*Ali Spezzate*

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Lullaby;
view post Posted on 7/3/2009, 14:57




Il primo dialogo tra Bill e Valentina mi piace tanto!
 
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Shynee
view post Posted on 8/3/2009, 21:57




Eh, capirai... XD
 
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Lullaby;
view post Posted on 9/3/2009, 15:34




CITAZIONE (Shynee @ 8/3/2009, 21:57)
Eh, capirai... XD

Ma io già so la fine U.U
 
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Shynee
view post Posted on 10/3/2009, 14:43




Mega capitolo, solo perchè voglio andare avanti e ho fretta di finire.


Capitolo 5.

Bill teneva il telefono con una mano, mentre l’altra era placidamente abbandonata sul letto.
- Allora ci hai parlato... – meditò Tom dall’altra parte del cellulare. Non sembrava molto entusiasta.
- Si, due giorni fa. Mi ha detto che si è ripresa e si vedeva anche dal viso che stava meglio – approvò con interesse.
- E... com’è? - chiese il fratello curioso.
Bill ci pensò un attimo: com’era?
- Sembra simpatica, – decise alla fine – ma ci ho parlato poco. Mi ha stupito il fatto che... beh sembrava che non fosse successo niente, parlava abbastanza tranquillamente. Tutto rimosso, cancellato – disse agitando una mano. Suo fratello sospirò.
- Bill, non tutti sono come te che rimani a strillare tre giorni per una doppia punta. Si va avanti, si supera. C’è chi lo fa più facilmente e chi ha bisogno di frignare come un poppante per ore –
Bill increspò il viso in un’espressione ammirata e dilatò le palpebre.
- Ma che perle di saggezza oggi Tom, hai fatto colazione con il metadone? Io strillerò come un poppante, ma almeno non guardo di nascosto le puntate di Hanna Montana per... “scaricare la tensione” – lo provocò con un sorriso furbo e avvenne una cosa che avveniva con la stessa frequenza di un’eclissi: Tom tacque. Aveva vinto.
- Tom stai avendo una visione mistica? – chiese alla fine beffardo, dato che suo fratello sembrava improvvisamente ammutolito.
- No, sto meditando se ucciderti pestandoti a sangue o se lasciarti colare a picco da un grattacielo di sessanta piani – rispose con un candido sorriso intuibile dalla voce.
- Posso scegliere? – domandò con voce innocente, sbattendo le ciglia.
- No – grugnì il fratello – Stavi dicendo? -
- Stavo dicendo che mi è sembrato strano perchè io ho visto la faccia sconvolta che ha fatto. Allora le opzioni sono due: o è caduta dalle scale e ha preso una botta in testa, oppure è brava a fingere -
- La possibilità che sia caduta dalle scale è plausibile –
Bill sbuffò, annoiato dalla sua incapacità di intrattenere una conversazione seria.
- Tom è una cosa seria – lo avvertì con voce decisa.
- Seria? – ripeté Tom un po’ spiazzato – Bill stiamo parlando di una sconosciuta, una con cui di norma non dovresti nemmeno parlare. Anzi per la verità non dovresti parlare proprio, fresco fresco di ferri medici come sei –
Bill ridacchiò. Ma si, in fondo suo fratello aveva ragione. Doveva perdere l’abitudine di farsi i cazzi degli altri, forse quella era la volta buona per riuscirci.
- Si, hai ragione – concordò ridacchiando e decise di far morire l’argomento – Allora, lì com’è? Ti trovi bene? – s’informò mostrando genuino entusiasmo.
- Guarda che non è niente di che, l’unica cosa apprezzabile sono le nuove segretarie di David, due stangone bionde decisamente apprezzabili. Mi dispiace quasi che tu non possa vederle – rispose Tom, con tono concitato.
- Non ti preoccupare, tanto il medico non me l’avrebbe permesso. Di regola non dovrei nemmeno parlare tanto, per cui sono a cavallo -
- Oh, ma con loro le parole non servono... – Tom ammiccò. Bill riuscì a sentire il ghigno malefico del fratello dall’altra parte del cellulare e alzò gli occhi al cielo, ringraziando mentalmente di non essere come il fratello.
- Ora vado Bill – lo avvertì Tom più serio - Mi stanno chiamando per la conferenza. Allora hai capito quello che dirò alla stampa? –
- Si, va bene – farfugliò distrattamente disegnando con l’indice strane figure sulle lenzuola.
- Ah, Bill guarda che questa settimana farò un salto a Lipsia a trovare mamma, ritarderò di un paio di giorni – disse sbrigativo, e senza dare il tempo al fratello di rispondere, chiuse.
Bill si lasciò cadere a peso morto sul letto, sbuffando rumorosamente. Si annoiava da morire e i camerieri non erano di certo una buona compagnia. Se solo Tom fosse stato lì, avrebbero combinato qualcosa insieme. Anche solo parlare, in quel loro modo crudele di dimostrarsi affetto sarebbe andato bene, ma lui non c’era. Sarebbe stato via per dare conferenze stampa insieme a Georg e Gustav e aggiornare il mondo sulle sue condizioni di salute.
Poi... illuminazione. Perchè non fare semplicemente il suo lavoro?
Si sollevò dal letto e prese carta e penna.

