| Capitolo 13.
La sua faccia era gelida, priva di ogni emozione emergente. Sua madre stava rigida e immobile davanti a lei che la aspettava. Quando la vide, rimase esterrefatta, gelata sul posto. Dilatò gli occhi in un modo impressionante, vedendo a pochi passi da se la figura di sua madre, che teneva per mano quel piccolo cavallo imbizzarrito di Giorgia. Era cambiata tantissimo. Non era più la solita donna un po’ malmessa, con un ché di trascuratezza nel viso e nel sorriso caldo che le dava l’aspetto di una mamma. Una mamma un po’ fragile, ma pur sempre mamma. In quel momento era diversa. Alta, più sottile, non molto truccata ma con i capelli ordinati, lasciati lisci e corvini contornare il volto, per poi scendere sulle spalle e soprattutto con un viso che trasudava freddezza. Non sorrideva, la guardava e basta, quasi annoiata di vederla. Ingoiando il sasso che bloccava il suo esofago, riprese a camminare, trascinando il suo trolley e il suo borsone. Sorrise. - Vale! – Sua sorella le corse incontro, le mani paffute tese verso di lei, i capelli castani che si agitavano e un sorriso innocente dipinto sul suo volto infantile. Valentina abbandonò a terra borsone e trolley e aprì le braccia per ricevere la sua sorellina. La accolse come un lago riceve l’acqua della cascata di un fiume, e per poco non perse l’equilibrio e cadde all’indietro. - Finalmente sei tornata! – cinguettò Giorgia con il mento ancora appoggiato sulla sua spalla. Avere di nuovo quel corpicino fragile tra le braccia la riempì di gioia. Vale sorrise, prima che lei si distaccasse dal suo abbraccio: per un attimo aveva dimenticato che Giorgia non era affettuosa se non lo stretto indispensabile. E in quel momento aveva fatto lo stretto indispensabile. La madre le si avvicinò poi, con un sorriso tirato stampato in faccia. Sembrava incollato, per quanto era finto. Le fece male. Si sollevò e andò verso la madre a passi lenti, calibrati. Quando le fu vicino la salutò con un sorriso sincero e cercò di abbracciarla, ma Gloria la scostò con una mano. - Raccogli i tuoi bagagli, andiamo – le disse distaccata e lapidaria. Ma che era successo a sua madre? E quella nuova donna chi era? Senza proferir parola fece come le aveva detto. - Gio, dammi la mano, non vorrei perderti di nuovo – ordinò Gloria e la bambina anche se reticente fu costretta a lasciarsi mettere un guinzaglio. Valentina stava per parlare, per chiedere qualcosa alla mamma, quando questa si voltò per dirle qualcosa. - Guarda che è venuto anche il tuo amico Samuel, se vuoi puoi andare con lui, ha la macchina. Così ti fai un giro – disse tutto d’un fiato, ritornando alla freddezza iniziale. Vale cominciava a sentirsi male: era appena arrivata e non aveva ancora combinato niente e già Gloria la trattava come se avesse dato fuoco alla casa. Decise che non poté fare a meno di assecondarla. Non poteva chiederle nulla, è abbracciarla, solo fare quello che lei le chiedeva. E quella era un’evidente preghiera di togliere il disturbo. Sospirò e abbassò lo sguardo, ancora una volta. - D’accordo, andrò con lui – esalò mortificata. Una volta fuori, Valentina scorse la figura alta di Samuel, caviglie e braccia incrociate sul petto, poggiata alla sua macchina. Teneva la testa bassa e la bocca corrucciata, sembrava cogitabondo. Sempre biondo, sempre bello anche con una modesta camicia bianca e un paio di jeans addosso. In lui rivide l’unico suo amico, quello che non l’aveva abbandonata, che non aveva cominciato a trattarla con freddezza senza motivo. Lasciò i bagagli alla madre e andò verso di lui, senza poter fare a meno di sorridere. Era contentissima di rivederlo, almeno lui ci sarebbe stato sempre. Ma perchè allora, per un momento aveva visto appoggiata a quella macchina una figura alta e longilinea dai capelli corvini e gli occhi scuri...? Scacciò quei pensieri. - Samuel! – gridò forte, cercando di riempire la sua mente, dove un nome fluttuava insistentemente, fino a diventare una cantilena senza senso. Il ragazzo sollevò di colpo la testa e allora anche le sue labbra pallide e leggermente sottili si distesero, sorridendo. Le andò incontro a braccia quasi aperte e quando furono vicini si abbracciarono. Quando si allontanarono, l’amico si concesse uno sguardo dalla testa ai piedi di lei. - Però, sei un po’ malandata, ma tutto sommato di trovo bene – disse osservandola ancora, con fare da esperto intenditore. Valentina sorrise e gli diede una pacca amichevole sul braccio. - Accompagnami a casa, poche storie – disse, ancora sorridendo. Sapeva di potersi permettere quel tono con lui, non se la sarebbe presa. - Agli ordini – rispose alzando le mani e salirono in macchina. Quella di Samuel era una bella utilitaria rossa, discreta, ma nuova. Le aveva raccontato che gliel’avevano regalata per il suo diciottesimo compleanno appena avevano cominciato a frequentarsi. Il ragazzo accese il motore e partì, a velocità sostenuta. - Allora, raccontami che hai fatto in questo mese – disse continuando a guardare la strada, con un gomito poggiato sullo sportello e una mano sul volante. Valentina sorrise in modo malinconico e fissò le sue scarpe. Doveva dirglielo o no? - Ah beh, ho dormito, ho poltrito, ho guardato la TV... Una pacchia insomma – rispose sorridente. No, forse per il momento era meglio non dire nulla.
