| Mega capitolo, solo perchè voglio andare avanti e ho fretta di finire.
Capitolo 5.
Bill teneva il telefono con una mano, mentre l’altra era placidamente abbandonata sul letto. - Allora ci hai parlato... – meditò Tom dall’altra parte del cellulare. Non sembrava molto entusiasta. - Si, due giorni fa. Mi ha detto che si è ripresa e si vedeva anche dal viso che stava meglio – approvò con interesse. - E... com’è? - chiese il fratello curioso. Bill ci pensò un attimo: com’era? - Sembra simpatica, – decise alla fine – ma ci ho parlato poco. Mi ha stupito il fatto che... beh sembrava che non fosse successo niente, parlava abbastanza tranquillamente. Tutto rimosso, cancellato – disse agitando una mano. Suo fratello sospirò. - Bill, non tutti sono come te che rimani a strillare tre giorni per una doppia punta. Si va avanti, si supera. C’è chi lo fa più facilmente e chi ha bisogno di frignare come un poppante per ore – Bill increspò il viso in un’espressione ammirata e dilatò le palpebre. - Ma che perle di saggezza oggi Tom, hai fatto colazione con il metadone? Io strillerò come un poppante, ma almeno non guardo di nascosto le puntate di Hanna Montana per... “scaricare la tensione” – lo provocò con un sorriso furbo e avvenne una cosa che avveniva con la stessa frequenza di un’eclissi: Tom tacque. Aveva vinto. - Tom stai avendo una visione mistica? – chiese alla fine beffardo, dato che suo fratello sembrava improvvisamente ammutolito. - No, sto meditando se ucciderti pestandoti a sangue o se lasciarti colare a picco da un grattacielo di sessanta piani – rispose con un candido sorriso intuibile dalla voce. - Posso scegliere? – domandò con voce innocente, sbattendo le ciglia. - No – grugnì il fratello – Stavi dicendo? - - Stavo dicendo che mi è sembrato strano perchè io ho visto la faccia sconvolta che ha fatto. Allora le opzioni sono due: o è caduta dalle scale e ha preso una botta in testa, oppure è brava a fingere - - La possibilità che sia caduta dalle scale è plausibile – Bill sbuffò, annoiato dalla sua incapacità di intrattenere una conversazione seria. - Tom è una cosa seria – lo avvertì con voce decisa. - Seria? – ripeté Tom un po’ spiazzato – Bill stiamo parlando di una sconosciuta, una con cui di norma non dovresti nemmeno parlare. Anzi per la verità non dovresti parlare proprio, fresco fresco di ferri medici come sei – Bill ridacchiò. Ma si, in fondo suo fratello aveva ragione. Doveva perdere l’abitudine di farsi i cazzi degli altri, forse quella era la volta buona per riuscirci. - Si, hai ragione – concordò ridacchiando e decise di far morire l’argomento – Allora, lì com’è? Ti trovi bene? – s’informò mostrando genuino entusiasmo. - Guarda che non è niente di che, l’unica cosa apprezzabile sono le nuove segretarie di David, due stangone bionde decisamente apprezzabili. Mi dispiace quasi che tu non possa vederle – rispose Tom, con tono concitato. - Non ti preoccupare, tanto il medico non me l’avrebbe permesso. Di regola non dovrei nemmeno parlare tanto, per cui sono a cavallo - - Oh, ma con loro le parole non servono... – Tom ammiccò. Bill riuscì a sentire il ghigno malefico del fratello dall’altra parte del cellulare e alzò gli occhi al cielo, ringraziando mentalmente di non essere come il fratello. - Ora vado Bill – lo avvertì Tom più serio - Mi stanno chiamando per la conferenza. Allora hai capito quello che dirò alla stampa? – - Si, va bene – farfugliò distrattamente disegnando con l’indice strane figure sulle lenzuola. - Ah, Bill guarda che questa settimana farò un salto a Lipsia a trovare mamma, ritarderò di un paio di giorni – disse sbrigativo, e senza dare il tempo al fratello di rispondere, chiuse. Bill si lasciò cadere a peso morto sul letto, sbuffando rumorosamente. Si annoiava da morire e i camerieri non erano di certo una buona compagnia. Se solo Tom fosse stato lì, avrebbero combinato qualcosa insieme. Anche solo parlare, in quel loro modo crudele di dimostrarsi affetto sarebbe andato bene, ma lui non c’era. Sarebbe stato via per dare conferenze stampa insieme a Georg e Gustav e aggiornare il mondo sulle sue condizioni di salute. Poi... illuminazione. Perchè non fare semplicemente il suo lavoro? Si sollevò dal letto e prese carta e penna.
- Sai di preciso quando ritornerai? - La madre le fece la stessa domanda che le aveva posto Samuel pochi minuti prima sempre per telefono. - Ma dai sono appena arrivata, non lo so ancora. Io non me ne voglio andare, quì sto troppo bene, c’è pace. E poi c’è una biblioteca bellissima – Le sue labbra si distesero in un mezzo sorrisetto e quasi istintivamente rivolse il suo sguardo verso la finestra della villa accanto. Era stata sincera, in quel posto c’era pace davvero. Suo cugino compariva nei suoi sonni meno frequentemente e riusciva anche dormire di più. - Giusto. Ma sai, qui manchi a tutti – le disse la madre con voce tutt’altro che triste. Vale sorvolò e prendendo il coraggio a due mani e facendo un respiro profondo, decise che era arrivato il momento di affrontare un argomento importante. - Mamma ma tu hai saputo di Jasmine? – buttò fuori tutto in una volta. La risposta non tardò ad arrivare. - Si Vale, l’ho saputo – rispose Gloria con tono indifferente. Di solito quando aveva notizie di quel genere sospirava e colmava la tristezza con un sorriso amaro, invece quella volta sembrava molto tranquilla. - E come l’hai presa? – indagò accigliata. - Di certo non ho fatto i salti di gioia... ma lui si è ricostruito una vita, io devo rispettare certe scelte – Ma si era persa qualche passaggio? Sua madre le aveva parlato con una tranquillità e una pacatezza sorprendenti. Forse era la sua impressione, ma sentiva una nuova forza, una nuova allegria che traspariva anche attraverso le parole dal cellulare. Non era niente di grave, decise alla fine. Se sua madre era serena, poteva solo esserne felice - Va bene mamma. Salutami tutti lì – disse senza indagare. Un ultimo saluto e chiuse. Poi posò il telefono accanto a lei. Era praticamente sdraiata vicino alla finestra, sull’enorme tappeto. Portava avanti e indietro alternatamente i piedi scalzi, avvolti solo da un paio di calzini di spugna. I capelli disordinati appena lavati erano incastrati sulla testa da un pennello, pescato all’ultimo momento dal portapenne sulla scrivania dello zio (scrivania su cui le aveva caldamente raccomandato di non mettere le mani per nessun motivo al mondo). Riprese a leggere il libro che aveva interrotto per rispondere al cellulare e dondolò di nuovo i piedi.