- Sai di preciso quando ritornerai? -
La madre le fece la stessa domanda che le aveva posto Samuel pochi minuti prima sempre per telefono.
- Ma dai sono appena arrivata, non lo so ancora. Io non me ne voglio andare, quì sto troppo bene, c’è pace. E poi c’è una biblioteca bellissima –
Le sue labbra si distesero in un mezzo sorrisetto e quasi istintivamente rivolse il suo sguardo verso la finestra della villa accanto. Era stata sincera, in quel posto c’era pace davvero. Suo cugino compariva nei suoi sonni meno frequentemente e riusciva anche dormire di più.
- Giusto. Ma sai, qui manchi a tutti – le disse la madre con voce tutt’altro che triste.
Vale sorvolò e prendendo il coraggio a due mani e facendo un respiro profondo, decise che era arrivato il momento di affrontare un argomento importante.
- Mamma ma tu hai saputo di Jasmine? – buttò fuori tutto in una volta. La risposta non tardò ad arrivare.
- Si Vale, l’ho saputo – rispose Gloria con tono indifferente.
Di solito quando aveva notizie di quel genere sospirava e colmava la tristezza con un sorriso amaro, invece quella volta sembrava molto tranquilla.
- E come l’hai presa? – indagò accigliata.
- Di certo non ho fatto i salti di gioia... ma lui si è ricostruito una vita, io devo rispettare certe scelte –
Ma si era persa qualche passaggio? Sua madre le aveva parlato con una tranquillità e una pacatezza sorprendenti. Forse era la sua impressione, ma sentiva una nuova forza, una nuova allegria che traspariva anche attraverso le parole dal cellulare. Non era niente di grave, decise alla fine. Se sua madre era serena, poteva solo esserne felice
- Va bene mamma. Salutami tutti lì – disse senza indagare. Un ultimo saluto e chiuse.
Poi posò il telefono accanto a lei.
Era praticamente sdraiata vicino alla finestra, sull’enorme tappeto. Portava avanti e indietro alternatamente i piedi scalzi, avvolti solo da un paio di calzini di spugna. I capelli disordinati appena lavati erano incastrati sulla testa da un pennello, pescato all’ultimo momento dal portapenne sulla scrivania dello zio (scrivania su cui le aveva caldamente raccomandato di non mettere le mani per nessun motivo al mondo).
Riprese a leggere il libro che aveva interrotto per rispondere al cellulare e dondolò di nuovo i piedi.