Quando entrarono nel paese, Valentina chiese di andare a casa. Aveva dormito qualche ora sull’aereo, ma si sentiva ancora stanca e aveva un bisogno impellente del suo letto e del suo cuscino. Samuel alla richiesta la guardò con un sopracciglio inarcato e un’espressione eloquente. - Non ci penso nemmeno bella mia, mi sono preso un giorno libero per poter stare con te oggi – replicò, ma non era arrabbiato. Vale spalancò gli occhi. - Ti sei preso un giorno libero dal lavoro... per me? Sono toccata – disse con voce sottile sfarfallandogli le ciglia in faccia e mettendosi teatralmente una mano sul petto. Lui la guardò ancora più scettico, fissando la sua espressione canzonatoria e ironica. Come era brutto nascondere, fingere. Appariva felice, ma si sentiva distrutta. - Se preferisci posso riportarti a casa tua dove ti aspetta una pila infinita di compiti da recuperare – la minacciò con voce tranquilla. Perse per un secondo tutta la sua aria allegra e una lunga pellicola mostrò ciò che l’attendeva a casa. E non erano solo i libri e il carico infinito di arretrati da recuperare il problema. - No, no. – sorrise vagamente lugubre – Meglio andare a fare un giro – Sentì improvvisamente un grosso masso di cemento franare proprio all’altezza dei polmoni. - Ora si ragiona – approvò Samuel. Lei sollevò lo sguardo e gli rivolse un mezzo sorriso annuendo, mentre il suo amico svoltava a destra. Non voleva dare spiegazioni, non voleva parlare di come si sentiva, non voleva parlare di niente. Ciò che desiderava era solo rimandare... rimandare tutto al più tardi possibile. “Sei solo una bambina” una voce sottile e dolce quanto il miele, ma insolitamente severa risuonò nella sua mente, crudele spietata. E due occhietti vispi incastonati in un viso da elfo dispettoso si affacciarono davanti ai suoi occhi. Serrò le palpebre e schiacciò le labbra, un altro po’ di lei affondò nell’oblio. - Vale? – la chiamò l’amico. Quando lo guardò, notò la sua espressione curiosa e rifletté che aveva esagerato nel lasciarsi andare ai ricordi. - Niente – sorrise rassicurante. Il ragazzo accostò in una strada molto larga e frequentata. Il marciapiede di cemento plumbero era gremito di gente che camminava non badando minimamente a loro. Era strano ritrovarsi tra gente normale, pensò Vale, dopo aver passato tanto tempo con persone che non potevano mettere il naso fuori casa senza essere abbacinati da milioni di flash. Per la verità era strano ritrovarsi la fra gente, abituata solo alla compagnia di Anja e dei suoi parenti e a quel quartiere desolato. - Scendi? – disse Samuel gentilmente, aprendole lo sportello. Lei lo guardò accigliata, come per chiedergli spiegazioni. Lui alzò le spalle. - Beh, sono le due passate, io ho fame e immagino che anche tu ne abbia – chiarì lui. In effetti aveva un po’ di fame. Un po’ tanta a dirla tutta e la cucina italiana le mancava. Senza dire nulla scese dall’auto e si fece accompagnare dall’amico in uno di quei posti frequentati soprattutto da adolescenti, forniti di panini, pizze e comodi tavolini di plastica. Non molto formale, ma meglio così: non le piacevano le cose formali. Entrarono e, ordinati un panino alla carne e una vaschetta di patatine inzuppate di salsa di ketchup, maionese e senape per uno, si sedettero ad uno dei tavolini liberi. - Fammi capire: – cominciò Vale, cominciando a sgranocchiare la consistenza morbida del pane – Che è successo a Jasmine di tanto terribile da farmi correre qui in fretta e furia neanche fosse scoppiata la rivoluzione francese? – come era bello poter parlare in Italiano e concedersi certe espressioni. Con il Tedesco non poteva farlo, non era abbastanza padrona della lingua. Samuel continuò a mangiare e scrollò le spalle – Ah, mia sorella. Niente di grave, un falso allarme – rispose ingoiando anche lui. Vale aggrottò la fronte, molto dubbiosa. - E cioè? – - E cioè una semplice intossicazione. Avrà mangiato qualcosa di tr...- - Vuoi dire che mi avete fatta venire qui da Berlino per una stupida intossicazione? – abbaiò lei. - Vale calmati – disse il ragazzo stupito, notando che la confusione nel locale si era improvvisamente zittita e la gente si era voltata verso di loro. Lei ubbidì, senza fare troppe storie. - Abbiamo solo pensato che se per caso fosse andata male, tuo padre avrebbe avuto bisogno del maggiore sostegno possibile. E poi, saresti comunque ritornata – spiegò il ragazzo, tra un morso e l’altro. Le costava ammetterlo, ma aveva ragione. Non sarebbe cambiato nulla. Continuò a mangiare in silenzio, interrotta ogni tanto dai brevi commenti sulla gustosità del panino da parte dell’amico, mentre lei ruminava tranquillamente. - Sai è bello vederli così felice – esordì, spezzando il silenzio una volta finito il suo panino. - Chi? – chiese Vale, infilando in bocca l’ultima patatina. - Tuo padre e mia sorella. Sono cos’ felici e spensierati, sembrano davvero innamorati – Vale storse la bocca e ingoiò, a fatica. Era davvero suo padre l’uomo di cui il suo amico stava parlando o qualche suo clone con un carattere più trattabile? - Innamorati... che vuol dire?- chiese quasi senza rendersene contro. Che domanda scema: lo sapeva cosa significava, o se lo sapeva. - Suppongo che sia un forte attaccamento ad una persona... – rispose con tono pensieroso Samuel, che si abbandonò contro lo schienale della sedia – Perchè? – Lei non rispose e bevette un sorso d’acqua. - Dai, non dirmi che ti sei innamorata! – esclamò Samuel entusiasta. Vale ignorò il sorriso abbagliante e l’improvvisa gioia che lo aveva illuminato tutto d’un tratto. - No – ammise con voce piatta. Le venne naturale negare, anche se in fondo non stava negando. Perchè non era innamorata, giusto? - Ho capito – - Bene – - Bene – - Lo conosco? – domandò l’amico divertito. Ancora quella luce che Vale ignorò, troppo presa a negare a se stessa la cruda verità. - Può darsi – concesse, guardando da un’altra parte. Era un bugia, lei non era affatto innamorata. L’aveva solo detto per tenere a bada la curiosità dell’amico, non per altro. E allora perchè cazzo sentiva quel continuo macigno al posto dei polmoni impedirle di respirare e il desiderio di voler ancora toccare quelle labbra?
Dopo aver parlato un altro po’ ancora, Vale chiese di farsi portare a casa, nella speranza di poter dormire decentemente nel suo letto, con il suo cuscino come non faceva da giorni. Appena varcò la soglia ed entrò nella cucina però, tutte le sue speranze collassarono. Rimase sull’uscio, impietrita, dimenticando improvvisamente tutta la stanchezza iniziale. - Santo cielo... – fu tutto ciò che riuscì a mormorare. Le facoltà di controllare il proprio corpo sembravano averla abbandonata. Fissò ancora attonita quella visione sconcertante: le ante delle dispense in basso della cucina tutte aperte, e le pentole che avrebbero dovuto stare ordinatamente riposte nello stipo in basso a sinistra, campeggiavano secondo un ordine confuso sul pavimento; il frigorifero aperto e svuotato e tutte le carte di salumi e formaggini che avrebbero dovuto stare piene, nel ripiano più in basso, giacevano vuote, proprio ai piedi del frigorifero. Il loro contenuto galleggiava su un disgustoso e liquido coacervo color verde bile in ogni pentola. Sul pavimento si potevano chiaramente distinguere macchie di ketchup, maionese e latte, adornate dai granuli delle spezie più varie e più colorate. Le loro confezioni vuote erano accantonate in un angolo. Il divano sporco, il tavolo e le sedie praticamente dipinti di quella brodaglia stomachevole. E una figurina non molto alta e sottile che volteggiava candidamente tra le pentole e le padelle traboccanti, perfettamente a proprio agio. Mormorava qualcosa tra se e se con aria gentile e aveva nella mano impiastricciata un mestolo con cui si divertiva a travasare il contenuto da un recipiente all’altro. - Giorgia... – la richiamò Valentina, con voce stridula. Improvvisamente un paio di fari marrone scuro si fissarono tranquilli su di lei e gli angoli della bocca si distesero tranquilli. - Ciao Vale – la salutò garrula – Vuoi anche tu un po’ di minestra speciale? – Era sempre stata una bimba con una parlantina piuttosto florida, per avere solo quattro anni, Vale lo sapeva bene. E insieme alle sorprendenti capacità verbali aveva sviluppato anche sorprendenti capacità di combinare disastri di proporzioni bibliche, come rompere tutti i piatti e i bicchieri della credenza, aprire tutti i pacchi di merendine e cereali nel supermercato solo per prendere il giocattolino (e quindi aprire una confezione di coltelli di plastica per aprire la bustina che lo conteneva) e nascondere tutta la biancheria intima nella nicchia riservata al contatore dell’acqua sul balcone, ma quello era l’apice. - Che stai facendo? – che domande sceme che le venivano fuori nei momenti come quelli. Era sempre stato così. La piccola Giorgia le sorrise in modo angelico e sollevò le sopracciglia. - Sto dando da mangiare ai miei bambini, le maestre all’asilo lo fanno sempre! Vuoi essere anche tu una bambina e io faccio la maestra? – le chiese porgendole una padella piena di quella strana accozzaglia disgustosa. Ma che era successo? - Dov’è mamma? – La bambina posò la padella a terra e incrociò le braccia luride sul petto, sporcando ancora di più la canottiera che portava. - A dormire. Ma sei così violenta, non mi rispondi nemmeno! – mugugnò, mettendo su un’espressione offesa. Usava sempre la parola “violenta” per dire che qualcosa era cattivo, brutto o sgarbato. Vale sgranò ancor di più gli occhi, scandalizzata e si fiondò in corridoio a passo rapido e furioso. Ma che stava succedendo? Quando entrò in camera, vide sua madre che dormiva beatamente nel letto, coperta da un vestitino leggero che non aveva mai visto, e da un cuscino in faccia. Si sentì furiosa, ardente di rabbia come non si sentiva da tempo. Le andò vicino e la scosse violentemente. - Svegliati! – urlò, sbatacchiandola. La madre grugnì qualcosa di incomprensibile, poi si decise a sollevarsi. La guardò con occhi socchiusi, le pieghe del cuscino stampate in faccia. - Oh, Vale... – disse con tono dolce, un tono che lei riconobbe subito e che quasi la distrasse dalla voglia di prenderla a schiaffi. Ma Gloria scosse la testa improvvisamente e si mise seduta composta sul letto, riprendendo la sua aria severa. - Che vuoi? – domandò infatti, quasi sprezzante. Lei ricambiò con uno sguardo carico d’odio. - CHE VOGLIO?! VOGLIO CHE CONTROLLI TUA FIGLIA E CHE TE NE PRENDA CURA, ALMENO QUANDO NON CI SONO! NON HAI VISTO CHE HA TRASFORMATO LA CUCINA IN UN CAMPO DI GUERRA?! – sbraitò, piegandosi leggermente in avanti. La voce era tanto impregnata di rabbia da essere roca. Gloria con suo stupore non si scompose più di tanto. Inarcò un sopracciglio e la guardò, altezzosa come non era mai stata. - Ora però ci sei, no? Rimedia. Io ho sonno. – concluse, stendendosi di nuovo sul materasso. Valentina sentì il cuore schiacciato dal peso di un lottatore di sumo e il fegato colpito dalle frecce di una balestra pesante. Quella donna non era sua madre. Quel corpo tonico e improvvisamente più magro, quel viso dall’aria sprezzante che guardava il mondo come se fosse un paio di gradini più in alto, non potevano appartenere alla donna che aveva conosciuto prima di partire. - Tu non sei mia madre... – mormorò, scuotendo la testa rassegnata. Le parve di vederla scuotersi solo un secondo, come se la cosa l’avesse ferita o colpita, ma sicuramente era solo frutto della sua immaginazione. Si diresse in cucina e diede un altro sguardo alla confusione. Sua sorella continuava a scorrazzare inciampando ogni tanto nelle pentole e versando il contenuto sul pavimento. Sospirò rassegnata e decise di imboccarsi le maniche. Il tempo per riposarsi e per studiare avrebbe dovuto trovarlo dopo, in quel momento c’erano cose più importanti da fare.