Bill si affacciò per caso annoiato alla finestra. Non era riuscito a scrivere nulla, non aveva ispirazione quel giorno. Si accese una sigaretta, ma prima ancora di aspirare si ricordò che non poteva assolutamente fumare. “Che palle” pensò sbuffando e la gettò, lasciando che cascasse sui mattoni del giardino. I suoi occhi cercarono subito quella sigaretta sul pavimento quando ricordò che David perlustrava la casa durante le sue rade visite, in cerca di qualcosa che gli desse il pretesto di urlargli contro che doveva salvaguardare la sua gola, la sua salute, le corde vocali eccetera, eccetera... Uscì velocemente dalla sua camera e si fiondò in corridoio. Lo percorse per un breve tratto e velocemente mise una mano sulla ringhiera della scala che portava al piano di sotto. Fece forza sulle braccia e con una quasi giravolta si catapultò attraverso i gradini, scendendoli a coppia. Saltò gli ultimi due scalini e per poco non finì addosso a Kaya, la cameriera di passaggio nonché la più anziana, mentre trasportava un cestino pieno di bucato fresco. - Oh, santo cielo Bill! Vai piano! – lo rimproverò in tono confidenziale. Non per niente, li aveva visti crescere, lui e suo fratello. Il ragazzo si voltò all’improvviso, notando la donna barcollante. - Scusa Kay, andavo di fretta - rispose rallentando, intenerendola con uno dei suoi sorrisi innocenti a cui lei non aveva mai, mai saputo resistere. Lo sapeva, e ne approfittava sempre. La donna alzò gli occhi al cielo e sparì nella camera adibita a riordinare i panni. Prima di uscire, Bill fissò il suo riflesso nello specchio a muro accanto alla porta. Vide i suoi capelli arruffati e disordinati e il suo abbigliamento semplice, fatto solo da un paio di jeans chiari e una maglietta bianca. Certo, molto diverso dal suo stile abituale quando appariva in televisione, impreziosito da anelli, collane, smalto nero e pettinatura eccentrica. E, cosa peggiore, si trovava un po’ più tondo, segno inequivocabile che le gommose e le varie schifezze che ingurgitava facevano effetto anche a lui. Uscì, scacciando quei pensieri. Scese la piccola scalinata e svoltò subito a sinistra, dirigendosi verso la prova schiacciante del suo errore. Dopo pochi passi infatti, eccola li: fumante e ancora accesa. Bill schiacciò la punta con il piede sopprimendo il desiderio di nicotina e la raccolse con due dita prendendola dal filtro. Si guardò intorno cercando un posto sicuro dove buttarla e optò per il vaso che stava davanti al muretto bianco. La schiacciò contro la affondò nel terreno, poi si sfregò poi le mani per rimuovere gli ultimi residui di terra. Sollevò lo sguardo sentendosi soddisfatto e i suoi occhi inevitabilmente si posarono sulla vetrata aperta del balcone di fronte. Nonostante il sole del primo pomeriggio, riuscì a scorgere una figura distesa. Assottigliò la vista e la riconobbe. Valentina stava leggendo un libro, placidamente distesa sul tappeto che si poteva intravedere. Forse poteva parlarci. Si stava annoiando da morire e qualcuno della sua età con cui conversare era l’ideale. No, doveva farsi i fatti suoi, non doveva correre rischi. E se quella ragazza fosse stata una giornalista segreta camuffata da adolescente che in realtà non aspettava altro che attaccare bottone con lui, facendo finta di non conoscerlo minimamente? E se fosse andata a spifferare qualcosa alla stampa? No grazie. Si girò sui tacchi, intenzionatissimo a ritornare dentro e a farsi una bella partita alla playstation. - Non mordo, sai? – la sentì urlare serena, alle sue spalle. Ecco, sicuramente si era accorta che la stava fissando come un imbecille e mossa a compassione gli aveva parlato. Si mascherò dietro la sua aria sicura e si lasciò scappare un sorriso divertito. Si girò e le sorrise ancora. - Bene, mi stavo quasi preoccupando – disse ostentando sicurezza. Lei rise, poi con un movimento veloce si mise in piedi, non prima di aver chiuso il suo libro. Uscì dalla vetrata dirigendosi verso la ringhiera del balcone sopraelevato. Bill vide la sua maglia sollevarsi dolcemente ad ogni passo, scoprendo in modo quasi delizioso la pelle dorata dei suoi fianchi un po’ rotondi, ma senza essere sgradevoli, anzi. E lui era un ragazzo, per quanto potesse essere dolce e romantico, non era immune alla bellezza. Ingoiò e si concentrò su altro. - Ehm... mi dici di che parla il libro che leggevi? – chiese evitando di guardarla negli occhi. Lei gli fece cenno con la mano di aspettare e con un salto scavalcò il balcone, atterrando sul pavimento incandescente. Finalmente si decise ad aggiustare quella maglia e subito si sentì sollevato. - Allora? – la incitò a rispondere, quasi fosse interessato. - Mi esercitavo a leggere qualcosa in tedesco, ho preso il primo libro che mi è capitato sotto mano – lo informò placida. Allora aveva capito bene, non era tedesca. - E cioè? – - E cioè l’Amleto di Shakespeare. – rispose, come se fosse una cosa ovvia – Per la verità però, ho capito poco – Lui sollevò un sopracciglio, molto, molto scettico. - E dopo averlo letto prenderai un antidepressivo? – le chiese ilare. - Veramente pensavo di rivolgermi direttamente allo psichiatra, magari mi aiuta di più – sorrise lei. Ah ma allora diceva sul serio. Però, era davvero simpatica, pensò mentre rideva e mentre lei lo seguiva. E lui era quello che non doveva nemmeno parlarle. - Allora... – ricominciò poi smettendo di ridere – Sei qui in vacanza? – s’informò guardandola. Lei scosse la testa, facendo cenno di “no”. - No, i miei zii mi ospitano, ma non è una vacanza. E’ più appropriato considerarla una... fuga - ammise