l’aveva fatta cambiare.
Scacciò un ricordo che già le faceva male e decise di approfittare di quella nuova determinazione. Doveva affrontare quel problema. Se non interamente, almeno in parte.
Tornò a casa alle undici e mezza passate, sua madre dormiva già. Mise sua sorella a letto accanto a lei e poi si diresse nella sua stanza. Si sedette davanti alla sua scrivania, poi prese un quaderno ed estrasse una penna dal portapenne rosso.
Chiuse gli occhi, respirando profondamente.
Poteva farcela.
Scavò tra i ricordi, cercò di ricostruirli. Il suo obiettivo era riuscire a raccontare il primo “episodio” vissuto con il cugino, scrivere tutto seguendo un filo logico. Sapeva che sarebbe stato estremamente difficile, perché la sua mente si rifiutava di rivivere il passato, ma sapeva anche che doveva provarci.
Affrontare era l’unica soluzione per liberarsi di una parte di quel macigno che si portava addosso.
Posò la punta metallica sulla carta e cominciò a scrivere, concentrandosi.
Eppure i ricordi sfuggivano. Scivolavano via. Aveva poche immagini confuse, ma non riusciva a collegarle.
- Comincia dall’inizio. Non correre – si disse, e riprese a incasellare le parole nei quadretti.
Scriveva poche frasi, brevi e sconnesse, inframmezzate da tanti punti di sospensione. Un grande senso di inquietudine scivolò dentro di lei, turbandola, costringendola a cambiare posizione ogni due per tre.
Ma andava bene, stava comunque scrivendo.
Quando giunse al momento di dover narrare i movimenti che si facevano più veloci, i contatti più bruschi e la pelle più fredda si bloccò. Cominciò a piangere sommessamente, premendo la fronte contro un palmo, gli occhi chiusi.
Non si aspettava che facesse così male. Non si aspettava nulla di simile.
Era un dolore impregnato di paura, un dolore perverso che doveva essere nascosto a tutti i costi. Scriverlo e collocarlo al di fuori della sua mente le sembrava innaturale e terribilmente sbagliato. Forse doveva rinunciare, forse non era la cosa giusta. Si, decisamente meglio lasciar perdere.
“E’ vero che non so niente della tua vita, ma almeno io, da ragazzino “viziato”, quando ho un problema ne parlo e cerco di risolverlo per stare meglio, tu pensi di fare la donna matura tenendoti tutto dentro? Fai preoccupare la gente e stai ancora più male. Ne vale la pena?”
Quelle parole le ritornarono nelle orecchie. Le sentiva, chiare e impietose come lo era stato lui due mesi prima.
Si asciugò le guance e riprese a scrivere, cercando conforto anche nel suo ricordo. Le frasi continuarono a scorrere, sempre brevi, ma scorsero. Combatté costantemente contro la voglia di lasciar perdere tutto e andare a dormire, perché nonostante la sua parte razionale la incoraggiasse a scrivere, quella che non poteva controllare le suggeriva che era terribilmente sbagliato ciò che stava facendo, che era stupido, inutile, spossante.
Quando terminò, guardò quel cumulo di frasi e parole che copriva l’intera pagina. Rileggerlo le avrebbe inflitto il colpo di grazia, ma lo fece ugualmente.
Mancava qualcosa. Stappò di nuovo la penna e aggiunse delle frasi alla fine.

Grazie perché mi hai aiutata a capire. Grazie perché senza te non avrei trovato la forza.
Grazie anche per il tuo ricordo, che mi spacca in due, ma rende tutto più sopportabile, nonostante tutto.


Decise di andare a letto, pur sapendo che non avrebbe dormito quella notte.

***



Doveva trovare un modo per allontanare Bill.
Difficile impresa, dato che gli spazi del tourbus li vincolavano a vivere, se non come sardine, come qualcosa che vi si avvicinava molto.
Seduto sul divano, dette uno sguardo intorno: Saki era seduto accanto a lui e trafficava con il suo portatile. Georg e Gustav guardavano un film, o giocavano alla playstation. Bill stava mangiucchiando qualcosa, seduto al tavolino davanti a lui e guardava fuori, molto assorto.
Si masticò un attimo le guance, cercando un modo per farlo allontanare. Se avesse trovato un modo per mandarlo al piano di sopra, sicuramente avrebbe sentito le loro conversazioni. Se invece lui e gli altri si fossero spostati al piano di sopra, lui avrebbe sentito tutto lo stesso, per proprietà transitiva. Inoltre, se si fossero spostati in branco, li avrebbe seguiti.
E ritornò al dilemma iniziale: doveva allontanare Bill per parlare con i suoi compagni senza nessuno nei paraggi.
Come poteva fare?
Ok, ci era arrivato.
Si schiarì la voce e si sollevò per sedersi di fronte al proprio gemello. Poggiò il mento sull’intreccio delle dita e prese a fissarlo con insistenza.
- Bill – lo chiamò.
Il ragazzo voltò appena la testa per guardarlo, grugnendo.
- Hai una brutta cera – constatò, assolutamente convinto.
- Perché? – domandò stranito.
Eh. Bella domanda.
- Non lo so, sento che non stai bene – improvvisò, mantenendo la sua faccia scrutatrice. – Georg, Gustav! – urlò poi, richiamando l’attenzione dei ragazzi. Pregò che almeno quella sera i neuroni degli amici non fossero in letargo.
- Che vuoi? – domandò Georg, tutto preso a sfaldarsi i pollici sui tasti del joystick.
- Non trovate che stasera Bill non sia assolutamente in forma? –
I due si voltarono verso di loro. Tom si girò, e, approfittando del fatto che Bill era alle sue spalle, lanciò loro un’occhiata eloquentissima, che diceva chiaramente “fate come dico io, o vi meno con lo scudiscio uncinato”.
A rispondere fu Gustav, che si alzò abbandonando la sua partita e si sedette accanto a Tom, scrutando Bill con aria preoccupata.
- E’ vero amico, sei sicuro di stare bene? – domandò poggiando una mano sulla spalla del ragazzo.
- Ragazzi ma che dite, sto benissimo! – insistette Bill, alzando un po’ la voce.
- Ecco, vedi! Hai alzato la voce e questo significa che non stai bene – intervenne Tom, battendo un palmo sul tavolo.
Anche Georg emerse dalla sua paralisi cerebrale, piazzandosi accanto a Bill.
- Dovresti dare retta a tuo fratello, Bill. Ricordati che ciò che senti tu lo sente anche lui, e adesso potresti non saper identificare con precisione il turbine dei tuoi sentimenti, provato come sei. Magari Tom che non è stressato e stanco come te, riesce a identificare con chiarezza ciò che ti turba, che si ripercuote pure sulla tua forma fisica, che adesso non è delle migliori. Quindi… ha ragione lui – disse tutto d’un fiato. Boccheggiava.
A quel punto sul bus scese un silenzio tombale.
Tom, Gustav, Bill, perfino Saki si era voltato per guardare il bassista con occhi sgranati.
- Tu stai male – decise Bill guardandolo, il sopracciglio inarcatissimo.
- Lascialo perdere, ha battuto la testa quando è nato – intervenne Tom, picchiettando la mano sulla sua spalla. – Comunque sono d’accordo con lui. E’ meglio che ti fai una bella dormita -.
- Si, e poi abbiamo il concerto tra un paio di giorni, devi essere riposato al massimo – asserì Gustav.
Tom era convinto che Bill non ci stesse capendo niente. Era normale, nemmeno lui sapeva esattamente cosa stessero facendo, inoltre la natura elementare di Bill, gli impediva di intuire qualsiasi complotto o macchinazione.
Saki chiuse il suo portatile e sospirò pazientemente.
- Bill, hanno ragione. Ci aspetta un viaggio lungo e ci saranno interviste nel mezzo, approfittane per riposare – disse con la sua voce profonda.
Tom ringraziò la sua piccola buona stella che aveva deciso di graziarlo.
Bill guardò tutti quanti, poi si lasciò scappare uno sbadiglio.
- In effetti sono un po’ stanco. Quasi quasi vado davvero a dormire - disse.
- Ecco –
- Si –
- Giusto, vai –
Parlarono tutti e tre contemporaneamente.
Tom vide gli occhi di suo fratello assottigliarsi paurosamente, forse per cercare di capire qualcosa, ma poi si alzò, superò Georg che aveva ancora quel sorriso da stregatto stampato in faccia e scomparve oltre le scale.
Bene, e Bill era andato. Ora rimaneva da trovare un posto dove non potesse ascoltarli nessuno.
Come in risposta ai suoi pensieri, Gustav parlò.
- Saki, possiamo fermarci? Vorrei prendere un po’ d’aria, sai che soffro di mal d’auto – disse, e simulò la faccia di uno che sta per sparpagliare a terra tutto ciò che ha in corpo.
Saki era indeciso, meglio intervenire.
- Andiamo Saki, non vorrai rovinare la moquette, no? -
L’uomo li scrutò tutti e trie, poi si lasciò scappare un sospiro. – C’è una stazione di servizio più avanti, ci fermeremo per dieci minuti – rispose. Poi alzò posando il portatile sul divano. – Vado ad avvertire l’autista –
Perfetto. Stava facendo la cosa giusta.