- Tu non sei mia madre... – sentì sussurrare sua figlia e digrignò i denti nel cuscino, sussultando appena. Udì i suoi passi farsi più lontani, più attutiti. Cominciò a piangere, quasi senza rendersene conto. Stava facendo del male alle sue figlie, ciò che più amava al mondo. Ma non poteva... doveva allontanarle. Doveva farlo, altrimenti qualcosa di molto spiacevole sarebbe potuto accadere. E non poteva permetterlo, non poteva, anche a costo di rinunciare a loro. Si sentiva straziata. Vedeva continuamente Daniel prendere il suo cuore e stracciarlo davanti a lei senza alcuna pietà, con il solito ghigno sadico di quando lei gli consegnava una grossa parte dei soldi guadagnati durante la notte, una volta finito il suo “turno”. Valentina era forte. Valentina ce l’avrebbe fatta, avrebbe retto.
Sbatté la porta del suo camerino con così tanta violenza che rimbalzò e si spalancò di nuovo. Imprecando in lingue che non sapeva nemmeno di conoscere, la sbatté di nuovo e questa finalmente si chiuse. - Vaffanculo – mormorò, lasciandosi cadere sul divano. Non sapeva nemmeno lui a chi o cosa fosse diretto, lo disse e basta. E sentì la voglia di dirlo ancora e ancora, finché non fosse rimasto senza voce. La sua “preziosissima” voce. La sua fottutissima voce del cazzo. Quando Bill Kaulitz arrivava a non considerare importante la salute delle sue corde vocali, i motivi potevano solo essere due. Anzi tre: aveva scambiato la bomboletta dell’insetticida per la lacca per capelli, aveva visto un enorme scarafaggio, oppure un’esibizione era andata male. In quel caso era successo che l’esibizione in Los Angeles con Monsoon e Ready Set Go! era andata talmente male che persino le giustificazioni dello staff (“E’ rock’n roll!”) non erano riuscite a calmare il torrente di veemente autoaccusa scaturito dalle sue labbra. Aveva stonato più volte e non era riuscito ad arrivare a tonalità per cui solitamente non faceva grossi sforzi. La cosa triste e avvilente era che aveva sgambettato per il palco più di un’oca sparata. Quella che lo faceva più incazzare invece era che aveva gracidato non solo perchè era stata la sua prima effettiva esibizione dopo l’operazione alle corde vocali, ma perchè le parole delle canzoni lo avevano rimandato all’ultimissima persona a cui avrebbe desiderato pensare. Specialmente durante Monsoon. Quel maledettissimo “And when I lose my self, I’ll think of you” lo aveva scritto lui stesso e solo in quel momento ne comprendeva il significato effettivo. E quel dannato “Together we’ll be running somewhere new”, dove aveva gracchiato di più: adesso gli appariva chiaro e spiegato nella sua apparente complessità. Tutto questo perchè? Solo perchè l’aveva pensata. Tamburellando un piede a terra, piegò il ginocchio dell’altra gamba e ci appoggiò la testa dalla chioma puntuta. Chiuse gli occhi e si abbandonò ai pensieri. Chissà che stava facendo in quel momento. Probabilmente era tornata da un pezzo a casa sua. Chissà come si sentiva, cosa stava pensando, chi stava guardando, da chi stava scappando. Forse se l’avesse chiamata avrebbe potuto riavvicinarla... parlarle, almeno. Ma perchè lo aveva trattato in quel modo all’aeroporto? Più ci pensava, più non ne veniva a capo. “Prova a chiederlo al tuo manager cosa significa” aveva detto. Ma che significava? Forse David era la chiave... - Bill? – Tom entrò in camerino senza bussare, come al solito. Non si sforzò di sollevare la testa per guardarlo. - Mhm... – mugugnò, con gli occhi chiusi. Riuscì a capire che Tom si sedette su uno degli sgabelli avanti agli specchi a muro e riuscì a capire che quella volta sarebbe finita male, perchè lui era troppo nervoso e Tom sebbene fosse ben intenzionato, era troppo poco paziente per sopportarlo. Che prospettiva di merda. - Che c’è, sei venuto a propinarmi una delle tue cazzate riguardo a questi camerini e riguardo a quanto sono comodi? – lo aggredì improvvisamente, senza rendersene conto. Tom rimase muto e marmoreo, ma sapeva che dentro di lui stava cominciando ad arrabbiarsi. – Perchè se per caso fosse così potresti anche andartene, non cambierebbe niente – continuò imperterrito. Che stronzo che era. La cosa bella era che se ne rendeva conto. Schifoso, squallido. - Bill non voglio litigare, devo dirti una cosa import... – - Se non vuoi litigare dimmi velocemente quello che devi e vattene via, voglio stare da solo – berciò lui senza alcuna sensibilità, senza alcun rispetto. E a quel punto Tom perse quel poco di pazienza che lo animava. Perchè se l’esibizione era andata male per lui, anche per la band valeva lo stesso e questo innervosiva tutti. Si alzò dallo sgabello con una veemenza che lo fece rovinare a terra e si diresse verso la porta. Prima di aprirla tutta si bloccò e si voltò verso di lui. - Ero venuto a dirti che stasera hai fatto davvero pena, sembravi una gallina sgozzata. Vedi di darti una svegliata, prima che ti sgozzi io – lo apostrofò riottoso e uscì, sbattendo quella dannata porta nera che si chiuse al primo tentativo. Bill sentì una morsa dolorosa attorcigliarsi alle sue budella. Quelle erano state le parole più dure che ricordava di aver sentito uscire dalla bocca di suo fratello rivolte a lui. Gli faceva male tutto, la testa, le gambe, il cuore. Sanguinava, solcato da ferite profonde, quelle più dolorose. Strinse i denti e riappoggiò la testa sul ginocchio piegato. Si sentì scosso contro la sua volontà da singhiozzi silenziosi e gli occhi si inumidirono. - Vaffanculo... – mugugnò disperatamente tra le lacrime, premendo la fronte e i pugni sudati contro la gamba. Lo sapeva che quella sera sarebbe finita male. Lui lo sapeva.