con un sorriso più tranquillo mentre dondolava le gambe penzolanti ai lati del muretto. Bill piegò la testa di lato. Le avrebbe chiesto perchè era fuggita, ma non indagò. Chissà perchè, collegò il motivo della sua “fuga” all’episodio a cui aveva assistito il primo pomeriggio di pioggia poco più di una settimana prima. - Ma non sei tedesca, vero? – le chiese alla fine, notando che era calato di nuovo quel silenzio imbarazzante. - No, sono italiana. Conosco il tedesco perchè ho vissuto in Germania qualche anno, poi sono ritornata in Italia – Bill inarcò verso il basso gli angoli della bocca. - Però, dei grossi cambiamenti – constatò sinceramente. Vale scrollò le spalle, come per dire che non avevano importanza. - E tu invece? Lavori? La mia governante mi ha detto che sei uno importante - Lui sorrise, meravigliato e aggrottò le sopracciglia. - Hai chiesto di me alla tua governante? – domandò ridacchiando. Lei abbassò gli occhi di colpo e un velo di rossore affiorò sulle sue guance. - No, per la verità... ecco... è stata Anya a parlarmene senza che chiedessi niente, sai è una gran pettegola e... E comunque mi sembra una cosa abbastanza legittima, dopotutto – povera, si stava impappinando. Gli faceva tenerezza vederla così. - Rilassati, scherzavo. Io sono... – si bloccò, pensando che forse doveva dirle la verità. Dopotutto raggirarla non sarebbe stato giusto. Però se le avesse detto che in realtà era un cantante famoso, avrebbe potuto mutare ai suoi occhi e non l’avrebbe guardato come lo guardava ora, magari avrebbe avuto delle riserve. No, non poteva permetterlo. - Beh... diciamo che lavoro...ma non sono esattamente una persona importante – disse, evanescente. - Ah – disse soltanto Valentina. Non sembrava molto convinta, ma sembrava anche non darci peso. - Ho saputo anche che sei malato... – Cavolo, lo stava mettendo in difficoltà. Annuì, arricciando le labbra e sollevando le sopracciglia, stando attento a non guardarla negli occhi. Di certo avrebbe preferito che non le avessero rivelato nulla, ma doveva ritenersi fortunato che la governante non le avesse spifferato chi era in realtà (una famosa rock star di fama mondiale, adulata e venerata da schiene di donne di ogni età e copiosi gruppi di esemplari di sesso maschile). - Si, ho avuto un problema alla gola e mi hanno dovuto operare – disse senza approfondire troppo il discorso. Vale annuì, tranquillamente, senza chiedergli nient’altro. Si, decise che quella ragazza gli piaceva: era discreta, ma curiosa al punto giusto e anche molto carina. Rimasero ancora a chiacchierare insieme per circa tre ore. Il tempo scorse senza che loro potessero rendersene conto, parlando di cose senza senso apparente. Bill notò che appena si cominciava a parlare di lei e della sua famiglia, Valentina abbassava gli occhi e glissava, o non rispondeva proprio e lui era costretto a cambiare argomento. Per un momento pensò che l’ipotesi della giornalista in cerca di scoop mascherata dietro il ruolo di ragazzina non fosse poi così inverosimile, ma ad una consueta domanda (“Hai un ragazzo?”), Vale aveva tremato un momento scossa da un brivido e aveva risposto con aggressività e lui aveva capito che ci doveva essere per forza qualcosa di più.
La ragazza guardò l’orologio da polso e spalancò la bocca. - Accidenti, quanto tempo siamo rimasti qui? Tre ore – si meravigliò fissando quei numeri digitali. Bill alzò le sopracciglia, sorpreso anche lui. - Però... – fece colpito - Comunque mi ha fatto bene. Non ho nemmeno sentito il bisogno di fumare e se mi scoprissero mi affetterebbero – continuò sorridendo. Il suo era un modo molto, molto implicito per ringraziarla, di solito non dava molta confidenza alle ragazze. - Già, la gola... – ricordò Valentina. Spostò gli occhi dall’orologio a lui e gli regalò un sorriso dolce, senza scoprire i denti. Mentre alzò la testa una sottile ciocca di capelli scampata al nodo di quello che probabilmente era un pennello scivolò da dietro l’orecchio, carezzandole una guancia rosea. - Ora devo andare – disse un po’ dispiaciuta, mentre ancora si teneva con le dita il display dell’orologio. Si rimise la ciocca a posto dietro l’orecchio, in un gesto d’indifferenza. Lui alzò le mani mostrando indifferenza, ma in realtà era molto dispiaciuto anche lui. - Non c’è problema. Tanto ora verrà da me il dottor Paura per la solita visita e devo ancora prepararmi psicologicamente – rabbrividì al solo pensiero. Le visite con quei medici non erano mai molto piacevoli. Lei rise, rivelando ancora la sua risata argentina e lui ignorò il vago senso di vacuità nel suo stomaco. - Non devi avere una buona opinione di questo medico se gli affibbi soprannomi così carini – constatò la ragazza. - No, in realtà è simpatico, ma ormai lo chiamano tutti così nel nostro ambiente - - D’accordo, allora ti lascio alla tua preparazione... come hai detto? Psicologica – ripetè, inciampando nell’ultima parola. Aveva un accento strano, non molto morbido come quello delle francesi, ma neanche eccessivamente duro e marcato. - Allora ciao – sibilò. Cercava di nasconderlo, ma era un po’ impacciata. - Ciao... – rispose lui ancora sotto l’effetto di delle farfalle nello stomaco. Una specie di peso fra i polmoni, proprio al centro del petto, gli comunicò che non voleva affatto che andasse via. Ma la ragazza lo salutò con un gesto della mano e con un ultimo sorriso e si allontanò, scomparendo dalla sua vista dopo la prima curva del giardino. Sospirò un po’ deluso e mani in tasca e sguardo basso si avviò verso la porta. Non era ancora tardi per quella partita di playstation.