Si trovarono tutti e tre nel bagno della stazione di servizio, grazie a Dio vuoto a quell’ora della notte. C’erano solo pochissime macchine parcheggiate e qualche anziano.
Sembrava stessero conducendo un’operazione mafiosa. Dio, com’erano caduti in basso…
- Georg, ce li hai? – chiese Tom ignorando il senso di pena per se stesso.
Il ragazzo infilò una mano nella tasca posteriore dei jeans e ne estrasse un rettangolo di carta e un cartoncino più piccolo, plastificato.
- David ha fatto un po’ il difficile, ma alla fine ha accettato il fatto che doveva farsi gli affari suoi – disse soddisfatto di sé.
Tom annuì, poi guardò Gustav: – E tu? –
Anche lui estrasse dalla tasca dei jeans un bigliettino e glielo porse. Tom lo afferrò, leggendo quei dieci numeri.
Era il numero di Valentina, Gustav l’aveva preso spulciando la rubrica del cellulare di Bill.
- Bene – esalò. Si sentiva molto nervoso, eppure era una semplice ragazza, non poteva mica mangiarlo!
Fece sfrecciare le dita sulla tastiera del suo telefono componendo il suo numero.
Primo squillo. Secondo. Terzo.
- Pronto? – rispose la ragazza, ovviamente in italiano. Aveva la voce assonnata, ma non sembrava si fosse appena svegliata.
- Ehm, ciao Valentina, sono Tom… - disse masticandosi il piercing che trapassava il labbro. Guardò Georg e Gustav, entrambi seduti sul ripiano marmoreo dei lavandini e fu felice di non essere solo.
- Tom… ciao – lo salutò incerta, in tedesco.
- Ehm, si, scusa se ti chiamo a quest’ora di notte, ma è l’unico momento in cui i bodyguard e le fans non ci ronzano intorno come avvoltoi –
- Tranquillo, non stavo dormendo. A cosa devo il piacere? –
Perché la sua voce era così seria?
- Avrei una proposta da farti -
 
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Lullaby;
view post Posted on 30/3/2009, 19:51




Tom, mi piaci quando fai così *.*
 
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_Th_devilish_
view post Posted on 31/3/2009, 22:11




letta tutta!!
mamma mia se è bella..davvero..mi piace tantissimo..
non vedo l'ora di leggere il prossimo capitolo^^
posta prestissimo
kuss!
 
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Shynee
view post Posted on 1/4/2009, 22:44




Capitolo 18.

Una deficiente. Era stata una completa deficiente. Non c’erano giustificazioni per ciò che aveva fatto, pensato, per come l’aveva trattato.
“Bill non ha fatto niente di ciò che ti ha detto David. Era tutta una montatura per allontanarti” le aveva spiegato Tom. E poi aveva continuato a parlare per un quarto d’ora buono, raccontandole la verità, compresi tutti i dettagli. A fine racconto, era rimasta allibita. E muta. E delusa, da se stessa però.
E poi, ciliegina sulla torta: quella proposta.
“Se proprio vuoi vederlo, anche solo per prenderlo a calci nel culo o per fartici prendere, un modo c’è, e anche piuttosto semplice” aveva detto.
Ma certo. Come se sarebbe stato semplice presentarglisi davanti, e dirgli “ciao Bill, ne è passato di tempo! Volevo chiarire con te quella faccenda dell’aeroporto…”.
Impossibile. Con quale faccia tosta l’avrebbe fatto?
“Il 6 luglio saremo in Italia per un concerto. Io posso procurarti il pass per il backstage, e il biglietto, al limite, e fare in modo di recapitarteli. La decisione però è tua”.
Nonostante il cuore in gola, aveva cercato di mantenere un tono impassibile: “E’ arrabbiato?”.
Ecco l’unica intelligentissima cosa che era riuscita a dire. Perlomeno era sincera…
“Sì, direi che è arrabbiato. Ma ha trovato un modo tutto suo per scaricare la rabbia. Io al posto tuo verrei comunque, anche per alleggerirmi la coscienza” aveva risposto, tagliente. Ed era stato come ricevere un pugno in pieno stomaco, perché in base a ciò che Tom le aveva raccontato, a quanto pareva era riuscita a creare una faglia nel gruppo e a rompere l’armonia che c’era con il manager. Perfetto.
“Tom, non posso decidere così su due piedi. Devo pensarci”.
“Fai come ti pare. Io te l’ho proposto unicamente nell’interesse di mio fratello”.