Tom sbatté la porta e uscì dal camerino di Bill più lugubre di un cimitero di notte. Aveva un aria visibilmente incazzata, forse era andata male, rifletté Georg. Gli si avvicinò e lo fece voltare, appoggiandogli una mano sulla spalla. - Come è andata? – gli chiese, appena imbarazzato. Tom corrucciò le labbra e scosse i rasta, lo sguardo basso. Aveva intuito bene: era andata male. - Male, è intrattabile. – rispose l’amico avvilito – Stasera è meglio lasciarlo sbollire. Ho fatto male anche io ad andare da lui... – mormorò l’ultima frase rivolto più a se stesso che a lui, con aria molto pentita. Le spalle di Georg si afflosciarono, il suo sguardo divenne scoraggiato. Che idiota che era stato. Un emerito idiota. Quasi a voler contrastare il clima e le previsioni totalmente scoraggianti, la mano amica di Tom gli diede una pacca sulla spalla. Sollevò la testa e vide il sorriso rassicurante e appena mesto di Tom. - Dai amico, a tutto c’è rimedio. Perfino alla tua idiozia galoppante – motteggiò, con la sua aria strafottente di sempre. Non poté fare a meno che regalargli anche lui uno dei suoi sorrisi storti e gli diede una piccola spinta. Lo superò senza dire nulla, diretto verso il suo camerino: aveva bisogno di una doccia.
Sotto l’acqua calda ripensò a quando aveva preso da parte Tom circa un’ora prima dello spettacolo, mentre Bill era sotto le mani esperte di Natalie.
Flashback. - Tom... dobbiamo parlare – mormorò, attento che nessuno lo sentisse. Tom che armeggiava con la chitarra seduto sul divanetto, non alzò lo sguardo su di lui. - Ti ascolto – rispose dopo un po’ con aria assente, tenendo costantemente il ritmo della musica con la testa, gli occhi chiusi e lo sguardo perso tra le note. - Da soli – specificò e Tom finalmente lo guardò, sollevando un sopracciglio a metà tra lo scettico e l’ironico. Non disse nulla, posò la chitarra sul divano di pelle e si lasciò trascinare da lui in una stanza più piccola. - Senti, se ti sei innamorato di me, e credimi lo comprenderei, voglio solo avvisarti che mi dispiace, ma preferisco ancora l’altro sesso – - Stai zitto Sparacazzate e ascoltami – berciò Georg zittendolo. Gli indicò un’enorme scatola contenente un amplificatore e gli fece cenno di sedersi. Quando l’amico fu seduto, si adagiò anche lui sul pavimento e gli raccontò. Gli raccontò che dopo che erano entrati in aeroporto, aveva visto David uscire di nuovo ed estrarre dal borsello il cellulare di Bill. Gli raccontò che, incuriosito dall’improvviso pallore del manager nel vedere chi chiamava, aveva ascoltato la conversazione e dal tono usato si capiva perfettamente con chi stesse parlando. Gli raccontò ogni parola che era riuscito a carpire in quei pochi momenti in cui non era stato sollecitato dai bodyguard a proseguire, in particolare quella frase che si era stampato a fuoco in testa, perchè poteva essere la chiave per risolvere tutto quel macello. “Bill non ha tempo da dedicare alle avventure. Ci ha raccontato di te e se vuoi saperlo ha detto che eri solo un passatempo, come le altre” Tom era saltato su appena glielo aveva detto, come se fosse stato punto da uno spillo sul sedere. Si alterò giusto un po’ per i due soliti motivi: primo perchè David non poteva controllare le loro vite. Poi perchè a parte quella Valentina, non c’erano state “altre” per Bill. E in quel momento Georg realizzò ciò che Bill provava. Quella ragazza con l’aria innocente che lui aveva scambiato per la maschera di una vipera in realtà era sincera, altrimenti Bill se ne sarebbe reso conto. Dopotutto non era da lui dare subito fiducia, in particolar modo alle ragazze. Capì che cosa aveva combinato con solo poche parole e capì che avrebbe dovuto districare quella matassa di fili intricati. - Lo sapevo che c’era qualcosa sotto... – meditò Tom cogitabondo, ritrovando tutta la sua calma iniziale – Quella ragazza cerebralista non mi è mai sembrata tanto cerebrolesa... – continuò, pensieroso. Georg roteò gli occhi. - Senti, lascia perdere i paroloni adesso. Io ho combinato questo casino, ma tu mi devi aiutare a risolverlo – lo interruppe dai suoi pensieri. Tom aggrottò la fronte e lo indicò con un indice nerboruto. - Tu? – chiese dubbioso. - Si io. Sapevamo tutti che Bill la stava frequentando, ma a me quella tizia non ispirava molta fiducia. Così l’ho detto a David, nel pulmino.. – concluse abbassando gli occhi - Ti ricordi? – lo guardò di nuovo, come per cercare una risposta nei suoi occhi. Tom finalmente parve capire, data l’espressione illuminata. - Quando sono salito io per chiamare Bill, lui mi ha detto che doveva fare una telefonata e sarebbe venuto. David sicuramente l’avrà raggiunto e gli avrà rubato il cellulare mentre chiamava. In aeroporto avrà detto qualcosa di molto sconveniente, data la reazione di quella Valentina... – dedusse con lo sguardo basso. Si aspettò delle accuse da parte dell’amico, delle parole amare e cattive, ma quando sollevò lo sguardo su Tom, vide solo uno sguardo ammirato. - Però Georg, non sapevo che avessi un cervello provvisto di capacità logico-deduttive sotto i capelli... – mormorò serrando le labbra. Lui lo spinse leggermente, non senza essere più sollevato. - Dai dobbiamo trovare una soluzione, anche perchè Bill sta evidentemente da schifo e non possiamo continuare così – Tom lo guardò: - E quindi? – chiese aspettando. Georg lo guardò, gli sfarfallò le ciglia in faccia. Gli occhi dell’amico si sgranarono, la bocca si spalancò. - No, no, no, non hai capito niente, quello con la sua nevrosi galoppante e mi squarta come un quarto di manzo! Andrà male, malissimo! -
Ed era andata esattamente così, pensò Georg uscendo dalla doccia. Si avvolse un asciugamano in vita e rifletté che forse era stato anche meglio. Lui e le sue parole stavano alla radice di tutto e a costo di non farsi rivolgere più la parola da Bill (sapeva quanto fosse permaloso), gli avrebbe parlato lui.
Capitolo 14.