Valentina entrò in casa animata da una piacevole sensazione di serenità. Che bel pomeriggio aveva passato, si era sentita parecchio serena come non si sentiva da mesi, parlando con un ragazzo. La compagnia di Bill era davvero... piacevole. Le dispiaceva solo che fosse scattata e avesse tergiversato quando l’argomento era virato su di lei. Era pazza, decisamente pazza. C’era bisogno che andasse in Germania per stringere amicizia con un ragazzo; un ragazzo parecchio strano e poco comune, per carità, ma pur sempre del sesso opposto. Sfilò il pennello lucido dai suoi capelli, che caddero disordinati e privi di forma sulle spalle e lo posò sul primo mobile capitato a tiro. Urtò qualcuno. - Valentina, torna tra noi! – la ammonì una voce baritonale con una punta di ironia. I suoi occhi si schiantarono sulla figura dello zio, la percorsero viaggiando da uno dei bottoni bianchi della camicia a quadri, all’altezza della pancia sporgente, fino ad arrivare alle spalle larghe, poi al mento liscio e finalmente agli occhi azzurri. Quando arrivò a finalmente a fissare il suo viso aveva il naso completamente all’insù. - Scusami zio, – disse – Per caso hai visto Anja? – Lo zio arricciò di poco le labbra, pensieroso. – No, non mi sembra, mi dispiace. Ma chiedi pure a me – le rispose cortese, quasi non fosse sua nipote ma una dei suoi tanti clienti. Si, era un avvocato lui, anche se ormai era vicino alla pensione. - Dovrei chiederle quando arriva sua figlia. – rispose abituata alla perenne cortesia dello zio – Mi aveva detto che entro oggi sarebbe arrivata da Görne. – L’uomo aprì di poco la bocca, illuminandosi. - Oh, già è vero! Mi ha detto che Jinny sarà qui tra un paio di giorni - - Jinny? – si aggrottò Vale. - Si, si chiama così. Adesso scusami, stavo uscendo. Ci vediamo dopo – la salutò sbrigativamente, prendendo la giacca elegante dall’attaccapanni. Poco dopo la salutò e uscì. Lo sbattere della porta di legno rimbombò nel corridoio. Fantastico, altri due giorni. Aprì il frigorifero nel cucinino, prese il brik di succo di frutta e se ne versò un po’ in un bicchiere blu. Mentre sorseggiava sperò solo che quella Jinny fosse simpatica almeno quanto le raccontasse Anja. Da tanto non vedeva qualche faccia nuova e si convinse sempre di più che quella sera con o senza compagnia sarebbe uscita. Sempre con il bicchiere in mano andò nel salone e si sedette sull’immenso divano ad angolo in pelle, proprio di fronte all’enorme televisione. Incrociò le gambe e la accese, scegliendo un canale qualsiasi. Non voleva davvero guardare la televisione, desiderava solo una compagnia, una voce che non fosse quella della governante o degli zii. O del cane che aveva scoperto si chiamava Elsa. Effettivamente si sentiva parecchio isolata dal mondo, da quando era lì. Era come se un involucro la avvolgesse, la isolasse da tutto ciò che c’era là fuori. E lei voleva uscire da quell’involucro, perchè là fuori non c’erano solo cose brutte. Almeno, credeva. Sperava. Si sdraiò sul divano e fissò nessun punto in particolare, mentre il telegiornale alla tv annunciava il passaggio dalle notizie di cronaca a quelle del mondo dello spettacolo. - Vi informiamo ora riguardo la salute del cantante della band Tokio Hotel. Bill Kaulitz, 18 anni, è stato operato alle corde vocali a Berlino ed è stato obbligato a dieci giorni di silenzio assoluto, scaduti circa una settimana fa. Il loro manager, David Jost, ci aggiorna continuamente sulle sue condizioni di salute e ci ha da poco informato che il celeberrimo vocali ha ora ripreso a parlare e che ogni tre giorni è controllato da uno dei migliori medici della Germania, specializzati in malattie alla faringe e alla laringe. Ci dice inoltre che lo stesso Bill ci tiene a ringraziare tutti i fans che lo sostengono continuamente, che grazie a loro non si sente mai solo e che percepisce la presenza di milioni di cuori vicino a lui. Un grazie a David e auguriamo a Bill, credo di parlare a nome di tutti, una rapida guarigione. Passiamo ora alle altre notizie. Il gruppo Die Fantasticien Fier ha scalato velocemente le classifiche... – e la voce del giornalista si fece sempre più fievole finché Vale non la ascoltò più, anche se precisamente si era persa quando il giornalista aveva cominciato a dire qualcosa su alcuni fans. Non aveva guardato le immagini del servizio, ma si era ritrovata a pensare, sorridendo, a quanto fosse piccolo il mondo. E a quanto quel ragazzo famoso avesse in comune con il suo Bill. “Il mio Bill? Ma ti sei rimbecillita?” Strabuzzò gli occhi e scosse i capelli, scacciando via quei pensieri assolutamente anormali. Una strana sensazione la pervase, una sensazione di leggiadria, di serenità. Quasi felicità, qualcosa che la spingeva a sorridere ogni volta che la mente ricadeva su di lui, a quanto fosse simpatico sul serio. Al fatto che quel sorriso fragile le mettesse serenità, che quegli occhi guizzanti la divertissero Senza rendersene conto, ritrovò con un sorriso ebete stampato sul viso, gli occhi al cielo che ormai vedevano solo le sue fantasie e il ricordo di un rumore lontano che doveva essere un suo sospiro sognante. Si alzò in fretta dal divano e si diede due colpetti sulle guance. - Valentina?! Riprenditi – si disse, rimproverandosi da sola. Lei... non poteva permettersi di ricascarci. L’amore era un’arma, un baratro, un pericoloso burrone dal quale era, e sarebbe sempre stato difficilissimo uscire una volta cascataci. E lei non voleva più cascarci.
Capitolo 6.