- Chiaretti! -
Eccola. La voce che la fece riemergere dai suoi confusionari pensieri e che la chiamava a precipitare in un vortice ancora più pericoloso. Il cuore cominciò a battere più convulsamente, mentre si alzava dalla sedia parcheggiata nel corridoio del suo liceo. La sua amica accanto le diede una pacca d’incoraggiamento sulla spalla, ma lei non la avvertì, presa a controllare la scossa elettrica che le percorse tutta la spina dorsale.
Si alzò, fece un bel respiro.
“Un passo dopo l’altro, un passo dopo l’altro…” pensò. Finché non raggiunse quell’orribile soglia.
Entrò nell’aula, chiudendo la porta. Era un ambiente piuttosto piccolo e squadrato, che non comunicava nemmeno una sensazione rassicurante. Le pareti bianche erano coperte da ogni genere di scritta e impronta, e in alcuni punti l’intonaco era stato grattato via.
Alla sua sinistra c’era una fila di banchi bianchi, dietro cui sedeva l’intera commissione. Compresi i tre professori esterni. Compreso quel burbero del professore di matematica. Compreso quel nonnetto malefico del professor Ruotari.
- Chiaretti, siediti, non abbiamo tutto il tempo del mondo – le disse infatti, confermando la sua natura psicopatica. L’antipatia verso quell’uomo raggiunse livelli apicali.
Si sedette di fronte alla cattedra, precisamente di fronte al presidente di commissione. Era un uomo abbastanza alto, non molto anziano. Aveva capelli corti e neri, i lineamenti marcati ma armonici e due occhi azzurri che si potevano intravedere dalle lenti degli occhiali. Non aveva la minima idea di come si chiamasse.
- Cominciamo – disse l’uomo.
Bene. Voleva ufficialmente morire.

- Credo che possa andare, se il collega Ruotari ha terminato – annunciò la professoressa d’inglese circa quaranta minuti dopo, dopo che tutti i professori l’avevano spremuta come un limone, compreso Ruotari, che ci aveva preso gusto a metterla in difficoltà.
- Io avrei un’ultima domanda, poi la lasciamo andare – intervenne il presidente di commissione.
Vale annuì debolmente.
- Per Schopenhauer la vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. Tutto soffre, l'amore è un'illusione. Cosa ne dici? – le chiese.
Rifletté per qualche momento, accorpando tutte le conoscenze che aveva su quell’autore.
- Sull'equazione “amore uguale illusione” sono abbastanza d'accordo: sappiamo tutti che l'amore puro non esiste, in quanto, in fondo in fondo, l'amore è espressione del nostro egoismo, del nostro tornaconto personale. In ultima analisi, è uno strumento della nostra passione – rispose, assolutamente convinta.
L’uomo di fronte a lei parve stupito. E, cosa peggiore, non intenzionato a lasciarla andare, perché giunse le mani sul tavolo e si sporse verso di lei con aria interessata.
- Passiamo al confronto con Hegel. La vita, per Schopenhauer, non è che l'espressione della Volontà di vivere, di una volontà, cioè, irrazionale che è desiderio sempre inappagato: i nostri desideri, il nostro stesso amore non sono altro che l'espressione di questa Volontà irrazionale di vivere, di perpetuare la vita. Un pessimismo radicale. Una concezione che nasce proprio in contrapposizione all'ottimismo hegeliano. Su questo, cosa sai dirmi? -
Si trattenne dallo sbuffare e dal volgere gli occhi al cielo per puro decoro. Con la coda dell’occhio poté scorgere Ruotari sghignazzare dietro una mano.
Ma che avevano contro di lei?
- Questa concezione pessimistica e quantomeno più credibile di quella hegeliana. Infatti, non si può sostenere che tutto è razionale quando il male prevale sul bene, la sofferenza prevale sulla felicità, e quando nel mondo animale prevale la legge della giungla. Una legge che, purtroppo, accomuna gli stessi uomini – rispose lei di nuovo.
- Un punto di vista legittimo. Un punto di vista che sfocia necessariamente nel pessimismo alla Schopenhauer? – chiese ancora l’uomo.
- Per Schopenhauer è una menzogna sostenere, come Leibniz per esempio, che questo è il migliore dei mondi possibili, come è una menzogna sostenere che la storia è guidata da una provvidenza, cristiana o hegeliana che sia. Lui invita a guardare in faccia alla realtà. Quali sono le cosiddette "meraviglie del creato”? Di sicuro non le bestie. Ogni animale carnivoro è il sepolcro stesso di altri animali. E sicuramente non gli uomini. Molto spesso la specie umana segue impulsi animali e irrazionali, che prevalgono sulla ragione –
- E la storia? – la interruppe Ruotari. - Dopotutto la storia è espressione dell’animo umano, dei terribili desideri di alcuni uomini. Desideri che possiedono una bellezza agghiacciante. Possiamo considerarli una meraviglia? –
Che domanda stupida.
- La storia non è che un teatro dove non succede nulla di nuovo. Si ripete fatalmente il dramma della sofferenza e della morte. Non c’è nulla di bello nel dolore della gente che patisce per i desideri di qualche vigliacco -
Il professore ammutolì. Annotò nervosamente qualcosa sul foglietto davanti a lui. Il presidente di commissione sorrise appena.
- Puoi andare, Chiaretti. Grazie – la congedò.
Schizzò via dalla sedia e raccolse le sue cose. Poi infilò tutto nello zaino e uscì sentendo il cuore battere ad un ritmo non normale.