Bill si affacciò per caso annoiato alla finestra. Non era riuscito a scrivere nulla, non aveva ispirazione quel giorno.
Si accese una sigaretta, ma prima ancora di aspirare si ricordò che non poteva assolutamente fumare.
“Che palle” pensò sbuffando e la gettò, lasciando che cascasse sui mattoni del giardino. I suoi occhi cercarono subito quella sigaretta sul pavimento quando ricordò che David perlustrava la casa durante le sue rade visite, in cerca di qualcosa che gli desse il pretesto di urlargli contro che doveva salvaguardare la sua gola, la sua salute, le corde vocali eccetera, eccetera...
Uscì velocemente dalla sua camera e si fiondò in corridoio. Lo percorse per un breve tratto e velocemente mise una mano sulla ringhiera della scala che portava al piano di sotto. Fece forza sulle braccia e con una quasi giravolta si catapultò attraverso i gradini, scendendoli a coppia.
Saltò gli ultimi due scalini e per poco non finì addosso a Kaya, la cameriera di passaggio nonché la più anziana, mentre trasportava un cestino pieno di bucato fresco.
- Oh, santo cielo Bill! Vai piano! – lo rimproverò in tono confidenziale. Non per niente, li aveva visti crescere, lui e suo fratello. Il ragazzo si voltò all’improvviso, notando la donna barcollante.
- Scusa Kay, andavo di fretta - rispose rallentando, intenerendola con uno dei suoi sorrisi innocenti a cui lei non aveva mai, mai saputo resistere. Lo sapeva, e ne approfittava sempre.
La donna alzò gli occhi al cielo e sparì nella camera adibita a riordinare i panni.
Prima di uscire, Bill fissò il suo riflesso nello specchio a muro accanto alla porta. Vide i suoi capelli arruffati e disordinati e il suo abbigliamento semplice, fatto solo da un paio di jeans chiari e una maglietta bianca. Certo, molto diverso dal suo stile abituale quando appariva in televisione, impreziosito da anelli, collane, smalto nero e pettinatura eccentrica. E, cosa peggiore, si trovava un po’ più tondo, segno inequivocabile che le gommose e le varie schifezze che ingurgitava facevano effetto anche a lui. Uscì, scacciando quei pensieri.
Scese la piccola scalinata e svoltò subito a sinistra, dirigendosi verso la prova schiacciante del suo errore. Dopo pochi passi infatti, eccola li: fumante e ancora accesa. Bill schiacciò la punta con il piede sopprimendo il desiderio di nicotina e la raccolse con due dita prendendola dal filtro. Si guardò intorno cercando un posto sicuro dove buttarla e optò per il vaso che stava davanti al muretto bianco.
La schiacciò contro la affondò nel terreno, poi si sfregò poi le mani per rimuovere gli ultimi residui di terra.
Sollevò lo sguardo sentendosi soddisfatto e i suoi occhi inevitabilmente si posarono sulla vetrata aperta del balcone di fronte. Nonostante il sole del primo pomeriggio, riuscì a scorgere una figura distesa. Assottigliò la vista e la riconobbe.
Valentina stava leggendo un libro, placidamente distesa sul tappeto che si poteva intravedere.
Forse poteva parlarci. Si stava annoiando da morire e qualcuno della sua età con cui conversare era l’ideale.
No, doveva farsi i fatti suoi, non doveva correre rischi. E se quella ragazza fosse stata una giornalista segreta camuffata da adolescente che in realtà non aspettava altro che attaccare bottone con lui, facendo finta di non conoscerlo minimamente? E se fosse andata a spifferare qualcosa alla stampa? No grazie.
Si girò sui tacchi, intenzionatissimo a ritornare dentro e a farsi una bella partita alla playstation.
- Non mordo, sai? – la sentì urlare serena, alle sue spalle.
Ecco, sicuramente si era accorta che la stava fissando come un imbecille e mossa a compassione gli aveva parlato.
Si mascherò dietro la sua aria sicura e si lasciò scappare un sorriso divertito. Si girò e le sorrise ancora.
- Bene, mi stavo quasi preoccupando – disse ostentando sicurezza.
Lei rise, poi con un movimento veloce si mise in piedi, non prima di aver chiuso il suo libro. Uscì dalla vetrata dirigendosi verso la ringhiera del balcone sopraelevato. Bill vide la sua maglia sollevarsi dolcemente ad ogni passo, scoprendo in modo quasi delizioso la pelle dorata dei suoi fianchi un po’ rotondi, ma senza essere sgradevoli, anzi. E lui era un ragazzo, per quanto potesse essere dolce e romantico, non era immune alla bellezza. Ingoiò e si concentrò su altro.