Due giorni dopo
All’improvviso si sentì un gran fracasso. Una porta che si chiudeva, il tonfo di qualcosa che cadeva pesantemente sul pavimento. Valentina vide la figura di Anja slacciarsi il grembiule, lanciarlo contro una sedia e correre all’improvviso verso l’ingresso, con un’espressione entusiasta sul viso. Chiuse il libro che stava leggendo (di Anna David, per la cronaca) e accigliata, in tuta e calzini di spugna, si diresse verso l’entrata. Anja abbracciava una ragazza, e una valigia caduta sul pavimento. - Finalmente sei arrivata – disse Anja allontanandosi da lei e sembrava che stesse facendo una proclamazione ufficiale. La sconosciuta sorrideva e guardava quella che probabilmente era la madre. - Hai avuto difficoltà con il viaggio? – le chiese Anja amorevole. - No mamma, nessuna. Liscio come l’olio – Allora era davvero sua madre. Non l’avrebbe detto, data la diversità dei lineamenti. Anja era bionda, piuttosto bassa e tozza anche se con un bel viso dolce. La ragazza invece era diversa: alta e abbastanza sottile, aveva lisci capelli corvini e due occhi neri incastonati in un volto dalla pelle scura e i lineamenti un po’ più marcati rispetto a quelli della madre. La sconosciuta fissò improvvisamente il suo sguardo su di lei, mentre ancora era intenta a rimuginare e la sua espressione si fece a metà tra il sorpreso e l’entusiasta. Lanciò un’occhiata interrogativa alla madre, che annuì, ancora sorridente. Di cosa annuiva, Vale non lo sapeva. La ragazza si diresse a passo svelto verso di lei, tendendole la mano. Era carina, effettivamente. I capelli neri incorniciavano con un carré il suo viso e due grandi cerchi bianchi pendevano dalle sue orecchie. - Tu devi essere la famosa Valentina. Io sono Jinny – si presentò con un sorriso entusiasta. Accidenti, già non le piaceva: quell’aria sempre allegra e irridente stampata nei lineamenti del viso e la confidenza esagerata con cui la trattava la mettevano un po’ a disagio. - Famosa? – ripeté poi e fu inevitabile far ricadere il suo sguardo su Anja. - Si, mia madre mi ha parlato tanto di te. A proposito, ti sei ripresa? – chiese come se la conoscesse da sempre. Ma si era persa qualche passaggio?. - Da cosa esattamente? – chiese spaesata. - Dalla tua malattia. Ho saputo che non sei stata bene – disse come se fosse una cosa ovvia. Quella notizia aveva fatto il giro del mondo più velocemente di un gossip fresco fresco su un personaggio famoso. - Oh! Si, certo, ora sto benissimo – disse cercando di essere cortese. Anja s’intromise, evitando lo sguardo colpevolizzante di Valentina. - Ragazze, andate in salotto, vi preparo qualcosa da mangiare. Suppongo che vogliate conoscervi meglio e questo non è il posto più adatto. Poi vi preparate e uscite – Uscire? Chi aveva mai parlato di uscire? - Uscire? – chiese cercando di mantenere la calma. Jinny le regalò un altro dei suoi sorrisi smaglianti. - Certo, stasera usciamo per distrarci un po’, poi a me manca tanto Berlino – spiegò sollevando le sopracciglia. - Oh – gorgogliò Valentina, già rassegnata al fatto che era già stato organizzato tutto senza nemmeno chiedere il suo parere. Come aveva suggerito la governante, si diressero in salotto e si sedettero sul divano e Jinny cominciò a inondare Valentina di notizie sulla sua vita. Scoprì che la ragazza aveva diciannove anni, che viveva a Görne con il suo fidanzato di ventiquattro anni (con cui era scappata quando aveva quindici anni e con cui aveva comprato una casa grazie ai soldi della famiglia) e che aveva lasciato la scuola appena possibile. Ogni tanto ritornava da sua madre e si faceva ospitare per qualche giorno dai signori Corsucci, per poi ritornare a lavorare come apprendista parrucchiera nella sua città, presso un parente del ragazzo (che si chiamava Ricky). Quando finì di raccontarle tutta la storia della sua vita, Valentina aveva un sopracciglio inarcato e la bocca socchiusa. Il genere di ragazza con cui non c’era bisogno di essere mentalmente presenti, ma con cui bastava annuire. - E tu invece? Parlami di te – le domandò Jinny sempre con la sua aria allegra e a suo agio come un pesce nell’acqua. Valentina scrollò le spalle, abbassò gli occhi e fece volteggiare la cannuccia arancione nel bicchiere di succo di frutta che Anja aveva portato poco prima. - Io vivo in Italia con mia madre e mia sorella, studio, mi piace cantare, leggere... – cominciò, ma Jinny alzò le mani. - Aspetta, aspetta: – la interruppe dubbiosa – solo con tua madre? E tuo padre? Non vive con voi? – la mitragliò di domande. Vale accennò ad un no con la testa. - No – rispose con studiata pacatezza – Sono solo separati – chiarì sbrigativa, adombrandosi improvvisamente. L’argomento su cui erano cadute non era esattamente il più accomodante. - Ti prego scusami – disse Jinny improvvisamente corrucciata e le posò una mano su quella di lei, posata sul ginocchio – E’ che quando sono entusiasta divento indiscreta e non mi rendo conto di essere indiscreta a volte – si scusò, sinceramente dispiaciuta. Vale cercò di sorriderle mascherando meglio possibile l’ombra passatale davanti al viso. - Non ti preoccupare, capita. – la giustificò alla fine. Jinny guardò l’orologio a muro sopra la televisione appena lei ebbe finito di parlare. - Oh, santo cielo, tra un’ora dobbiamo uscire. Preparati Valentina, ti porto in giro. – le annunciò sorridente. Vale si accigliò: di solito non ci metteva più di dieci minuti a prepararsi, perchè doveva cominciare a vestirsi con addirittura un’ora in anticipo? Senza nemmeno elaborare del tutto quei pensieri, si trovò letteralmente trascinata per un polso da Jinny nella sua stanza, di fronte all’armadio.
Finalmente quei giorni di solitudine forzata sarebbero finiti. Bill camminava avanti e dietro come un matto per il corridoio, lanciando fugaci occhiate all’orologio che si poteva intravedere dalla porta aperta della cucina. Avanti, indietro. Avanti, indietro. Sguardo all’orologio e di nuovo avanti e indietro. - Ma santo cielo Bill, vuoi darti una calmata? Tra poco arriveranno! – squittì annoiata Kaya, mentre transitava affaccendata per il corridoio. Lui sbuffò, ma aumentò il passo. Si era messo pericolosamente un’unghia in bocca e non era mai una buona cosa, mai. - E se avessero sbagliato strada? O peggio: se avessero tamponato? Oppure se qualcuno li avesse scoperti, aggrediti, fossero stati bloccati nel traffico, si fossero fatti male? Come faremmo? Il gruppo...David mi ammazzerà, lo so, perchè ovviamente lui se la prende sempre con me per tutto, anche quando non c’entro niente, no ma questa volta glielo dirò che... - Kaya sbuffò uscendo da una stanza con le mani libere. - Ehi! – urlò, zittendolo improvvisamente – Piantala – gli ordinò inchiodandolo con gli occhi. Bill annuì, improvvisamente più calmo. - E’ che.. sono agitato... – cercò di giustificarsi, sempre con lo sguardo basso, mentre scuoteva le spalle. Anche quella volta lo fece apposta: era ben consapevole del suo potere su tutti. - Lo vedo, ma porti sfiga! – berciò sparendo dietro la porta del bagno. Evidentemente doveva rimettere gli asciugamani a posto, ma Bill sapeva che ogni volta che lui faceva la faccia del cane bastonato lei non poteva rimproverarlo e guardarlo al tempo stesso. Agitò le dita sottili e si sollevò un paio di volte sulle mezze punte, nervosamente. All’improvviso si sentì il rumore di un clacson.