Libera. Era finalmente libera.
Diciotto anni compiuti due settimane prima, esami di stato terminati, e un’intera vita da costruire di fronte a lei. Avrebbe trovato un lavoro, un lavoro tutto suo. Magari si sarebbe pagata l’università in un’altra città, con quei soldi.
Si, sarebbe stato fantastico. Avrebbe abbandonato casa sua, la casa che l’aveva cresciuta e che si era trasformata nella sua stessa prigione, avrebbe detto addio alla monotona routine quotidiana che la spingeva solo a pensare e a deprimersi troppo e si sarebbe allontanata da sua madre. Anzi, si sarebbe allontanata da Gloria, che ormai aveva rinunciato per sempre a capire e che il giorno del suo diciottesimo compleanno non l’aveva neppure baciata, limitandosi a farle gli auguri come avrebbe fatto un estraneo. Certe volte sentiva di odiarla visceralmente. La odiava perché non le parlava più, perché vedeva comparire sulle sue braccia lividi e tagli che cercava di nascondere, ma che Vale notava, e non le diceva niente. La odiava semplicemente perché non poteva provare altro. Perché il dolore della confusione era mutato in rabbia, e la rabbia in odio, o qualcosa che gli si avvicinava molto.
Si, avrebbe detto addio all’inferno piatto che viveva ogni giorno.
- Allora, hai deciso quale facoltà prenderai? -
Come non detto. Istantaneamente, tutti i progetti per un suo, ormai utopico, futuro lontana da quel posto crollarono davanti ai suoi occhi come un castello di sabbia.
Chiuse lo sportello, poggiò il suo zaino sulle gambe, e sorrise a suo padre, che la guardava dal sedile del guidatore.
- Veramente stavo pensando di… -
- Ti ho detto già cosa mi piacerebbe che scegliessi: ingegneria, matematica… -
Traduzione: “voglio che stia con le chiappe inchiodate qui a studiare una qualche materia di cui non capirai un tubo, ma non importa, perché così mi fai felice”.
No, non l’avrebbe permesso.
- Papà – lo interruppe, dopo aver preso un bel respiro, - Io non ho intenzione di prendere matematica, o ingegneria, o qualsiasi cosa mi proporrai. Voglio decidere da sola, se permetti -
Forse fu la sfumatura strafottente che impresse nel discorso, forse fu l’essere contraddetto per la prima volta, o forse fu qualcos’altro. Fatto sta che il volto dell’uomo divenne serio. Troppo serio, e le sue labbra assunsero la solita increspatura che avevano quando si arrabbiava.
- Che stai cercando di dirmi? – chiese, non distogliendo gli occhi di brace dai suoi.
Doveva resistere. Doveva resistere. Non poteva farsi mettere i piedi in testa, di nuovo. Altrimenti non avrebbe mai avuto pace.
- Che d’ora in poi le mie scelte non saranno influenzate da nessuno – rispose. Si stava scavando la tomba da sola, ne era perfettamente cosciente.
- Sei impazzita? Io sono tuo padre, so cosa è meglio per te –
- E io ora sono in grado di decidere cosa fare della mia vita senza l’aiuto di nessuno – ribatté, ostentando una sicurezza che non possedeva. Le stavano sudando le mani, abilmente posate sullo zaino.
- Mi stai facendo perdere la pazienza, Vale – disse, stringendo la presa sul volante di pelle.
- Mi dispiace, papà. Tu me l’hai fatta perdere parecchio tempo fa – sussurrò abbassando gli occhi, poi aprì lo sportello per uscire dall’auto.
- Puoi non considerarti più mia figlia – lo sentì dire rabbiosamente, quando lei era già fuori, lo zaino in spalla.
Infilò di poco la testa nell’auto, per guardare il volto paonazzo di suo padre.
- Mi sta bene così. Salutami Jasmine - rispose, poi chiuse lo sportello, prendendo a camminare sul marciapiede gremito di gente. Guardò il cielo: era limpido, con quel ciondolo d’oro che splendeva, illuminando qualsiasi cosa.
Si era lasciata alle spalle suo padre e tutta la realtà che lo riguardava. Poco a poco avrebbe dimenticato anche il suo passato.
 
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Lullaby;
view post Posted on 1/4/2009, 22:55




Nuovamente ho saltato l'interrogazione di filosofia XD
Comunque Valentina ha finalmente avuto il coraggio di ribellarsi all'oppressione di suo padre...
 
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_Th_devilish_
view post Posted on 3/4/2009, 15:51




grandeeeeeeeeeee!!!!!!!
è riuscita a ribellarsi al padre e ha superato la maturità..ma specialmente il primo..
bellissimo..
posta prestissimo^^
kuss!
 
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Shynee
view post Posted on 4/4/2009, 18:58




- TI ODIO! – la vide sbraitare, con tutta la forza che aveva in corpo. Riversò in quelle due parole tutta la rabbia che aveva accumulato in quei mesi, unicamente a causa sua. Le lacrime le caddero dagli occhi senza controllo, andando a schiantarsi contro il pavimento.
Come poteva, come poteva spiegarle? Come avrebbe potuto farle sapere che una delle realtà più orribili dell’umanità era più vicina a lei di quanto pensasse?
- Resterei a vedere la tragedia greca, ma ho da fare, piccola – le disse l’uomo che stava sulla soglia della porta, sogghignando. Un altro degli uomini che si erano impossessati di un altro frammento della sua identità.
Valentina si voltò verso quell’uomo, furente e ansimante.
- Vattene! Vattene via figlio di puttana! – continuò a gridare. Camminò verso di lui, che aveva un’espressione meno baldanzosa, e lo spinse verso la porta più forte che poteva, davanti ai suoi occhi. Spalancò la porta con rabbia, facendo urtare la maniglia contro il muro.
- Vai via! – gridò puntando un dito tremante contro il pianerottolo.
- Chi cazzo ti credi di essere, ragazzina?! –
- Ho detto vai via, brutto bastardo! – urlò più forte, spingendolo fuori. – Vattene! –
Una volta che l’uomo senza nome si trovò fuori dalla loro casa, lasciò che la porta si schiantasse contro la serratura sotto la spinta del suo braccio, e che si chiudesse con un rumoroso tonfo.
Gloria chiuse gli occhi. Avrebbe voluto disintegrarsi, sparire, cancellarsi, insieme a tutti i ricordi che chiunque la conosceva condivideva con lei.
Valentina si appoggiò con la fronte alla porta, facendo respiri profondi.
- Mamma… chi era quello? –. Solo dopo qualche minuto, Giorgia si decise a parlare, lo zainetto rosa ancora in mano. Era visibilmente spaventata, con la voce tremante e la fronte bianca aggrottata. Quasi si era dimenticata che era presente anche lei. Ancora peggio.
Non riuscì a rispondere, rimase in silenzio di fronte a quegli occhi castani che la guardavano spalancati, affogando in un mare di domande.
Quando Vale si decise a raddrizzarsi e voltarsi, Gloria vide un viso pallidissimo e due mani che tremavano. Ma anche un sorriso incerto e due occhi pieni di amore, nonostante tutto.
- Nessuno da ricordare, Giorgia. Dammi lo zainetto, devo metterci la tua roba dentro –
- Perché? – domandò la bambina.
- Oggi dormi da Jasmine e papà –
Gloria non ebbe la forza di opporsi. Non ebbe la voglia di opporsi. Voleva unicamente sparire.