- Ehm... mi dici di che parla il libro che leggevi? – chiese evitando di guardarla negli occhi. Lei gli fece cenno con la mano di aspettare e con un salto scavalcò il balcone, atterrando sul pavimento incandescente. Finalmente si decise ad aggiustare quella maglia e subito si sentì sollevato.
- Allora? – la incitò a rispondere, quasi fosse interessato.
- Mi esercitavo a leggere qualcosa in tedesco, ho preso il primo libro che mi è capitato sotto mano – lo informò placida.
Allora aveva capito bene, non era tedesca.
- E cioè? –
- E cioè l’Amleto di Shakespeare. – rispose, come se fosse una cosa ovvia – Per la verità però, ho capito poco –
Lui sollevò un sopracciglio, molto, molto scettico.
- E dopo averlo letto prenderai un antidepressivo? – le chiese ilare.
- Veramente pensavo di rivolgermi direttamente allo psichiatra, magari mi aiuta di più – sorrise lei. Ah ma allora diceva sul serio. Però, era davvero simpatica, pensò mentre rideva e mentre lei lo seguiva. E lui era quello che non doveva nemmeno parlarle.
- Allora... – ricominciò poi smettendo di ridere – Sei qui in vacanza? – s’informò guardandola.
Lei scosse la testa, facendo cenno di “no”.
- No, i miei zii mi ospitano, ma non è una vacanza. E’ più appropriato considerarla una... fuga - ammise con un sorriso più tranquillo mentre dondolava le gambe penzolanti ai lati del muretto. Bill piegò la testa di lato. Le avrebbe chiesto perchè era fuggita, ma non indagò. Chissà perchè, collegò il motivo della sua “fuga” all’episodio a cui aveva assistito il primo pomeriggio di pioggia poco più di una settimana prima.
- Ma non sei tedesca, vero? – le chiese alla fine, notando che era calato di nuovo quel silenzio imbarazzante.
- No, sono italiana. Conosco il tedesco perchè ho vissuto in Germania qualche anno, poi sono ritornata in Italia –
Bill inarcò verso il basso gli angoli della bocca.
- Però, dei grossi cambiamenti – constatò sinceramente.
Vale scrollò le spalle, come per dire che non avevano importanza.
- E tu invece? Lavori? La mia governante mi ha detto che sei uno importante -
Lui sorrise, meravigliato e aggrottò le sopracciglia.
- Hai chiesto di me alla tua governante? – domandò ridacchiando. Lei abbassò gli occhi di colpo e un velo di rossore affiorò sulle sue guance.
- No, per la verità... ecco... è stata Anya a parlarmene senza che chiedessi niente, sai è una gran pettegola e... E comunque mi sembra una cosa abbastanza legittima, dopotutto – povera, si stava impappinando. Gli faceva tenerezza vederla così.
- Rilassati, scherzavo. Io sono... – si bloccò, pensando che forse doveva dirle la verità. Dopotutto raggirarla non sarebbe stato giusto. Però se le avesse detto che in realtà era un cantante famoso, avrebbe potuto mutare ai suoi occhi e non l’avrebbe guardato come lo guardava ora, magari avrebbe avuto delle riserve. No, non poteva permetterlo.
- Beh... diciamo che lavoro...ma non sono esattamente una persona importante – disse, evanescente.
- Ah – disse soltanto Valentina. Non sembrava molto convinta, ma sembrava anche non darci peso.
- Ho saputo anche che sei malato... –
Cavolo, lo stava mettendo in difficoltà. Annuì, arricciando le labbra e sollevando le sopracciglia, stando attento a non guardarla negli occhi. Di certo avrebbe preferito che non le avessero rivelato nulla, ma doveva ritenersi fortunato che la governante non le avesse spifferato chi era in realtà (una famosa rock star di fama mondiale, adulata e venerata da schiene di donne di ogni età e copiosi gruppi di esemplari di sesso maschile).
- Si, ho avuto un problema alla gola e mi hanno dovuto operare – disse senza approfondire troppo il discorso. Vale annuì, tranquillamente, senza chiedergli nient’altro.
Si, decise che quella ragazza gli piaceva: era discreta, ma curiosa al punto giusto e anche molto carina.
Rimasero ancora a chiacchierare insieme per circa tre ore. Il tempo scorse senza che loro potessero rendersene conto, parlando di cose senza senso apparente. Bill notò che appena si cominciava a parlare di lei e della sua famiglia, Valentina abbassava gli occhi e glissava, o non rispondeva proprio e lui era costretto a cambiare argomento. Per un momento pensò che l’ipotesi della giornalista in cerca di scoop mascherata dietro il ruolo di ragazzina non fosse poi così inverosimile, ma ad una consueta domanda (“Hai un ragazzo?”), Vale aveva tremato un momento scossa da un brivido e aveva risposto con aggressività e lui aveva capito che ci doveva essere per forza qualcosa di più.