La sveglia suonò di nuovo, trillando come ogni giorno governato dalla routine. Che palle, pensò Valentina con elegante scocciatura. Si girò su un fianco per prendere la sveglia dal comodino. Si decise ad aprire gli occhi solo quando quel dannato aggeggio bianco le trillò in mano, scuotendola tutta. Premette quel bottone rosso e vide l’orario: le sei e mezza. Perfetto, per una che era andata a letto alle undici e mezza dopo aver messo a letto una specie di mastino che si spacciava per bambina (che dopo la performance con le pentole e il liquido verde bile aveva tentato quasi riuscendoci di mettersi in piedi su una sedia pericolosamente vicina alla ringhiera del balcone dicendo che voleva toccare le stelle... e loro abitavano al terzo piano). Non si può dire che si sentisse esattamente riposata. Scostò le coperte e si stiracchiò pigramente nel suo letto cercando di ritrovare la mobilità delle proprie membra, bocca compresa. Era maggio e cominciava davvero a fare caldo, ma Vale era freddolosa e non riusciva a non tenere almeno un lenzuolo addosso se non ad Agosto. Si sollevò scuotendo i capelli che le si erano aggrovigliati intorno al collo. Come d’abitudine, si recò nella stanza da letto della madre. Le faceva da sveglia ogni mattina per avvisarla che doveva andare a lavorare. Quando entrò, Gloria dormiva. Nulla di anormale se non fosse che aveva gli occhi neri, con evidenti residui di matita e ombretto, e un rossore innaturale dipinto intorno alla bocca. Cosa significava? Si chinò su di lei, e la scosse delicatamente. - Mamma, svegliati... devi andare a lavorare – mormorò vicino al suo orecchio. Gloria si lamentò leggermente nel sonno e affondò il viso nel cuscino come al solito quando non voleva svegliarsi. - Mamma... – la richiamò, paziente. Chissà, forse anche quella volta le avrebbe risposto male. - Che c’è? – mugolò con voce impastata e assonnata. Lei sorrise, suo malgrado. - Devi andare a lavorare... – - Lavorare? – sua madre improvvisamente sembrò riscuotersi. Sollevò il viso dal cuscino, poggiandosi sui gomiti e la guardò, gli occhi castani socchiusi. - Si mamma, lavorare – spiegò non badando alla stranezza del viso di sua madre. – E comunque, perchè hai il viso truccato? – domandò con sincera curiosità. Gli occhi di sua madre non s'indurirono come al solito, ma forse era solo colpa del sonno. - Niente Vale, lascia stare – disse meno brusca del solito. – Comunque sappi che ho preso un permesso a tempo indeterminato, per cui non venire più a svegliarmi la mattina. Oh, e già che ci sei, sveglia Giorgia per favore, vestila e accompagnala all’asilo prima di andare a scuola. Io oggi non ce la faccio – detto questo, Gloria tuffò di nuovo il viso nella consistenza morbida del guanciale. Vale rimase un attimo spiazzata: che significava che aveva preso un permesso a tempo indeterminato? Che si era licenziata? - Sbrigati o farai tardi – la incitò la voce morbida di Gloria. In silenzio, ritornò nella sua stanza. Nel letto disfatto accanto al proprio, avvolta nella coperta leggera di Winnie the Pooh, dormiva la piccola, angelica Giorgia. “Ed ora chi la sveglia?” pensò, con pesante preoccupazione, battendosi un palmo sulla fronte. Accese la televisione, sul canale su cui solitamente a quell’ora trasmettevano i cartoni animati, e alzò il volume. Un po’ di sano baccano l’avrebbe sicuramente se non svegliata, almeno messa in remoto contatto con la realtà. Si diresse in bagno, intenzionata a farsi un bella doccia, ma prima guardò la sua immagine riflessa nello specchio: era cambiata. Non sapeva perché, ma si trovava diversa. I lineamenti, il modo di guardarsi, e guardare con gli occhi il mondo. Corrugò le labbra, aggrottò la fronte, in un impulso di rabbia: che mondo di merda. Non ci si poteva fidare di nessuno, nemmeno della propria famiglia. Specialmente della propria famiglia, pensò mentre cominciava a spogliarsi del pigiama. Un quarto d’ora dopo, dopo aver fatto la doccia ed aver lavato i denti, Valentina si trovò a fare i conti con un osso duro: sua sorella, che intanto si era svegliata e guardava rilassata i cartoni animati. - Giorgia, comincia a prepararti mentalmente perché appena finisco di vestirmi devi saltare giù dal letto senza fare storie – le annunciò mentre seduta sul letto e con l’asciugamano sulle spalle, si infilava la biancheria. Sapeva di poter parlare in quel modo davanti a sua sorella, Giorgia era fin troppo intelligente e furba. - Ohi, hai capito? – chiese voltandosi verso di lei. La bimba spalancò i suoi occhioni e le sorrise ancora mezza intorpidita per il sonno. - Si, ho capito – disse, incespicando tra le sillabe. Vale ritornò ai suoi vestiti con aria preoccupata. Lo sperava, sperava davvero.
- Oddio Giorgia no! – Vale s’infilò velocemente l’ultima scarpa e si lanciò all’inseguimento della sorella, che aveva aperto la porta d’ingresso e scendeva le scale spedita verso il portone, con la scusa di “voler andare da sola all’asilo perché Vale andava sempre da sola a scuola”. La ragazza la riacchiappò a metà della scalinata. Menomale che non aveva imparato ad usare l'ascensore... ancora. - Ma che ti è saltato in mente, sei pazza?! – la rimproverò. La sua voce rimbombò nell’androne vuoto. La bimba si corrucciò in un’espressione offesa e si lasciò trascinare dalla sorella verso casa. - Non è giusto, io voglio essere grande! – protestò la bimba. – E non stringere la mano, mi fai male! – continuò con la sua voce bianca, visto che sua sorella le stava quasi stritolando il polso. - Non sei nelle condizioni di poter parlare – berciò Vale con tono autorevole. Giorgia non ribatté, ma fece sporgere il suo labbro inferiore come un balcone. A Vale dispiaceva doverla trattare così, ma qualcuno doveva insegnarle la disciplina, visto che sua madre aveva deciso di impazzire. E non sarebbe stato affatto facile, lo sapeva. Giorgia non si lasciava comandare facilmente. Entrarono in casa e Vale si piegò sulle ginocchia di fronte alla figura di sua sorella e cominciò ad abbottonare i bottoni della camicetta che non le aveva dato il tempo di abbottonare. - D'accordo, adesso, mentre io mi preparo lo zaino e do una sistemata ai capelli, tu ti infili il grembiule che sta sul divano dal verso giusto, e metti il panino che sta sul tavolo nello zainetto tuo, che sta accanto al grembiule. Senza combinare danni, senza gridare, senza lamentarti, senza scappare. Chiaro? - chiese sollevando lo sguardo su di lei. - Chiaro – brontolò la bambina, perpetuando nel mantenere quell'espressione offesa assolutamente adorabile. Vale per poco non si lasciò sfuggire un sorriso e si voltò, camminando nel corridoio. Abbassò la maniglia della porta e si voltò indietro, guardando la porta chiusa della stanza di sua madre. - Noi andiamo! - urlò, una mano chiusa intorno alle dita della bambina. “Dimmi qualcosa, fai qualcosa...” pregò ad occhi chiusi, sperando che magari sua madre uscisse da quella camera e le baciasse in fronte come faceva sempre. Ma non si udì nemmeno un suono provenire da oltre la porta. Che stupida, per un momento ci aveva creduto veramente. Sorrise amaramente attraversando la soglia, si chiuse la porta alle spalle. E insieme a quella di casa, un'altra serratura dentro di lei si serrò. Non si sarebbe più affezionata a nessuno, non avrebbe più dato fiducia a nessuno. A quel punto non le interessavano più nemmeno i motivi del comportamento di sua madre, qualunque essi fossero. Non sarebbero mai stati tanto gravi per poter giustificare il suo comportamento. Se le avesse voluto realmente bene, non l'avrebbe mai caricata di responsabilità così grandi. Gloria non era più la stessa persona. E nemmeno lei. Mentre usciva dall'ascensore, zaino in spalla e bambina (strepitante, perchè non voleva tornare all'asilo) con zainetto a seguito, un nome rimbalzò nella sua testa, prepotente, rumoroso. Non il nome del suo amico più vicino, quello che senza che lei ne fosse consapevole, si sarebbe fatto in quattro pur di vederla solo sorridere. No, sarebbe stato troppo facile. Il nome di una persona lontana, uscita dalla sua vita velocemente come ci era entrata. E la cosa che più le faceva male era che non l'avrebbe rivista più. Ciò di cui aveva bisogno, era proprio ciò che non poteva avere.