Soundtrack: Beyoncè - Listen

Mezz’ora dopo, Jasmine scomparve dal campo visivo di Valentina, sostituita dalla porta di casa sua. Si era gentilmente offerta di andare a prendere Giorgia con la macchina, risparmiandole una passeggiata bella lunga, e Vale le era stata più che riconoscente.
Si sentiva devastata e spossata, ma anche inquieta. Non riusciva a trovare pace.
Si recò nella sua stanza e si sedette sul letto, che cigolò appena; trattenne il respiro, come se respirare le costasse fatica.
Sua madre… una prostituta. Proprio sua madre. Proprio Gloria.
Ecco perché pretendeva che la casa fosse libera il pomeriggio. Ecco perché aveva lasciato il lavoro.
Nella sua mente, ogni tassello mancante a quello strano puzzle volò al suo posto, incastrandosi in un quadro che non aveva nulla di bello, nulla di armonico. Un quadro dai colori scuri, con le poche figure composte da pennellate di rabbia, violenza, buio, bugie su bugie… perfino da parte di sua madre. Era questo che le faceva più male.
Non riusciva a giustificarla. Il freddi ricordi di quell’uomo senza nome che la possedeva nello stesso letto che lei aveva condiviso con suo padre, del rumore delle lenzuola stropicciate, e di quelle banconote che passavano da una mano ad un’altra, le facevano scoppiare la testa, propagandosi sottoforma di martellanti ondate di calore.
Sua madre… una prostituta. Non poteva accettarlo, non riusciva nemmeno a concepirlo, nonostante le prove le fossero state sbattute sotto gli occhi senza nessuna pietà.
Sua madre le aveva insegnato a non concedere molta confidenza agli estranei. Sua madre non riusciva a parlare in pubblico perché s’imbarazzava. Sua madre le aveva detto di non poter desiderare più nessun altro dopo suo padre. Menzogne. Menzogne su menzogne.
L’odio crebbe, si allargò nel petto, ancora. Chissà di quanti altri era stata prima che lei potesse scoprirlo.
Sentiva migliaia di aghi forarle gli occhi e quasi trapassarli, per quanto le facevano male. Non le era parso di aver pianto dopo aver urlato, ma le facevano maledettamente male lo stesso.
Voleva morire. In quel momento desiderava la morte, qualsiasi cosa essa implicasse. Sì, voleva morire con tutte le sue forze. Peccato che il suo cuore pulsasse ancora. Quante lacerazioni avrebbe potuto sopportare ancora, prima di smettere di battere? Se le sarebbe inflitte, pur di non vivere più. Sarebbe bastato poco… un paio di forbici, o un coltello ben affilato pescato dal cassetto della cucina. Magari avrebbe potuto salire sulla terrazza e…
- Valentina… -
La porta della sua stanza si aprì appena.
- Vattene via – ringhiò.
Gloria entrò ugualmente, un’espressione affranta disegnata sul viso arrossato.
- No, ti posso spiegare… - cominciò.
- Non c’è niente da spiegare! – strillò, impulsiva. Si sollevò dal letto intenzionata a cambiare stanza: il pensiero di condividere anche l’aria con quella donna la disgustava.
Gloria la trattenne da un braccio, cercando il suo sguardo. – Non provare a… -
- No, tu non provare a toccarmi! – la interruppe scostando bruscamente la sua mano.
- No, ascoltami! Io l’ho fatto per te! –
Era il colmo.
- Che cosa hai fatto per me? – gridò, – Cosa? Fare finta di non sapere quello che Marco cerca di fare da mesi? Ignorarmi totalmente da quando sono tornata da Berlino e lasciarmi alla mercé di me stessa? O magari permettere a mio padre di disconoscermi come figlia se mi rifiuto di prendergli la bottiglia d’acqua? – sbraitò ancora, agitando le mani.
Disperata, persa. E sofferente oltre il normale.
Gloria ammutolì, abbassando gli occhi.
- Non voglio vederti mai più… – mormorò abbassando la testa e mettendo le dita tra i capelli; – Non voglio più vedere nessuno di voi! Mi avete rovinato la vita! – gridò ancora. Sfogarsi era l’unica cosa che poteva fare. Era impotente di fronte a quella realtà più grande di lei.
Gloria sparì dalla sua camera sconfitta, chiudendo la porta.
Andasse a farsi fottere, visto che era diventata tanto brava, pensò in un impulso di pura cattiveria.
Sua madre poteva fare quello che voleva, da allora in avanti. Lei invece non avrebbe permesso di farsi rovinare ancora l’esistenza.
Si voltò e sedette davanti alla scrivania addossata al muro. Aprì una piccola scatola azzurra posata sulla scrivania. Dentro, tra un paio di orecchini rotti, un pezzo di gomma, un pacco di mentine e un cd, c’era un rettangolo di carta azzurra. E appena sopra, fermato da un pezzo di scotch, c’era un biglietto plastificato, più piccolo, tinteggiato di nero e bianco.
Era un’occasione imperdibile. Avrebbe potuto vederlo. Magari sarebbe riuscita a farsi perdonare… e sarebbe stato il primo passo verso una vita diversa, una vita lontano da lì.

Il giorno dopo.

Sistemò l’ultima maglietta nel trolley aperto sul letto, asciugandosi di tanto in tanto qualche lacrima ribelle.
- Che stai facendo? – le chiese Gloria entrando in camera sua, dopo aver visto la valigia nera aperta sul letto.
Era prestissimo. Sicuramente era stata svegliata dai rumori.
- Me ne vado – rispose perentoria, chiudendola. Non volle nemmeno guardarla negli occhi. – Non voglio rimanere qui un minuto di più – aggiunse, chiudendo la cerniera.
Gloria aggrottò le sopracciglia. – E dove pensi di andare, a quest’ora? – le disse, incrociando le braccia sul petto.
- E ti aspetti anche che te lo dica… - mormorò con un mezzo sorriso esasperato.
- Tu non vai da nessuna parte, specialmente a quest’ora del mattino. Sei mia figlia, e tuo malgrado sono ancora tua madre. Perciò devi sottostare alle mie regole –
Ma ci provava gusto ad essere totalmente incoerente e totalmente ridicola?
- Non sei più nella posizione per dirmi ciò che devo e non devo fare – decise, posando con delicatezza il trolley sul pavimento. Poi fissò gli occhi in quelli di sua madre. – Tu mi hai spezzato il cuore… – continuò, con tutt’altro tono prima di uscire, il manico della valigia stretto nella mano.
Nella stanza di Gloria, Giorgia dormiva ancora. Erano solo le sei e mezza, dopotutto. Il caldo la spingeva a dormire scoperta, con solo una canottiera e le mutandine addosso. Nonostante questo era raccolta in se stessa, le manine giunte vicino al viso.
Si chinò per accarezzarle la fronte e posarvi un bacio. Leggero, appena accennato.
- Ti voglio bene, piccola… - le disse. Il cuore già sanguinava al il pensiero di doversi separare da lei per tanto tempo. La guardò ancora, decisa a scolpirsi nella memoria l’immagine di lei che dormiva serena: le palpebre abbassate, le labbra appena socchiuse, le guance rosate e paffute, così tenere da volerle mangiare di morsi.
Poi si voltò, percorrendo a ritroso la stanza e il corridoio, per raggiungere la porta. Controllò che i suoi risparmi fossero tutti nel portafoglio, che ripose poi nello zaino, e dette uno sguardo all’orologio da polso: le sette meno un quarto. Avrebbe preso il treno per Roma alle 7.08, sicuramente ce l’avrebbe fatta.
Finalmente, uscì da quella casa. Quella in cui aveva vissuto tanti momenti belli, ma anche tanti brutti. Ci era cresciuta, sì, e l’avrebbe abbandonata. Ma in quel momento, accecata dalla rabbia e dalla voglia di scappare via, pensò con sicurezza che non le sarebbe mancata. E s’impose di non voltarsi indietro, perché quello era il passato. Solo il passato.
E lei doveva guardare al futuro.