La ragazza guardò l’orologio da polso e spalancò la bocca.
- Accidenti, quanto tempo siamo rimasti qui? Tre ore – si meravigliò fissando quei numeri digitali.
Bill alzò le sopracciglia, sorpreso anche lui.
- Però... – fece colpito - Comunque mi ha fatto bene. Non ho nemmeno sentito il bisogno di fumare e se mi scoprissero mi affetterebbero – continuò sorridendo. Il suo era un modo molto, molto implicito per ringraziarla, di solito non dava molta confidenza alle ragazze.
- Già, la gola... – ricordò Valentina. Spostò gli occhi dall’orologio a lui e gli regalò un sorriso dolce, senza scoprire i denti. Mentre alzò la testa una sottile ciocca di capelli scampata al nodo di quello che probabilmente era un pennello scivolò da dietro l’orecchio, carezzandole una guancia rosea.
- Ora devo andare – disse un po’ dispiaciuta, mentre ancora si teneva con le dita il display dell’orologio. Si rimise la ciocca a posto dietro l’orecchio, in un gesto d’indifferenza.
Lui alzò le mani mostrando indifferenza, ma in realtà era molto dispiaciuto anche lui.
- Non c’è problema. Tanto ora verrà da me il dottor Paura per la solita visita e devo ancora prepararmi psicologicamente – rabbrividì al solo pensiero. Le visite con quei medici non erano mai molto piacevoli. Lei rise, rivelando ancora la sua risata argentina e lui ignorò il vago senso di vacuità nel suo stomaco.
- Non devi avere una buona opinione di questo medico se gli affibbi soprannomi così carini – constatò la ragazza.
- No, in realtà è simpatico, ma ormai lo chiamano tutti così nel nostro ambiente -
- D’accordo, allora ti lascio alla tua preparazione... come hai detto? Psicologica – ripetè, inciampando nell’ultima parola. Aveva un accento strano, non molto morbido come quello delle francesi, ma neanche eccessivamente duro e marcato.
- Allora ciao – sibilò. Cercava di nasconderlo, ma era un po’ impacciata.
- Ciao... – rispose lui ancora sotto l’effetto di delle farfalle nello stomaco.
Una specie di peso fra i polmoni, proprio al centro del petto, gli comunicò che non voleva affatto che andasse via. Ma la ragazza lo salutò con un gesto della mano e con un ultimo sorriso e si allontanò, scomparendo dalla sua vista dopo la prima curva del giardino.
Sospirò un po’ deluso e mani in tasca e sguardo basso si avviò verso la porta. Non era ancora tardi per quella partita di playstation.