Vale guardò il suo riflesse nello specchio a muro nella sua stanza. La sua espressione era... dubbiosa, stupita, incredula. Diede un altro sguardo alla sua immagine, molto diversa da quello che era stata giorni prima. A partire dai suoi capelli: scendevano lisciatissimi sulle spalle, adagiati ordinatamente sul suo petto e dietro la schiena. Il viso non più naturale, ma truccato con qualche sfumatura marrone sugli occhi, in tinta con i riporti della maglia e della gonna a pieghe che indossava. Non si sentiva se stessa, conciata in quel modo. Non era tipo da fronzoli e trucchi lei, preferiva di gran lunga un paio di jeans e una maglietta. Jinny si posizionò dietro di lei, rimirando anch’ella il suo riflesso. - Visto che sei uno schianto? – le domandò distrattamente, controllando il la parte posteriore dei suoi jeans. Valentina sorrise appena, senza mostrare i denti. - E non hai nemmeno bisogno del rossetto, le tue labbra sono già scure così – constatò rimettendosi frontale allo specchio. - Se lo dici tu... – sussurrò Valentina scrutandosi ancora con espressione poco convinta. – Dove mi porti stasera? – glissò, un filo di entusiasmo nella voce. Le labbra di Jinny si aprirono in un sorriso candido. - Al Duomo. E’ una cosa favolosa, specialmente di sera. E’ tutto illuminato e quando vengo ci trovo sempre tutti i miei amici. Vedrai, ti piacerà – le rispose si sistemandosi la coda di cavallo. - Hai la macchina? – le domandò Vale improvvisando un ciuffo alto ai suoi capelli: faceva troppo caldo per portarli sciolti. - Si – rispose, mentre uscivano. – Oh Vale ho dimenticato la borsa, torno dentro a prenderla – la avvisò correndo in casa. Vale si ritrovò sul piccolo spazio precedente la scalinata. Le fu impossibile non lanciare un’occhiata disinteressata alla sua destra, alla villa dove abitava Bill. In quei due giorni si erano incrociati spesso e qualche volta si erano anche parlati. La sua compagnia cominciava a piacerle sul serio, le conversazioni non si portavano mai su un tono eccessivamente serio e riusciva a farla ridere con niente, facendola sentire parecchio serena. Vide una macchina abbastanza grande parcheggiata proprio di fronte al cancello della proprietà, dai finestrini oscurati e almeno due uomini vestiti ordinariamente, ma dall’aspetto di armadi, che la circondavano. Spostò il peso su una gamba e assottigliò la vista: uno sportello posteriore si aprì e un ragazzo con i vestiti larghissimi e lunghi dread ordinati in una coda fuoriuscente da un cappellino sbucò da dentro. Nonostante fosse sera indossava grandi occhiali scuri. Poi vide uscire dal portone Bill, che sorrideva e gli andava incontro, a grandi, eleganti falcate. I grandi omaccioni le lanciarono poche occhiate fuggenti e intimidatorie, che lei non si spiegò. Dopo essere inciampata in quegli sguardi truci, spostò lo sguardo rivolgendolo dietro di se, desiderando ardentemente che l’amica la raggiungesse il più presto possibile. - Jinny, ci sei ancora? – urlò affacciandosi in casa. Finalmente la vide andarle incontro, percorrendo il lungo corridoio con un sorriso. - Scusa, non trovavo il cellulare e non mi ero ricordata di averlo lasciato in carica al piano di sopra – spiegò sempre in quel suo modo troppo dettagliato, troppo allegro chiudendosi la porta dietro di se. - Andiamo? – le disse sorridente. Valentina annuì e ignorando Bill e lo strano ragazzo, si affrettò a scendere le scale. Stava percorrendo il sentiero lastricato, certa che Jinny la seguisse, quando sentì un acutissimo urlo provenire dalle sue spalle. Con gli occhi sgranati si voltò verso la ragazza e notò l’espressione stravolta di Jinny che fissava la villetta. - Jinny che hai? – le chiese preoccupata. L’amica la guardò ancora più stravolta, poi ritornò con gli occhi sull’oggetto del suo sconvolgimento. - Non ci posso credere... – gracidò, il tono di voce al di sopra di qualche ottava, gli occhi che fuoriuscivano dalle orbite. Il suo dito si puntò verso l’assurda visione. Vale voltò la testa e capì che quel dito accusatore era puntato contro Bill e lo strano rastaro. Aggrottò la fronte, Bill si morse il labbro inferiore e il viso s’increspò in un’espressione preoccupata. Ma che stava succedendo? Jinny si avvicinò ai ragazzi con un’espressione indefinibile sul viso. Un incrocio tra l’euforico e lo spiritato. – Jinny, ma che fai?! – le urlò dietro tentando di seguirla, ma quando la raggiunse era praticamente di fronte ai ragazzi. - Ciao Tom! – squittì Jinny, mentre gli porgeva la mano – Io sono Jinny! – si presentò. - Ciao Jinny – il ragazzo sfoderò uno dei suoi sorrisi migliori e la strinse. I bodyguard si guardavano intorno preoccupati, specialmente uno, che armeggiava con un palmare e una ricetrasmittente al tempo stesso. “Ma che sta succedendo?” pensò con orrore. Come faceva Jinny a conoscere il nome del ragazzo? Jinny porse la mano anche a Bill, che la accettò con un mezzo sorriso stentato. I suoi occhi viaggiavano da quella ragazzina euforica alla figura dolce e piacevolmente diversa di Valentina, che esibiva una giustificata espressione spaesata. - Mi fate un autografo per favore? – Jinny stridette ancora, adulante – Per favore! – - Certo – rispose quel Tom, cordiale, mentre Bill si ostinava a stare in silenzio, lanciandole spesso fuggevoli occhiate. Jinny si affrettò a prendere una penna e un pezzo di carta dalla borsa. Il rasta si appoggiò al muretto bianco e ruvido e ci pasticciò qualcosa sopra. Bill fece lo stesso. Non aveva detto nemmeno una parola, le mani gli tremavano appena. - E la tua amica rimane in silenzio? - disse poi Tom con blanda sorpresa. Oddio. Si stava riferendo a lei? Jinny serrò le dita intorno al suo polso, e la trascinò accanto a lei. - Ahi! – si lamentò Valentina e la guardò torva. Jinny si ostinò a non abbandonare quel suo onnipresente sorriso ebete. Per quanto potesse essere carina, sembrava proprio una cretina in quel momento. - Questa è Valentina. E’ Italiana, i suoi zii abitano qui - la presentò, come se fosse un trofeo. Da quel momento l’umore di Valentina prese una piega pericolosamente negativa, molto in contrasto con i suoi occhi sgranati. - Ciao... – gorgogliò con voce più ferma di quanto si sarebbe mai aspettata. - Valentina, hai qui Bill e Tom dei Tokio Hotel e ti limiti ad un “ciao” stentato? – la rimproverò Jinny, lievemente isterica. All’improvviso tutto apparve chiaro: il