L’inferno. Ma era capitata in un qualche improbabile girone dantesco?
Erano appena le undici di mattina e l’ippodromo delle Capannelle era gremito di gente. Di ragazze, per la precisione. E, non seppe spiegarsi perché, tutta quell’adunanza di pubblico femminile la irritò. Forse dipendeva dal nervosismo e dalla voglia di andarsene da lì a gambe levate. Era schiacciata come una sardina tra le altre ragazze, che arrancavano sotto il sole di luglio esattamente come lei. Alcune avevano indossato il costume da bagno e aperto degli ombrelli per ripararsi dal sole.
Quasi rimpiangeva di aver lasciato l’albergo. Quello vicino alla stazione Roma Termini, dove si era sistemata appena arrivata a Roma e si era concessa una bella doccia rinfrescante. Era poco lussuoso, certo, ma aveva un comodo letto che non aveva ancora provato e qualche decina di gradi in meno. Il paradiso, se visto in base a quelle condizioni.
Sbuffò, facendosi vento con le mani e controllando la sete. Aveva nel suo zainetto solo cinque bottigliette d’acqua. Erano più che sufficienti per una persona sola, ma sentiva di dover risparmiare acqua il più possibile per i momenti critici.
Si guardò intorno, giusto per far passare il tempo: la struttura era capiente e spaziosa, ma la sicurezza aveva radunato tutte le ragazze in un’area transennata, completamente sprovvista di ripari coperture per il sole.
Guardò ancora l’orologio: 11.07. Il concerto sarebbe iniziato tra… non voleva nemmeno sapere quante ore.
E lei era sola. Quel pensiero più che rattristarla, le diede molta noia. Non ce l’avrebbe assolutamente fatta.
Nelle ore successive alcune ragazze si sentirono seriamente male e furono costrette ad abbandonare l’ippodromo. Altre furono derubate e piansero, altre ancora se ne andarono perché non ne potevano più.
Valentina perse totalmente la cognizione del tempo. Sembrava non passare mai, rallentare, fermarsi addirittura. E la temperatura non accennava a diminuire. Alle sei e trenta di pomeriggio aveva consumato quattro bottigliette d’acqua e aveva già dimezzato la quinta: tutta la lucidità e la determinazione iniziale era stata vinta dall’istinto di sopravvivenza. Fortuna che la sicurezza ogni tanto annaffiava la folla con dei sifoni e lanciava bottigliette d’acqua a caso. Una colpì dritto in fronte una ragazza dai capelli castani, che prese a lamentarsi parlando in napoletano. Sentire il suo accento e le risate della sua combriccola la fece sorridere.
Quando aprirono i cancelli erano le sei passate. Era stanca, provata e sul punto di sentirsi male, ma malgrado questo cominciò a correre più veloce che poté, con le ultime forze residue.
Vide di sfuggita la ragazza dai capelli neri che il pomeriggio stava con la napoletana fermarsi di colpo, sudata e stremata. Lei non arrestò la sua corsa. Continuò a correre, spronando i suoi muscoli e ignorando il suo cuore che sembrava voler sfondare la cassa toracica.
Intanto la ragazza corvina era stata presa in braccio e portata avanti da un ragazzo più alto, quasi vicino a dove si trovava lei. Non era in prima fila, ma comunque in una posizione da cui si poteva vedere bene.
Il peggio arrivò nelle ultime tre ore. Fu quasi impossibile respirare, le ragazze sembravano assatanate e disposte a tutto per raggiungere le prime file. L’unica cosa che la tenne vagamente in contatto con la realtà fu un paio di ragazze poco lontane da lei che si facevano forza a vicenda. Le sembrava di conoscerle ormai per quanto le aveva avute vicine quel giorno: erano la corvina che poco prima era stata male e la ragazza castana dall’accento napoletano. Aveva perfino intuito i loro nomi. Peccato che loro non si fossero minimamente accorte di lei.
Dopo un tempo incalcolabilmente lungo, tutto diventò buio. Le altre ragazze urlarono, e il grande telo nero che proteggeva il palco cadde.
“Ci siamo. Ci siamo”.
Si sentirono i primi riff di chitarra, in perfetta sincronia delle fiammate ai bordi del palco e con i battiti del cuore che le rimbombarono nelle orecchie. Sentiva il sangue pulsare in ogni singola vena, arteria e capillare del suo corpo.
“Ci siamo. Ci siamo”.
Dei fari dalla luce bianchissima illuminarono Tom che avanzava nell’ala sinistra del palco suonando la sua chitarra, gli occhiali da sole a coprirgli gli occhi.
Per un attimo temette di dover morire insieme alle altre ragazze. Non riuscì nemmeno ad urlare, come la maggior parte delle presenze femminili. Il cuore era risalito lungo la gola e aveva formato una sorta di tappo all’altezza delle corde vocali.
Voltò la testa in un riflesso naturale, e riuscì a vedere Georg, che a differenza di Tom non portava occhiali da sole.
E poi la sua voce. Secca, energica. Ma allo stesso tempo dolce, accondiscendente. Un timbro che non si confaceva al ritmo brusco della canzone che stava cantando.
- Bomboloneeee! – urlò la ragazza corvina poco lontano da lei, con tutta la voce che aveva in corpo.
Nello stesso frangente una pedana circolare venne illuminata. Era posta in alto, quasi a sovrastare la batteria, con un Bill in rosso e nero che cantava in cima alle scale, il microfono stretto nella mano.
Voleva morire. Cazzo, quanto era bello. Anche più bello di quando l’aveva visto a Berlino. Più bello di quando l’aveva visto la prima volta, mentre scendeva per le scale della sua villa. Semplicemente perfetto.
Non riuscì a tenere lo sguardo alto un secondo di più. Dovette abbassarlo e costringersi a respirare profondamente. Ad isolarsi dalla confusione, dal bagliore delle luci, perfino dalla voce di Bill, che le entrava dentro strisciando, e serpeggiando per tutta la schiena. Era un’emozione diversa da tutto ciò che aveva provato negli ultimi mesi. Non era negativa. Era semplicemente qualcosa che non provava da tanto, troppo tempo. Qualcosa che aveva perfino vergogna di pensare…
Gioia.
Amore.
- Bombolone! – continuò a urlare a squarciagola la moretta, e Vale si chiese in un lampo di lucidità, a chi caspita fosse riferito un nome tanto… inusuale.