Valentina entrò in casa animata da una piacevole sensazione di serenità.
Che bel pomeriggio aveva passato, si era sentita parecchio serena come non si sentiva da mesi, parlando con un ragazzo. La compagnia di Bill era davvero... piacevole. Le dispiaceva solo che fosse scattata e avesse tergiversato quando l’argomento era virato su di lei.
Era pazza, decisamente pazza. C’era bisogno che andasse in Germania per stringere amicizia con un ragazzo; un ragazzo parecchio strano e poco comune, per carità, ma pur sempre del sesso opposto. Sfilò il pennello lucido dai suoi capelli, che caddero disordinati e privi di forma sulle spalle e lo posò sul primo mobile capitato a tiro. Urtò qualcuno.
- Valentina, torna tra noi! – la ammonì una voce baritonale con una punta di ironia. I suoi occhi si schiantarono sulla figura dello zio, la percorsero viaggiando da uno dei bottoni bianchi della camicia a quadri, all’altezza della pancia sporgente, fino ad arrivare alle spalle larghe, poi al mento liscio e finalmente agli occhi azzurri. Quando arrivò a finalmente a fissare il suo viso aveva il naso completamente all’insù.
- Scusami zio, – disse – Per caso hai visto Anja? –
Lo zio arricciò di poco le labbra, pensieroso.
– No, non mi sembra, mi dispiace. Ma chiedi pure a me – le rispose cortese, quasi non fosse sua nipote ma una dei suoi tanti clienti. Si, era un avvocato lui, anche se ormai era vicino alla pensione.
- Dovrei chiederle quando arriva sua figlia. – rispose abituata alla perenne cortesia dello zio – Mi aveva detto che entro oggi sarebbe arrivata da Görne. –
L’uomo aprì di poco la bocca, illuminandosi.
- Oh, già è vero! Mi ha detto che Jinny sarà qui tra un paio di giorni -
- Jinny? – si aggrottò Vale.
- Si, si chiama così. Adesso scusami, stavo uscendo. Ci vediamo dopo – la salutò sbrigativamente, prendendo la giacca elegante dall’attaccapanni. Poco dopo la salutò e uscì. Lo sbattere della porta di legno rimbombò nel corridoio.
Fantastico, altri due giorni.
Aprì il frigorifero nel cucinino, prese il brik di succo di frutta e se ne versò un po’ in un bicchiere blu.
Mentre sorseggiava sperò solo che quella Jinny fosse simpatica almeno quanto le raccontasse Anja. Da tanto non vedeva qualche faccia nuova e si convinse sempre di più che quella sera con o senza compagnia sarebbe uscita.
Sempre con il bicchiere in mano andò nel salone e si sedette sull’immenso divano ad angolo in pelle, proprio di fronte all’enorme televisione. Incrociò le gambe e la accese, scegliendo un canale qualsiasi. Non voleva davvero guardare la televisione, desiderava solo una compagnia, una voce che non fosse quella della governante o degli zii. O del cane che aveva scoperto si chiamava Elsa. Effettivamente si sentiva parecchio isolata dal mondo, da quando era lì. Era come se un involucro la avvolgesse, la isolasse da tutto ciò che c’era là fuori. E lei voleva uscire da quell’involucro, perchè là fuori non c’erano solo cose brutte. Almeno, credeva. Sperava.
Si sdraiò sul divano e fissò nessun punto in particolare, mentre il telegiornale alla tv annunciava il passaggio dalle notizie di cronaca a quelle del mondo dello spettacolo.
- Vi informiamo ora riguardo la salute del cantante della band Tokio Hotel.
Bill Kaulitz, 18 anni, è stato operato alle corde vocali a Berlino ed è stato obbligato a dieci giorni di silenzio assoluto, scaduti circa una settimana fa. Il loro manager, David Jost, ci aggiorna continuamente sulle sue condizioni di salute e ci ha da poco informato che il celeberrimo vocali ha ora ripreso a parlare e che ogni tre giorni è controllato da uno dei migliori medici della Germania, specializzati in malattie alla faringe e alla laringe. Ci dice inoltre che lo stesso Bill ci tiene a ringraziare tutti i fans che lo sostengono continuamente, che grazie a loro non si sente mai solo e che percepisce la presenza di milioni di cuori vicino a lui. Un grazie a David e auguriamo a Bill, credo di parlare a nome di tutti, una rapida guarigione.
Passiamo ora alle altre notizie. Il gruppo Die Fantasticien Fier ha scalato velocemente le classifiche... – e la voce del giornalista si fece sempre più fievole finché Vale non la ascoltò più, anche se precisamente si era persa quando il giornalista aveva cominciato a dire qualcosa su alcuni fans.
Non aveva guardato le immagini del servizio, ma si era ritrovata a pensare, sorridendo, a quanto fosse piccolo il mondo. E a quanto quel ragazzo famoso avesse in comune con il suo Bill.
“Il mio Bill? Ma ti sei rimbecillita?”
Strabuzzò gli occhi e scosse i capelli, scacciando via quei pensieri assolutamente anormali.
Una strana sensazione la pervase, una sensazione di leggiadria, di serenità. Quasi felicità, qualcosa che la spingeva a sorridere ogni volta che la mente ricadeva su di lui, a quanto fosse simpatico sul serio. Al fatto che quel sorriso fragile le mettesse serenità, che quegli occhi guizzanti la divertissero
Senza rendersene conto, ritrovò con un sorriso ebete stampato sul viso, gli occhi al cielo che ormai vedevano solo le sue fantasie e il ricordo di un rumore lontano che doveva essere un suo sospiro sognante.
Si alzò in fretta dal divano e si diede due colpetti sulle guance.
- Valentina?! Riprenditi – si disse, rimproverandosi da sola.
Lei... non poteva permettersi di ricascarci. L’amore era un’arma, un baratro, un pericoloso burrone dal quale era, e sarebbe sempre stato difficilissimo uscire una volta cascataci. E lei non voleva più cascarci.