Bill della televisione, quello che era stato operato a Berlino per un problema alle corde vocali, il celeberrimo vocalist... dei Tokio Hotel in realtà non era altro che il ragazzo che aveva conosciuto lei. Quello che “non era esattamente una persona importante, anzi”. - Veramente... – la voce di Bill che cercava di replicare la fece riemergere dalla sua nuvola di pensieri. Alzò una mano, zittendo il ragazzo. - Si, giusto. Ciao Bill – disse e gli regalò un sorriso mesto. Un sorriso lezioso e falso, così poco da lei che si stupì di se stessa. Bill la guardò un po’ stupito, ma lui non sapeva che era meglio che Jinny non sapesse nulla della loro conoscenza. Come era successo tante altre volte, qualcosa di doloroso come un cilicio si aggrappò al suo cuore, cominciando a ferire. - Jinny, dobbiamo andare – concluse alla fine, rivolgendosi all’amica. Jinny la guardò come se fosse una stupida. - Vale, non capita tutti i giorni di incontrare i gemelli di una delle band più famose del mondo, chiaro? Quindi ora stiamo qui – la ammonì. Anche Valentina ricambiò lo sguardo di poco prima e guardò lei come se stesse rimirando un’idiota. Poi un altro dei suoi sorrisi leziosi comparve sul suo viso. Non aveva intenzione di starsene lì ad idolatrare gente che non conosceva, gente che le aveva mentito. E poi c’erano quegli uomini alti che si scambiavano continuamente occhiate e le guardavano come se fossero una fastidiosa intrusione. Non aveva nessuna intenzione di sentirsi indesiderata. Non voleva guardare quei ragazzi, non voleva guardare quegli occhi. Perchè ingenua si, ma stupida no. Bill le aveva mentito. Ma come aveva potuto essere così stupida? Cosa le era saltato in mente? Il male esisteva anche lì, in quel posto lontano da casa. Non esisteva un mondo rosa, dove non si provasse dolore nemmeno se si batteva contro uno spigolo. Quelli erano i sogni, ed era meglio lasciarli nella dimensione in cui stavano. Fece dietro-front e camminò verso la porta di casa, con un gusto amaro in bocca. - Dove vai? – tuonò Jinny, dietro di lei. Sembrava che stesse facendo qualcosa di assurdo. Si voltò verso di lei con un movimento nervoso e la coda di cavallo sfiorò la sua guancia, per poi scivolare di nuovo al suo posto. I suoi occhi brillavano di rabbia. - Nel caso non te ne fossi accorta, le due celebrità qui presenti avevano tutta l’intenzione di farsi i fatti propri, quindi non vorrei sentirmi di troppo – berciò con voce tagliente. Si voltò di nuovo, trottò lungo le scale e sparì dietro la porta di casa. I tre rimasero sorpresi da quella reazione. Passò circa qualche secondo prima che Jinny si voltasse verso di loro, decisissima a profondersi in scuse. - Scusatemi, io davvero non so cosa le sia preso... - - Ragazzi, tornate dentro adesso – proclamò la voce possente di Saki, interrompendo il delirio giustificatorio della ragazza che li guardava come se Valentina avesse sputato sulle loro scarpe. - Cara Jinny, consiglierei alla tua amica una buona dose di Valium due volte al giorno prima dei pasti di persona, ma adesso dobbiamo andare. Glielo dici tu, vero? Ok, grazie – disse tutto d’un fiato e lasciando la ragazza di sasso, insieme al fratello che aveva sibilato un veloce “ciao”, se ne tornò in casa.
Valentina tornò dentro, sbattendo la porta. Si recò nella sua stanza e si abbandonò sul letto. La coda di cavallo le dava fastidio, e con un movimento collerico si sfilò l’elastico che raccoglieva i suoi capelli. Lo gettò via rabbiosamente, ma leggero com’era, l’effetto distruzione voluto da Vale non si attuò, anzi ricadde a terra, poco lontano da lei Chiuse gli occhi, tentando come al solito di razionalizzare prima gli avvenimenti, ingoiarli poi. Doveva riorganizzare i pensieri. Primo, Bill faceva parte di una band. Una delle band più famose d’Europa questo comportava che anche Bill era famoso, inevitabilmente. Secondo, quel ragazzo era suo gemello. Gemello?! Non potevano essere gemelli, erano troppo diversi, erano praticamente uno l’opposto dell’altro. Fisicamente s’intendeva. Era assurdo. E come mai lei non li conosceva, non aveva mai visto uno di quei due volti su qualche tabloid, qualche giornale, in televisione? Possibile che fosse così fuori dal mondo, così fuori dai canoni? Sbuffò, rassegnata. Lei non vedeva molta TV e non comprava mai giornali. Non vedeva programmi musicali, non conosceva lontanamente nemmeno le manifestazioni che questi organizzavano. Si sentì scivolare lentamente in un abisso nero di vetri rotti. Era una diciassettenne qualunque? Era una ragazzina normale? Ci pensò su. La risposta alla prima domanda era decisamente positiva. Non aveva niente che la distinguesse dalla massa. E alla seconda domanda non aveva risposta. Sentì un moto di rifiuto verso se stessa, verso quella situazione surreale, verso tutto. La porta della sua stanza si aprì e una Jinny più incazzata che mai si appoggiò indolentemente allo stipite, guardandola come se volesse affettarla. - Beh? – chiese all’improvviso Valentina, spazientita da quel suo continuo fissarla. Non la sopportava. Non la sopportava! Jinny scattò come una molla. – Mi dici che cazzo hai fatto stasera? Che ti è saltato in mente? Mi hai fatto fare una figura di merda bestiale di fronte ai miei idoli! Ti rendi conto? – sbraitò stringendo i pugni ai lati dei fianchi. Brigitte accorse sentendo le urla. - Che succede? – chiese, sull’uscio della cucina. - Niente, una cosa tra me e lei. – la liquidò Jinny, senza nemmeno guardarla. La donna non rispose, rimase a fissarle con i suoi occhi castani spalancati. - Allora? – tuonò Jinny, incitandola a rispondere. Batteva ritmicamente il piede a terra in un modo snervante, le mani sui fianchi. - Allora cosa? – - Che hai da dire per giustificarti? – ripeté, facendo schizzare il sopracciglio verso l’alto. Quel gesto altezzoso la infastidì più della sua vocina stridula, più della sua aria sempre allegra, più del suo parlare sempre a sproposito. Si sollevò dal letto e si mise in piedi. - Ho da dire che non devo assolutamente giustificarmi e che la figura di merda l’hai fatta tu, solo mettendoti a gridare come un’isterica correndo a braccia aperte verso di loro. Perchè già che c’eri appendevi uno striscione e accendevi una sirena?! – - Senti, occasioni del genere capitano una volta sola nella vita! Era ovvio che avrei reagito così, quei ragazzi possono essere visti solo in televisione e se non li avessi visti stasera avrei dubitato che erano fatti di carne e sangue! – Valentina sgranò gli occhi. Era così oca? E quei ragazzi erano così importanti? - Ma che vuol dire?! Ti annichilisci così per un paio di bei faccini? – Era sconcertata. - Si! – rispose Jinny, convinta – Perchè io farei di tutto per passare del tempo insieme a loro! Di tutto! – scandì bene le ultime due parole, sputando fuoco anche dagli occhi. - Non riesco a credere che tu sia questo Jinny. Non hai una dignità, un’intelligenza? Perchè...