Anche quel concerto era finito, grazie al cielo.
Il camerino era piccolo, squadrato, con un tavolino addossato ad un angolo, un divanetto impolverato e nero, e un bagno a misura di puffo, dieci centimetri per dieci. Tutto era illuminato dalla luce giallognola proveniente dalle lampadine appena sopra lo specchio a sinistra.
Sbuffò. Era troppo stanco per lamentarsi con lo staff e per ordinare a David di licenziare chiunque si fosse occupato dell’organizzazione di quel buco. Almeno per una volta l’avrebbe avuto tutto per lui, senza l’ansia di lasciarlo ai suoi compagni. Tom e gli altri avevano deciso di rimandare la doccia e il relax per quando sarebbero arrivati in hotel.
Vi entrò e chiuse la porta, non preoccupandosi nemmeno di chiuderla a chiave. Sul divano c’era ancora la grande borsa bianca che usava per infilarci i vari cambi dei vestiti. La aprì, ne estrasse un asciugamano pulito e delle salviette umidificate per ripulirsi dal trucco e dal sudore.
Era in Italia, per la miseria. Inevitabilmente pensò a lei. Magari era pure venuta e l’aveva visto. Magari anche lui l’aveva guardata e non l’aveva vista…
- Ah, basta! – brontolò lanciando con forza nel cestino la salviettina sporca di nero. Si sfilò le scarpe, i jeans e la maglia, ed entrò in un paio di pantaloni di tuta. Stava per tirare fuori anche una t-shirt a maniche corte dalla borsa, quando qualcuno bussò alla porta. Tre tocchi.
- Entra Tom, è aperto – disse con fare distratto. Tom aprì la porta e la chiuse poco dopo, con un rumore molto poco sgraziato, molto poco pesante, molto poco da Tom.
Si voltò, incuriosito anche dal silenzio di suo fratello. E si rese conto che chi c’era appoggiato a quella porta non era affatto suo fratello. No, non lo era.

Soundtrack: Lil Rain - Adore you

Bussò alla porta tre volte.
- Entra Tom, è aperto -
Inspirò nello stesso istante in cui abbassò la maniglia. S’infilò nel camerino, silenziosa, chiudendo la porta accostandola dolcemente. Magari le avrebbe sputato in faccia.
Lo vide, di spalle, mentre estraeva qualcosa dalla borsa. Vide la schiena bianca appena incurvata in avanti. I suoi capelli neri, ancora avversi alla legge di gravità, ma evidentemente rovinati. Ebbe un tuffo al cuore. Non poteva crederci.
Bill si voltò, una ruga ad increspargli la fronte.
- Ciao Bill – sussurrò con sorriso timido, gli occhi sfuggenti.
La fronte del ragazzo si spianò, tutto d’un colpo. La maglia cadde sul pavimento senza fare alcun rumore.
Le rivolse un’espressione di piatto stupore, lontanissima da ciò che lei avrebbe voluto.
- Che ci fai qui? – le domandò. La voce era come l’espressione sul suo viso. Atona. Fredda. Ma venata d’ostilità.
Sentì qualcosa crollarle dentro all’altezza dello sterno. Uno strappo, una lacerazione. Ingoiò il masso incastrato in gola, senza riuscire a mandarlo giù.
- Posso anche andare, se vuoi – riuscì a mormorare, abbassando gli occhi. Pregò che le dicesse di restare.
- No, no… - rispose, incerto. Perché puntava gli occhi sul pavimento e non nei suoi? – Aspetta un attimo – aggiunse. Lo vide chinarsi per raccogliere la maglietta. Voltarsi di spalle, alzare le braccia e infilarsela. E anche se una parte di lei urlava di scappare via ululando come un camion dei pompieri, un’altra le imponeva di restare con i piedi inchiodati al pavimento e non muoversi di lì.
Nessuno di loro disse una parola. C’erano solo loro due, e quel silenzio opprimente che li bloccava.
- Io… - cominciò, aggrappandosi con le dita alla porta. In un istante tutto le sembrò assurdo. Dimenticò le parole. Perché era lì? Come avrebbe detto ciò che voleva senza apparire ridicola e stupida? – Volevo solo… scusarmi -.
Sollevò gli occhi su di lui. La guardava, aggrappandosi con le mani al tavolino a cui era appoggiato. Non seppe più cosa dire, vacillò sotto il peso di quegli occhi. E non seppe come fece a resistere alla tentazione di buttarsi fra le sue braccia e piangere, lasciar venir fuori tutto ciò che avrebbe voluto dirgli.
- Per cosa? -. Anche la sua voce aveva qualcosa di incrinato. Non suonava naturale.
Ingoiò ancora. – Perché ti ho ferito. Io… - le lacrime cominciarono ad affiorare, le labbra tremavano. – Ci ho pensato tanto, e ho capito che non era possibile… quello che è successo all’aeroporto… -
Il ragazzo si massaggiò il setto nasale, prendendo a ridacchiare. - Vale – la interruppe. – Stiamo parlando di una cosa successa tre mesi fa. Ora non puoi pretendere che io… - si bloccò anche lui, scuotendo appena la testa, gli occhi bassi.
Che stava dicendo? Che non gli importava più niente?
Si morse il labbro inferiore con tutta la forza che aveva, detestandosi dal profondo. Ovvio che non gli importava più niente. Lui aveva la sua vita, e tante, troppe distrazioni. Cosa pensava di ottenere lei andando lì?
Da qualche parte nella sua mente si era annidata l’illusione che anche lui ricambiava ciò che lei sentiva. Ma era solo uno stupido sogno. Lo vide sgretolarsi in tanti piccoli frammenti, proprio di fronte ai suoi occhi.
Che stupida illusa. Non imparava mai.
- Certo. Volevo solo farti sapere che ho capito. Tutto qui -.
E si voltò per abbassare nuovamente la maniglia e sparire nuovamente dalla sua vita.
Ma che aveva sperato? Di essere felice? Di avere un futuro diverso?
- Ci sono rimasto male – lo sentì dire, prima che lei potesse aprire la porta. – Molto male – aggiunse.
Chiuse gli occhi, le lacrime rotolavano sulle guance.
“Contieniti, cazzo”. Non poteva fargli una scenata.
- Lo so. E non volevo farlo – rispose voltandosi. Mosse un passo verso di lui, le braccia raccolte sul petto. – Ero solo spaventata. Io non sapevo ancora… cosa provavo… per te – aggiunse, avvicinandosi ancora. Gli fu vicino, e dovette alzare la testa per guardarlo negli occhi. Vide un’espressione ammorbidita, quasi contrita. Pregò, sperò con tutto il cuore che stesse prendendo in considerazione l’idea di perdonarla.
Bill alzò una mano. Le carezzò una guancia con le punte delle dita, schiacciando una lacrima. Chiuse gli occhi per vivere appieno quel contatto. Pregò che non fosse un sogno, che non si risvegliasse nel suo letto nella sua vecchia casa.
- Ora lo sai? – le domandò Bill, posando tutta la mano sulla sua guancia. Come aveva già fatto tre mesi prima, le accarezzò la pelle dello zigomo con il pollice.
Annuì, schiacciandosi le labbra. – Si, lo so – rispose. E ne era convinta davvero.
Senza volerlo, sorrise. Sorrise perché tre mesi prima non avrebbe mai permesso a nessuno di toccarla in quel modo, nemmeno a lui. Tre mesi prima non sarebbe stata libera di abbandonarglisi. Sorrise perché in quel momento voleva abbandonarsi. Con tutto il cuore.
- Bene… - asserì Bill, distogliendola dai suoi pensieri. – Anche io -
Prima che potesse aprire gli occhi, sentì un braccio di Bill circondarle la schiena e attirarla a sé. Avvertì i propri corpi aderire l’uno all’altro. Come spinte da una loro mente, anche le sue mani si posarono sulle spalle gracili del ragazzo. E lei non fece nulla per fermarle.
Ricordò quel momento come il più strano della sua vita. Si sentiva combattuta e divisa in due metà diverse, con volontà diverse e istinti diversi. L’una voleva soverchiare l’altra. L’una che le suggeriva di scappare via da lì, che era in pericolo. E l’altra che le sussurrava nell’orecchio che non c’era niente di cui aver paura. Che poteva fidarsi.
Avvolse il collo di Bill con le sue braccia, gli occhi pieni del timore di un rifiuto. Sentì la sua mano poggiarsi su un fianco e accarezzarla fino a scorrere leggermente sulla schiena.
Vedo te. Io e te. Niente conta, crolla.
- Ma te ne andrai anche questa volta – sussurrò, stringendola già un po’ meno.
“Non si fida di me”, pensò . E come poteva, d’altronde.
- No, se non vuoi. Sono libera ora -
Sicuramente non aveva capito cosa voleva dire la sua frase. - Cosa… -
Si alzò sulle punte dei piedi e lo baciò. Fu un gesto che fece senza pensare, senza chiedersi minimamente a cosa sarebbe andata incontro.
Chiuse gli occhi, in un gesto involontario, facendo scivolare una mano sul suo collo bianco. Tutto sparì. La luce, i rumori, gli odori. Non sentiva nulla, se non le sue labbra che si dischiudevano, lente e quelle di lui che non si facevano attendere. Una scarica di pura elettricità le percorse tutto il corpo, portandola a guidare le sue mani sulle guance di lui, a far aderire ancora i loro corpi. Si sentì stringere dalle sue braccia, le sentiva per tutta la schiena. C’era solo lui, ora, nel suo mondo. Lui, con il suo respiro che sentiva in bocca. Con le sue mani sulla pelle lasciata scoperta dalla canottiera, e i capelli che le solleticavano il collo. Niente ricordi. Niente paura.
Si separarono quando mancò il respiro ad entrambi. I loro cuori erano l’unico sottofondo. Lo guardò, aveva ancora le ciglia abbassate. Le posò un ultimo bacio sulle labbra umide, poi aprì gli occhi.
- Tu… - cominciò a voce bassissima. – Tu parli troppo – si giustificò distogliendo lo sguardo.
Lo sentì ridacchiare, e posare una mano sulla sua.
- Bene. Ora avrei una cosa da proporti -