Capitolo 6.

Due giorni dopo

All’improvviso si sentì un gran fracasso. Una porta che si chiudeva, il tonfo di qualcosa che cadeva pesantemente sul pavimento. Valentina vide la figura di Anja slacciarsi il grembiule, lanciarlo contro una sedia e correre all’improvviso verso l’ingresso, con un’espressione entusiasta sul viso.
Chiuse il libro che stava leggendo (di Anna David, per la cronaca) e accigliata, in tuta e calzini di spugna, si diresse verso l’entrata. Anja abbracciava una ragazza, e una valigia caduta sul pavimento.
- Finalmente sei arrivata – disse Anja allontanandosi da lei e sembrava che stesse facendo una proclamazione ufficiale. La sconosciuta sorrideva e guardava quella che probabilmente era la madre.
- Hai avuto difficoltà con il viaggio? – le chiese Anja amorevole.
- No mamma, nessuna. Liscio come l’olio –
Allora era davvero sua madre. Non l’avrebbe detto, data la diversità dei lineamenti. Anja era bionda, piuttosto bassa e tozza anche se con un bel viso dolce. La ragazza invece era diversa: alta e abbastanza sottile, aveva lisci capelli corvini e due occhi neri incastonati in un volto dalla pelle scura e i lineamenti un po’ più marcati rispetto a quelli della madre.
La sconosciuta fissò improvvisamente il suo sguardo su di lei, mentre ancora era intenta a rimuginare e la sua espressione si fece a metà tra il sorpreso e l’entusiasta. Lanciò un’occhiata interrogativa alla madre, che annuì, ancora sorridente. Di cosa annuiva, Vale non lo sapeva.
La ragazza si diresse a passo svelto verso di lei, tendendole la mano. Era carina, effettivamente. I capelli neri incorniciavano con un carré il suo viso e due grandi cerchi bianchi pendevano dalle sue orecchie.
- Tu devi essere la famosa Valentina. Io sono Jinny – si presentò con un sorriso entusiasta. Accidenti, già non le piaceva: quell’aria sempre allegra e irridente stampata nei lineamenti del viso e la confidenza esagerata con cui la trattava la mettevano un po’ a disagio.
- Famosa? – ripeté poi e fu inevitabile far ricadere il suo sguardo su Anja.
- Si, mia madre mi ha parlato tanto di te. A proposito, ti sei ripresa? – chiese come se la conoscesse da sempre. Ma si era persa qualche passaggio?.
- Da cosa esattamente? – chiese spaesata.
- Dalla tua malattia. Ho saputo che non sei stata bene – disse come se fosse una cosa ovvia. Quella notizia aveva fatto il giro del mondo più velocemente di un gossip fresco fresco su un personaggio famoso.
- Oh! Si, certo, ora sto benissimo – disse cercando di essere cortese. Anja s’intromise, evitando lo sguardo colpevolizzante di Valentina.
- Ragazze, andate in salotto, vi preparo qualcosa da mangiare. Suppongo che vogliate conoscervi meglio e questo non è il posto più adatto. Poi vi preparate e uscite –
Uscire? Chi aveva mai parlato di uscire?
- Uscire? – chiese cercando di mantenere la calma. Jinny le regalò un altro dei suoi sorrisi smaglianti.
- Certo, stasera usciamo per distrarci un po’, poi a me manca tanto Berlino – spiegò sollevando le sopracciglia.
- Oh – gorgogliò Valentina, già rassegnata al fatto che era già stato organizzato tutto senza nemmeno chiedere il suo parere.
Come aveva suggerito la governante, si diressero in salotto e si sedettero sul divano e Jinny cominciò a inondare Valentina di notizie sulla sua vita. Scoprì che la ragazza aveva diciannove anni, che viveva a Görne con il suo fidanzato di ventiquattro anni (con cui era scappata quando aveva quindici anni e con cui aveva comprato una casa grazie ai soldi della famiglia) e che aveva lasciato la scuola appena possibile. Ogni tanto ritornava da sua madre e si faceva ospitare per qualche giorno dai signori Corsucci, per poi ritornare a lavorare come apprendista parrucchiera nella sua città, presso un parente del ragazzo (che si chiamava Ricky).
Quando finì di raccontarle tutta la storia della sua vita, Valentina aveva un sopracciglio inarcato e la bocca socchiusa.
Il genere di ragazza con cui non c’era bisogno di essere mentalmente presenti, ma con cui bastava annuire.
- E tu invece? Parlami di te – le domandò Jinny sempre con la sua aria allegra e a suo agio come un pesce nell’acqua. Valentina scrollò le spalle, abbassò gli occhi e fece volteggiare la cannuccia arancione nel bicchiere di succo di frutta che Anja aveva portato poco prima.
- Io vivo in Italia con mia madre e mia sorella, studio, mi piace cantare, leggere... – cominciò, ma Jinny alzò le mani.
- Aspetta, aspetta: – la interruppe dubbiosa – solo con tua madre? E tuo padre? Non vive con voi? – la mitragliò di domande. Vale accennò ad un no con la testa.
- No – rispose con studiata pacatezza – Sono solo separati – chiarì sbrigativa, adombrandosi improvvisamente. L’argomento su cui erano cadute non era esattamente il più accomodante.
- Ti prego scusami – disse Jinny improvvisamente corrucciata e le posò una mano su quella di lei, posata sul ginocchio – E’ che quando sono entusiasta divento indiscreta e non mi rendo conto di essere indiscreta a volte – si scusò, sinceramente dispiaciuta. Vale cercò di sorriderle mascherando meglio possibile l’ombra passatale davanti al viso.
- Non ti preoccupare, capita. – la giustificò alla fine.
Jinny guardò l’orologio a muro sopra la televisione appena lei ebbe finito di parlare.
- Oh, santo cielo, tra un’ora dobbiamo uscire. Preparati Valentina, ti porto in giro. – le annunciò sorridente.
Vale si accigliò: di solito non ci metteva più di dieci minuti a prepararsi, perchè doveva cominciare a vestirsi con addirittura un’ora in anticipo?
Senza nemmeno elaborare del tutto quei pensieri, si trovò letteralmente trascinata per un polso da Jinny nella sua stanza, di fronte all’armadio.

Finalmente quei giorni di solitudine forzata sarebbero finiti.
Bill camminava avanti e dietro come un matto per il corridoio, lanciando fugaci occhiate all’orologio che si poteva intravedere dalla porta aperta della cucina.
Avanti, indietro.
Avanti, indietro.
Sguardo all’orologio e di nuovo avanti e indietro.
- Ma santo cielo Bill, vuoi darti una calmata? Tra poco arriveranno! – squittì annoiata Kaya, mentre transitava affaccendata per il corridoio.
Lui sbuffò, ma aumentò il passo. Si era messo pericolosamente un’unghia in bocca e non era mai una buona cosa, mai.
- E se avessero sbagliato strada? O peggio: se avessero tamponato? Oppure se qualcuno li avesse scoperti, aggrediti, fossero stati bloccati nel traffico, si fossero fatti male? Come faremmo? Il gruppo...David mi ammazzerà, lo so, perchè ovviamente lui se la prende sempre con me per tutto, anche quando non c’entro niente, no ma questa volta glielo dirò che... -
Kaya sbuffò uscendo da una stanza con le mani libere.
- Ehi! – urlò, zittendolo improvvisamente – Piantala – gli ordinò inchiodandolo con gli occhi. Bill annuì, improvvisamente più calmo.
- E’ che.. sono agitato... – cercò di giustificarsi, sempre con lo sguardo basso, mentre scuoteva le spalle. Anche quella volta lo fece apposta: era ben consapevole del suo potere su tutti.
- Lo vedo, ma porti sfiga! – berciò sparendo dietro la porta del bagno. Evidentemente doveva rimettere gli asciugamani a posto, ma Bill sapeva che ogni volta che lui faceva la faccia del cane bastonato lei non poteva rimproverarlo e guardarlo al tempo stesso.
Agitò le dita sottili e si sollevò un paio di volte sulle mezze punte, nervosamente.
All’improvviso si sentì il rumore di un clacson.