- - No, stai zitta! Tu non capisci niente e hai rovinato un sogno! – le sbraitò contro, interrompendola. Valentina abbandonò le armi e lasciò le braccia cadessero abbandonate lungo i fianchi. Rinunciò a farla ragionare. Era troppo accecata dalla rabbia e dalla sua ossessione per quei ragazzi. L’antipatia che nutriva per lei si trasformò all’improvviso in compassione. Si sentì triste e impotente. Se reagiva così, forse un po’ di affetto per Jinny lo provava, in fondo. Le venne da piangere, così, senza un perchè. Voleva farlo e basta, ma si trattenne. - Non usciamo più? – le chiese alla fine, la voce bassa, sapendo ovviamente che non c’era bisogno di una risposta. Jinny che si era accasciata vicino al muro la guardò: sembrava stanca, tutto d’un tratto. Brigitte sparì in cucina senza dire una parola. - No – rispose. Chiuse gli occhi, si tenne la testa con le mani – Ma se vuoi proprio uscire prendi la macchina e vai da sola – sibilò, gli occhi ancora chiusi. Valentina si stupì: possibile che non sapesse che era minorenne e che non aveva la patente? - Si, grazie – accettò. Se non fosse stata triste, avrebbe sorriso perfidamente. Lei sapeva guidare, guidava da quando aveva quattordici anni. Prendeva clandestinamente lezioni da suo cugino. Non quel cugino, un altro, Luca. - Le chiavi sono sul mobile nell’ingresso, la macchina è la Golf gialla parcheggiata quì davanti. I numeri della targa sono 667. Non puoi sbagliarti –
- Adesso mi devi dire che cazzo hai combinato – ringhiò Tom contro il fratello, che aveva lo sguardo basso e la posizione di un bambino in castigo. Appena entrati dentro, Tom aveva afferrato il suo adorato fratellino per la maglia, trascinato nel soggiorno e sbattuto letteralmente sul divano, noncurante delle sue lamentele e gli si era piazzato di fronte, con i pugni posati sui fianchi, mentre lo guardava, con fare minaccioso. - Non ho combinato niente. Solo che, ecco, non le ho detto chi siamo... – mugolò di risposta il Bill con lo sguardo basso. - Non hai avuto le palle, vorrai dire... – lo imbeccò Tom. Scese il silenzio. Un silenzio in cui l’unico suono udibile a parte un fastidioso abbaiare di un cane vicino era il sospiro scoraggiato di Tom, che si abbandonò a peso morto sullo stesso divano, accanto a lui. Bill gli aveva detto che la tipa in questione non aveva la minima idea di chi fossero i Tokio Hotel, ma non gli aveva spiegato il fatto che non si era nemmeno sprecato a parlargliene. Bill ripensò al sorriso di Valentina e a quella sua aria leziosa e vagamente disgustata. Molte persone lo avevano schernito, regalato sorrisi falsi, compassionevoli, altezzosi, sguardi che avevano lo scopo di farlo sentire meno di una nullità. Nessuno di quegli sguardi, di quei sorrisi aveva raggiunto il suo fine. Nessuno tranne quello di Vale. Forse perchè nel suo sorriso non c’era odio e disgusto, ma solo delusione. Forse perchè era l’unica persona al di fuori della sua famiglia e di una ristretta cerchia di amici che aveva conosciuto e a cui si stava affezionando sul serio. Forse perchè ogni volta che la vedeva il cuore gli batteva come non faceva da tempo. - Tom... – trovò la forza di sibilare Bill. Lui lo guardò, distrattamente – L’ho combinata grossa? – chiese con il candore di un bambino, un bambino in castigo. Ancora una volta suo fratello sbuffò. - Dipende Bill - gli rispose e Bill annuì, come se conoscesse già la risposta.
Niente parole. Solo sguardi. Dire tutto, senza mai dover dire nulla. E’ questo l’amore.
- Ora però ho bisogno di nicotina – affermò Tom e si alzò, sfregandosi senza un motivo le ginocchia, coperte da una delle maglie oversize che portava. Anche Bill si alzò, nervosamente, grattandosi uno degli avambracci: era proprio nervoso. - Ti faccio compagnia – lo informò, ma Tom gli mise una mano sul petto e lo fermò. - No, tu adesso ti stai buono buono in casa, perchè potrebbe venirti la tentazione di fumare e nel caso cedessi io sarò così gentile da usare la tua chioma fluente come scopino da regalare alla zia Kay e non credo ti farebbe piacere – Bill rabbrividì al solo pensiero e si diresse con l’obbedienza di un bravo scolaro verso la play station. Tom lo vide accenderla con un’ultima, fuggente occhiata, poi uscì dalla stanza. Tom aprì il portone e lo richiuse alle sue spalle. Ci si appoggiò con la schiena e si accese una sigaretta. Sentiva delle urla dalla villa accanto. Chissà, forse la “tipa” in questione era anche lei isterica. Che l’avesse sopravvalutata? Forse si. Ma che razza di ragazzina era una che non conosceva i Tokio Hotel? Gli sembrava così strano e surreale, quasi impossibile. Fece un tiro e soffiò ancora fumo: una nuvola grigiastra galleggiò nell’aria formando strane volute dai contorni sfumati. Cercò immaginarsela esattamente come Bill l’aveva descritta: bagnata, sofferente, fragile, con gli occhi vuoti e spezzati. Ma... sbagliava o stava diventando sensibile? C’era molto più di quanto immaginasse di Bill in lui. Sentì una porta sbattere. Il rumore attirò la sua attenzione e lo sguardo cadde quasi involontariamente verso la villa accanto, dove vide Valentina premere un interruttore nero accanto al porta d’ingresso per aprire il cancello e scendere le scale adornate ai lati da qualche pianta, un mazzo di chiavi in mano. L’espressione dura, gelida stampata in viso. Camminava con la testa un po’ chinata, lo sguardo un po’ basso, ma velocemente verso il cancello. Non aveva molto l’espressione di una ragazza piena di problemi con le onnipresenti lacrime negli occhi, anzi. Sembrava una stronza, fatta e finita. Sentì una portiera sbattere e un rumore sordo di gomme che strisciavano sull’asfalto. Impossibile. Era semplicemente impossibile. Quella ragazza non aveva nulla della dolcezza descritta da Bill. Nulla. Se mai aveva solo un culo da cinema.
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