***



Tom si raddrizzò, scostando l’occhio dalla fessura della serratura, con un sorrisetto soddisfatto. Si voltò verso i suoi amici con le braccia incrociate sul petto e un sopracciglio inarcato.
- Che vi avevo detto? – domandò, gustando sulla punta della lingua il sapore della vittoria.
Georg sbuffò, ma si lasciò scappare un sorriso annoiato. Gustav alzò gli occhi al cielo, ma anche lui non trattenne un sorrisetto.
- Si, sei stato bravo – gli disse con fare condiscendente, come si parla ad un bambino.
- Dite che le chiede di venire con noi? – s’intromise Georg, indicando con il mento la porta chiusa alle spalle di Tom.
- Dopo tutto il cattivo sangue che ho fatto, sarebbe il minimo! – si stizzì il ragazzo, guardandola anche lui. – E poi Bill ha un’indole molto teatrale e melodrammatica, non potrebbe farne a meno –
Tutti e tre ridacchiarono.
Gustav si stiracchiò pigramente. – Ci sarà David da convincere – meditò, rilassando tutti i muscoli delle braccia.
- Ormai penso che Bill possa fare qualsiasi cosa. Non sarà molto difficile – gli rispose Tom.
- Ragazzi! Chiamate Bill, dobbiamo andare via! – urlò la voce di David dall’inizio del corridoio illuminato.
Tutti e tre si guardarono, scambiandosi sguardi complici. Georg si diede un colpo di disperazione sulla fronte. Gustav sbuffò, scuotendo la testa.
- Daaaaaavid! – gridò Tom, incurante. – Dobbiamo chiederti una cosa! -



FINE



Note dell’autrice: è finita. Sinceramente non so cosa dire e come comportarmi. E’ stata la mia prima fan fiction, ergo le sono molto legata e quasi non mi sembra possibile che non aprirò più questo documento per scrivere, rileggere, correggere ed emozionarmi anche io insieme ai personaggi.
Tuttavia so che questa è una conclusione piuttosto scialba, perché c’è tantissimo altro da dire, quindi sicuramente ci sarà un sequel in cui si spiegheranno le molte cose lasciate in sospeso qui.
Ora, passiamo ai ringraziamenti: innanzitutto un sentitissimo grazie a Rita, che mi ha assistita nella creazione di questa fan fiction fin dal primo capitolo. Grazie, per questo e tutto il resto. Un altro grazie va a Simona, Kiki e Jessi, che anche se hanno cominciato a leggere dopo, mi hanno aiutata tantissimo a sviluppare parti che proprio non volevano saperne di venire come dicevo io.
Un altro grazie a tutte le persone che hanno commentato e letto, ma anche solo letto. Va benissimo così.
Ringrazio anche I Muse, gli Antimatter, i Lifehouse, i Paramore, gli Evanescence, e tutte le canzoni nomadi per avermi restituito l’ispirazione con la loro musica.
Grazie ancora, spero che non mi abbandoniate nel secondo episodio!
 
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Lullaby;
view post Posted on 4/4/2009, 21:29




Non vedo l'ora che pubblichi il secondo episodio *.*
Insisto che tu debba pubblicare questa ff sotto forma di libro.
Hai uno stile molto particolare, personale, le tue parole riflettono la tua anima...
 
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52 replies since 18/2/2009, 10:49   2480 views
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