Facendo più o meno i salti mortali, riuscì ad arrivare a scuola con qualche minuto d'anticipo. Quando entrò in classe, diciassette teste si voltarono quando lei salutò con un “Buongiorno” appena sussurrato. Trentaquattro paia di occhi si sgranarono, la fissarono come se stessero assistendo alla rivelazione di Fatima. - E tu che ci fai qui? - gracchiò una ragazza vicino alla cattedra di fronte a lei, che Vale riconobbe come la sua compagna di banco. - Come che ci faccio qui? Sono venuta a scuola – rispose dirigendosi verso il penultimo banco della fila vicino alla porta. Poggiò lo zaino sulla superficie verde acceso e si sedette accanto. Gli altri continuavano a guardarla. - Ma che avete da guardarmi in quel modo? - chiese, sinceramente curiosa. Ilenia, la sua compagna di banco, le si avvicinò. - Niente, non ci aspettavamo di vederti. Eravamo convinti che ti fossi trasferita in Germania – s'intromise Biagio Bassi con la sua voce baritonale, pollici infilati nei passanti dei jeans e solita espressione indifferente, guardandola come se fosse una reietta. Il resto della classe annuì, come spinta da una sola mente. - No, è stato solo per poche settimane – spiegò Vale stringendosi nelle spalle. A salvarla dalla sua condizione di centro dell'attenzione generale, fu il professor Ruotari, che entrò in classe drizzandosi nei suoi centocinquanta centimetri appena superati. Gli studenti presero il loro posto e Vale trasse un sospiro di sollievo. Non c'erano stati accoglienti benvenuti, calorosi abbracci o semplici strette di mano, per il semplice motivo che in classe, era quella più estranea a tutti. Per i primi due anni il suo estraniamento e il suo ostinarsi a non voler dare molta confidenza a nessuno era stato quasi problematico per i suoi compagni, ma poi con il tempo, come ogni cosa, era stata accettata. Parlava con gli altri, scherzava come tutti, apparentemente sembrava amichevole. Ma appena in classe ci si concedevano momenti in cui i ragazzi e i professori parlavano di argomenti personali, lei automaticamente non interveniva, e sviava l'interlocutore con altre domande. Il professore si accomodò dietro la cattedra e aprì il registro di classe. I suoi capelli bianchi riflettevano la luce che penetrava la finestra e le iridi grigie veleggiavano sulla classe. - Buongiorno a tutti - salutò la classe, che rispose al saluto, alzandosi in piedi. - Guardate un po' chi ci onora della sua presenza oggi! La signorina Chiaretti! - esclamò con falso entusiasmo mentre sorrideva, mostrando i denti giallognoli. Quello era il professore di storia e filosofia, nemico naturale di tutti i ragazzi. Lo rifuggivano anche senza che lo conoscessero. Gli studenti lo capivano a pelle che dovevano stargli lontano, gli allarmi interni ululavano come ambulanze appena lui era nelle vicinanze. Antipatico fino all'ultima cellula e soprattutto pericoloso. Vale si sforzò di sorridere gentilmente, nonostante la voglia di pregarlo di onorare uno psichiatra della sua presenza le premesse sulla lingua. Rispondere a tono sarebbe stato controproducente e comunque non era da lei. - Fatto buone vacanze tra le selve germaniche? - domandò, annotando un assente sul registro. Quando ebbe finito di scrivere, premette le estremità della sua stilografica tra gli indici e la guardò sorridendo in quel modo terrificante. - Si professore, grazie – rispose Vale, abbassando lo sguardo. - Mi auguro che abbia recuperato il programma di questo mese Chiaretti, altrimenti potrebbe risultare molto problematico. Siete in quinto e quest'anno avete la maturità; le assenze devono essere limitatissime e la condotta irreprensibile, almeno per chi aspira al massimo. Di certo, un'alunna che si prende quasi un mese di ferie non è avvantaggiata e di sicuro non sarà aiutata agli orali, ma confido che tu lo sappia – terminò, bagnandosi appena le labbra con la lingua, assaporando tutto il potere che aveva. Se voleva rassicurarla o motivarla, quello non era certo il modo migliore per farlo. - Recupererò il programma strada facendo – rispose Valentina, sintetica. Le stava venendo l'ansia. - Lo spero per te, Chiaretti. Veder cadere una mente come la tua sarebbe un peccato, oltre che tristemente patetico – le disse, con aria di superiorità. Cavoli se non le piaceva quel professore; quasi si era dimenticata di quanto potesse essere sgradevole.
Si rifugiò nel suo portone alle due e mezza passate, un po' sudata per il sole già troppo caldo, stanchissima, e spossata già dallo scenario che avrebbe trovato in casa. Si stampò un'espressione imperscrutabile sul viso ed entrò nell'ascensore, sbuffando. Non aveva voglia di rincasare. Uscì dalla cabina e aprì la porta con le chiavi. Sorprendentemente, quando entrò in cucina, non trovò la desolazione che si aspettava: sua madre si era alzata dal letto, aveva apparecchiato ed ora di spalle ad armeggiare ai fornelli, sua sorella giocava tranquillamente sul divano sbatacchiando due Barbie mutilate e la televisione era accesa. C'era un clima caldo.
- Sono tornata... - la voce di Valentina le giunse alle orecchie suonando annoiata, appena vibrante. Gloria sussultò e fece traboccare malamente sui fornelli il contenuto del mestolo appena estratto dalla pentola. Si schiacciò le labbra e si dipinse in viso un'espressione rilassata e distaccata insieme. Sorrise appena a sua figlia, che guardava lo scenario ordinato della cucina con viso sorpreso, sospettoso. Le fece terribilmente male. Sicuramente non se lo aspettava. Riflettendo, Gloria aveva capito che sua figlia aveva pur sempre diciassette anni e non poteva scaricarle addosso tanto dolore. Si sarebbe dovuta allontanare da lei gradualmente, in modo da procurarle meno sofferenza possibile. - Ciao, come è andata a scuola? - si finse disinteressata, ma le interessava parecchio. Valentina fece scivolare lo zaino su un braccio e lo posò a terra, mantenendo la sua espressione scettica. - Bene – rispose telegrafica. - Vuoi che continui io? - Andò subito al sodo. Tipico di lei quando non voleva parlare o aveva paura. In quel caso non seppe cosa scegliere, ma entrambe le possibilità erano giustificabili. - No, siediti – le disse, continuando ad armeggiare con il mestolo e i piatti impilati accanto alla pentola piena di pasta. Le avrebbe chiesto molto altro, come era andata la scuola, come si sentiva, chi aveva incontrato mentre era stata via. Se avesse potuto avrebbe anche scavato dentro la sua anima, ma doveva esserle vicina solo lo stretto necessario. Non poteva metterla in pericolo. Alle sue spalle sentì dei passi e una sedia strisciare sul pavimento, segno che Valentina aveva obbedito in silenzio. Anche quel silenzio le fece male.
- E quindi? - - E quindi il professore mi ha ricordato che sono in quinto e che sono molto svantaggiata rispetto agli altri. Praticamente mi ha detto in modo implicito che non mi renderà la vita facile – terminò Valentina con un sospiro scoraggiato. Samuel imbronciò le labbra, scrutandola. - E tua madre invece? - chiese, cambiando argomento. Lei sentì il cuore collassare su se stesso. - Altra bella gatta da pelare... - piegò le gambe e le circondò con le braccia - Non la capisco più, sembra un'altra donna. Ieri tornata a casa mi aspettavo di trovare lo stesso scenario di cui ti ho parlato, invece ho trovato tutto in ordine, stava perfino cucinando. Mi ha salutata, anche se era molto distaccata. Non so più cosa devo aspettarmi ormai... non capisco più niente – terminò con un tono di voce molto simile ad un sussurro. Posò il mento sulle ginocchia e osservò le macchine scorrere sulla strada di fronte a lei. I lampioni erano già accesi, ma la luce del pomeriggio inoltrato illuminava ancora la città. Il calore del sole riscaldava il ferro della panchina su cui erano seduti. - Mi dispiace, Vale – Samuel spezzò il silenzio, mortificato. Lei sorrise appena e alzò le spalle. Che strano: un mese prima non avrebbe mai mostrato la sua tristezza a qualcuno così deliberatamente, invece ora si concedeva quel momento di debolezza come se fosse normale. Glielo aveva insegnato Bill... Bill. Proprio lui. La tristezza, la sensazione di debolezza fu repentinamente sostituita da una dolorosa rabbia. La parola “passatempo” dentro di lei era come una grossa palla meccanica. - Posso abbracciarti? - chiese il suo amico premurosamente. Lei lo guardò. - No – rispose senza pensarci nemmeno, poi ritornò a fissare le auto che scorrevano. Il suo tono non fu aggressivo, anzi. Quel no fu appena mormorato. - Sai forse devi risolvere questo tuo problema – disse il ragazzo subito dopo, guardando in avanti. Lei aggrottò la fronte e si voltò verso di lui, dubbiosa. - Che vuoi dire? - chiese, mettendosi già sulla difensiva. “Problema”... che parola orribile. - Voglio dire che dovresti cercare di superare un po' di blocchi che hai – rispose schietto, come al solito. Era sempre diretto Samuel, a volte troppo. Lei si aggrottò. - Quali blocchi? - chiese con voce acuta. Sapeva di cosa Samuel stava parlando, ma una parte di sé si rifiutava categoricamente di richiamare alla memoria i ricordi. Lui voltò la testa verso di lei e sfilò le mani dalle tasche dei jeans. Sembrava quasi... offeso. - Non puoi continuare a non farti toccare per sempre. Mi conosci da parecchio, non ho mai cattive intenzioni credo che tu lo sappia. Dovresti affrontare un po' di fantasmi del passato – spiegò Samuel con una calma che la fece innervosire. Fece una smorfia che doveva esprimere indignazione, ma ciò che venne fuori fu solo l'immagine di un animo ferito. - E' una questione che non ti riguarda – rispose cercando in tutti i modi di mantenere la calma, le mani che cominciavano a tremare. Rimandare, rimandare, solo rimandare. - Io invece penso di si - la contraddisse il ragazzo, convinto - Voglio aiutarti, Vale perchè ti... - esitò un attimo, abbassando lo sguardo – ...perchè ti voglio molto bene e odio vederti soffrire così - Valentina si passò una mano tra i capelli, serrando gli occhi. Si alzò, spazientita, e raccolse dalla panca verde la sua tracolla. - E' meglio che vada – disse sistemando la borsa sulla spalla. Samuel non capiva, lui ignorava ciò che lei sentiva. Non poteva sapere cosa le era successo. Con sua sorpresa anche l'amico si alzò e si piazzò di fronte a lei, inchiodandola con i suoi severi occhi turchini. - Sai solo scappare come una bambina. Lo fai con tutti: con me, con tua madre, con tuo padre, scappi perfino da te stessa. Vuoi deciderti a crescere? - Quelle parole... quanto le facevano male. Le facevano maledettamente male, perchè sentiva che non erano vere. Non quella volta almeno. Lei era consapevole di ciò che provava: non era da Samuel che voleva essere abbracciata. Rimase a fissare il ragazzo di fronte a lei sostenendo il suo sguardo senza cedere di un pollice. Non sarebbe scappata. - Solo perchè hai scoperto cosa mi è successo non ti puoi permettere di giudicare me e le mie battaglie. Combatto ogni giorno più di quanto tu possa immaginare e il fatto che non voglia essere toccata da te, non... non vuol dire niente – gli sibilò in faccia, decisa come lo era stata poche volte nella sua vita - Ho solo sbagliato – terminò socchiudendo gli occhi. Poi infilò il cellulare che aveva in mano nella tasca anteriore della sua borsa e lo superò, lasciandolo di sasso ad assimilare una triste verità.
Georg uscì dalla sua stanza e si chiuse la porta alle spalle. Diede un'occhiata al piano: non c'era nessuno. Meglio così, avrebbe potuto concentrarsi su quello che doveva fare e avrebbe potuto scegliere la morte di cui morire. Attraversò il corridoio a braccia incrociate e testa bassa, respirando pesantemente contro i capelli piovuti davanti al viso. Arrivato davanti alla stanza di Bill, respirò a fondo e bussò. Dopo pochi secondi la figura sottile del vocalist spuntò sulla soglia, un'espressione rilassata dipinta sul viso. Solo in quel frangente Georg sembrò valutare attentamente le conseguenze di quello che sarebbe successo di lì a pochi minuti. Bill si sarebbe arrabbiato sul serio: avrebbero litigato, non gli avrebbe parlato per un bel pezzo; si sarebbe conseguentemente spezzata l'armonia del gruppo e questo avrebbe avuto delle ripercussioni su concerti, interviste, sessioni di autografi... Si rese conto si essere terrorizzato. - Georg? - Bill lo stava guardando accigliato. La sua faccia tutto sommato serena, rendeva tutto più difficile. - Posso entrare? - Bill sembrò un momento colpito dalla sua serietà, ma subito si scostò per lasciarlo passare. Georg entrò e si posizionò in piedi al centro della stanza. Mentre si girò verso il suo compagno, sentì la porta chiudersi. - Devo dirti una cosa – esordì. La voce bassa e quasi cavernosa, accostata al suo nervosismo aveva un suono grottesco, poco piacevole. Bill si appoggiò con la schiena alla parete, scrutandolo. - Dalla tua faccia sembra che ti abbiano costretto ad usare il deodorante, Georg – scherzò con un sorriso ilare. - Magari fosse questo... - mormorò affranto; - Si tratta di... - fece una pausa per prendere fiato – Valentina – Appena soffiò fuori quel nome, il sorriso di Bill si spense. Le spalle s'irrigidirono, i pugni si serrarono e braccia e gambe s'incrociarono. Si mise sulla difensiva, incapace di nascondere la fitta di dolore che lo aveva colpito all'istante. Vederlo in quello stato gli mise addosso una strana sensazione. Bill, sempre pieno di vita fino a sfiorare l'iperattivo, l'egocentrico a cui piaceva stare in piedi al centro della stanza quando tutti gli altri erano seduti, quello capace di scherzare anche su cose serie adesso se ne stava rigido come un tronco appoggiato alla parete, senza nessunissima voglia di scherzare. - Che ne sai tu di Valentina? - sibilò, molto vicino al ringhiare. Il suo viso era pieno di risentimento. - Sicuramente meno di te, ma sai... - si bloccò, scoprendo di non avere il coraggio. Che doveva dire? Optò per la verità, nuda e cruda. - Di lei niente, ma so cosa è successo all'aeroporto – si decise ad ammettere, trattenendo il fiato poco dopo. Mentre guardava una sedia alla sua destra, si aspettava una qualche reazione del ragazzo, un urlo, un'esclamazione, invece Bill non si scompose. Rivolse di nuovo a lui il suo sguardo e lo trovò rigido, impenetrabile, ma ancora con il pieno controllo di se. - Anche io so cosa è successo all'aeroporto. Se permetti, l'ho vissuta io – sentenziò, la voce bassa e roca: un tono molto poco consono alla voce stridula di Bill. Gli occhi erano assottigliati e lo guardava come se stesse per assalirlo da un momento all'altro. - No, non capisci. Io so perchè ti ha... perchè si è comportata in quel modo. Non è impazzita, c'è una ragione – spiegò, gesticolando appena con le mani. Sperava in una qualche reazione di Bill, ma fu scoraggiante la sua immobilità. - Cioè? - chiese e quella volta la voce fu appena più rotta, tradita da una qualche emozione. Georg sentì (inspiegabilmente) animarsi una debole speranza dentro di lui. Non pensava solo all'armonia del gruppo, ma anche alla sua felicità. Bill dopotutto, era suo amico. - David le ha detto delle bugie su di te. Le ha detto che tu ci hai raccontato di lei definendola come un passatempo, una come tante altre. Le ha detto che non è alla tua altezza, o qualcosa del genere. L'ho sentito io stesso – L'impenetrabilità di Bill cedette: impallidì e sgranò gli occhi. L'orrore puro s'impossessò del suo volto. - E come ha fatto a parlarle? Non l'ha mai nemmeno vista... - all'istante bloccò le sue elucubrazioni e si immobilizzò. Fissò lo sguardo su Georg, che invece conosceva già la riposta. - Il cellulare – mormorarono all'unisono, ma con voci diverse: Georg rassegnato e pacato, Bill sorpreso e pieno d'orrore. Per una volta gli riuscì difficile mettersi nei suoi panni. L'universo del suo amico era Bill-centrico, per cui era facile misurare le cose con il suo metro, ovvero i suoi desideri. Ma lo stesso Bill da tutti conosciuto, che si preoccupava dello stato d'animo, dei sentimenti di qualcuno che non fosse lui (o suo fratello) era davvero... impensabile. No, non impensabile: nuovo era la parola giusta. - Ma non ha senso! - esclamò il moro sollevandosi finalmente dalla parete e lasciando la sua maschera impenetrabile cedere sotto il peso delle sue emozioni. Prese a camminare per la stanza con fare irrequieto. Ecco la parte più difficile che arrivava... - David non sapeva di... me... e lei. - la voce gli tremò appena sulle ultime parole della frase – Ammesso che ci abbia parlato non avrebbe avuto ragione di mostrarsi così ostile. Al massimo l'avrebbe liquidata velocemente come fa con le ragazze di Tom, invece ha infierito... di proposito - “Diglielo. Diglielo senza troppi giri di parole, non fare il codardo” - Bill – lo interruppe prima che la sua paura gli impedisse di tirarsi indietro – Gliel'ho detto io - Il ragazzo s'impietrì. Fissò lo sguardo sul pavimento, gli si bloccarono le mani, irrigidite lungo i fianchi. - C-cosa? - chiese con voce stridula, gli occhi ridotti a due fessure. Georg sospirò scoraggiato: quella domanda era il preludio della sua furia. La paura delle conseguenze gli attanagliò i polmoni, anche se non aveva mai sperato in una reazione comprensiva. Dall'inizio aveva saputo che Bill era troppo legato. Troppo innamorato. - Gliel'ho detto io – confessò di nuovo, guardando la ceramica del pavimento. Bill boccheggiò un paio di volte: sembrava paralizzato. Voltò la testa nella sua direzione solo qualche secondo dopo. Seguì un silenzio pesante. La tensione si respirava. Si guardarono a lungo, nessuno dei due intenzionato a rompere quel delicatissimo equilibrio che si era creato. Sembravano due statue in bilico su un precipizio. - Perchè? - fu tutto quello che soffiò Bill, dopo un po'. Tremava. - Perchè mi sono lasciato prendere dai pregiudizi, dalla paura. Quella ragazza sembrava così... diversa che ho creduto che stesse recitando una parte per farti cadere... in una trappola, non so nemmeno io. Mi sembrava troppo diversa dalle ragazze che conosciamo noi solitamente. E poi a pelle mi è stata subito antipatica, con quei suoi sorrisi, il suo modo di guardarci come se fossimo marziani... – - Quindi... l'hai fatto solo per... una stupida soddisfazione personale! – lo interruppe Bill scandalizzato, guardandolo come se lo volesse davvero incenerire. - No, ho avuto solo paura per... - provò a spiegare. - Io non ho bisogno di una balia, hai capito?! Decido io le persone da frequentare! - gridò stringendo i pugni, le nocche bianche. Georg si sentì attaccato e arrabbiato, tutta la calma e la preoccupazione precedenti svanirono in un soffio. - Tu non hai bisogno di una balia? Quella tizia invece si, vero? Con quei suoi sguardi pieni di riconoscenza, quegli occhietti grandi... - ribatté, innervosendosi al solo pensiero. Quel pomeriggio in cui Valentina assistette alle loro prove lui non era stato affatto tranquillo, si sentiva a disagio con quello sguardo strano puntato su di loro. Infatti ricordava di non essere stato molto gentile. - Lei non aveva bisogno di nessuna balia, io volevo starle vicino! - gridò, indicandosi con l'indice - Io mi ero affezionato, io l'ho voluta accanto a me, non il contrario! Per la prima volta ho incontrato una persona che non conosceva Bill Kaulitz dei Tokio Hotel, una persona vera. E Georg, io non accetto che uno dei miei due migliori amici me l'abbia strappata dalle mani. Non posso accettarlo - Non seppe cosa ribattere: rimase impietrito dalle sue parole. Solo una triste verità emerse nella sua mente: si era comportato da vero pezzo di merda. Non aveva giustificazioni. - Quindi Georg ti do una dritta: fai quello che cazzo ti pare con la tua vita, ma non entrare, ripeto, non entrare nella mia! - concluse voltandosi, dopo un ultimo sguardo furente. Poche volte Bill era stato così deciso nella sua vita. Non ricordava nemmeno l'ultima volta in cui si era alterato in quel modo. - Vai via – lo sentì dire, ancora di spalle. Sentì una fitta da qualche parte in fondo allo stomaco. - Bill... - - No. Lasciami solo – gli disse con voce perentoria. Da dietro poteva vedere la schiena ancora rigida. Si allontanò e uscì dalla stanza, badando a fare meno rumore possibile con le scarpe. Che cazzo di casino aveva combinato.
La porta si chiuse, rimase da solo. Si sentiva arrabbiato, ma i sentimenti più grandi in quel momento, i più dolorosi erano la frustrazione e la delusione. Infilò le cuffie nelle orecchie nel tentativo disperato di calmarsi e lasciar scemare la rabbia. Si gettò sul letto, mentre White Flag di Dido rimbombava a volume massimo. Non se lo sarebbe mai aspettato. Non da Georg. Da David si, quell'uomo era come un mantra velenoso che faceva di tutto per guadagnare il più possibile, anche a costo di legarli con le catene ai palchi, anche sacrificando la loro vita privata. Ma Georg... Georg era suo amico. Non pensava che gli avrebbe fatto male volontariamente. Più ci pensava e più non riusciva ad accettarlo. E Valentina... strinse gli occhi e si morse le labbra al solo pensiero. Chissà come doveva essersi sentita. Forse più o meno come si sentiva lui in quel momento, cioè di merda. E' proprio vero che le cose non si capiscono se non si provano sulla pelle. E lui capiva finalmente lei e i suoi comportamenti, anche a distanza. Il sapore amaro del tradimento in bocca, la ricerca della solitudine, la chiusura in se stessi. Finalmente dava loro un senso. Quanto gli mancava. Ogni volta in cui era da solo, mai si concedeva di pensare a lei e ai suoi sorrisi, cercava sempre di tutelarsi dal dolore. Invece quella volta gli fu impossibile. Ci pensò, ci pensò e ci pensò ancora, fino a ricordare ogni più piccolo particolare di lei, dai suoi pregi fino ai difetti che lo facevano tanto innervosire, ma che in qualche modo contribuivano al desiderio di vederla di nuovo. La sua risata rara e per questo così piacevole da sentire; il suo sorriso sempre vagamente malinconico; i suoi occhi smarriti poco prima che lo baciasse, le sue labbra calde e timorose, la pelle del suo zigomo. Serrò le palpebre e la mascella, sentendo il cuore comprimersi. Le sue lacrime, le sue paure. Quel modo bizzarro che aveva di reagire alle situazioni imbarazzanti esplorando con gli occhi il pavimento, la ciocca di capelli che sfuggiva sempre al nodo in cui li avvolgeva. I suoi movimenti fulminei quando le si avvicinava, la prima cosa che aveva riconosciuto in lei quando l'aveva conosciuta meglio. Vide tutto chiaramente. Tutti i ricordi erano limpidi e affilati, affondavano impietosi, incuranti. Cosa avrebbe dato pur di averla ancora vicino. Lei con tutte le sue turbe mentali aggiunte, senza eccezioni. Sorrise, poggiandosi su un fianco sul materasso morbido. Tom aveva ragione dall'inizio. Continuando a sorridere ad occhi chiusi, si scoprì tristemente... innamorato.
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