Vale guardò il suo riflesse nello specchio a muro nella sua stanza. La sua espressione era... dubbiosa, stupita, incredula. Diede un altro sguardo alla sua immagine, molto diversa da quello che era stata giorni prima. A partire dai suoi capelli: scendevano lisciatissimi sulle spalle, adagiati ordinatamente sul suo petto e dietro la schiena. Il viso non più naturale, ma truccato con qualche sfumatura marrone sugli occhi, in tinta con i riporti della maglia e della gonna a pieghe che indossava. Non si sentiva se stessa, conciata in quel modo. Non era tipo da fronzoli e trucchi lei, preferiva di gran lunga un paio di jeans e una maglietta.
Jinny si posizionò dietro di lei, rimirando anch’ella il suo riflesso.
- Visto che sei uno schianto? – le domandò distrattamente, controllando il la parte posteriore dei suoi jeans. Valentina sorrise appena, senza mostrare i denti.
- E non hai nemmeno bisogno del rossetto, le tue labbra sono già scure così – constatò rimettendosi frontale allo specchio.
- Se lo dici tu... – sussurrò Valentina scrutandosi ancora con espressione poco convinta. – Dove mi porti stasera? – glissò, un filo di entusiasmo nella voce. Le labbra di Jinny si aprirono in un sorriso candido.
- Al Duomo. E’ una cosa favolosa, specialmente di sera. E’ tutto illuminato e quando vengo ci trovo sempre tutti i miei amici. Vedrai, ti piacerà – le rispose si sistemandosi la coda di cavallo.
- Hai la macchina? – le domandò Vale improvvisando un ciuffo alto ai suoi capelli: faceva troppo caldo per portarli sciolti.
- Si – rispose, mentre uscivano. – Oh Vale ho dimenticato la borsa, torno dentro a prenderla – la avvisò correndo in casa.
Vale si ritrovò sul piccolo spazio precedente la scalinata.
Le fu impossibile non lanciare un’occhiata disinteressata alla sua destra, alla villa dove abitava Bill.
In quei due giorni si erano incrociati spesso e qualche volta si erano anche parlati. La sua compagnia cominciava a piacerle sul serio, le conversazioni non si portavano mai su un tono eccessivamente serio e riusciva a farla ridere con niente, facendola sentire parecchio serena.
Vide una macchina abbastanza grande parcheggiata proprio di fronte al cancello della proprietà, dai finestrini oscurati e almeno due uomini vestiti ordinariamente, ma dall’aspetto di armadi, che la circondavano. Spostò il peso su una gamba e assottigliò la vista: uno sportello posteriore si aprì e un ragazzo con i vestiti larghissimi e lunghi dread ordinati in una coda fuoriuscente da un cappellino sbucò da dentro. Nonostante fosse sera indossava grandi occhiali scuri. Poi vide uscire dal portone Bill, che sorrideva e gli andava incontro, a grandi, eleganti falcate.
I grandi omaccioni le lanciarono poche occhiate fuggenti e intimidatorie, che lei non si spiegò.
Dopo essere inciampata in quegli sguardi truci, spostò lo sguardo rivolgendolo dietro di se, desiderando ardentemente che l’amica la raggiungesse il più presto possibile.
- Jinny, ci sei ancora? – urlò affacciandosi in casa.
Finalmente la vide andarle incontro, percorrendo il lungo corridoio con un sorriso.
- Scusa, non trovavo il cellulare e non mi ero ricordata di averlo lasciato in carica al piano di sopra – spiegò sempre in quel suo modo troppo dettagliato, troppo allegro chiudendosi la porta dietro di se.
- Andiamo? – le disse sorridente. Valentina annuì e ignorando Bill e lo strano ragazzo, si affrettò a scendere le scale.
Stava percorrendo il sentiero lastricato, certa che Jinny la seguisse, quando sentì un acutissimo urlo provenire dalle sue spalle.
Con gli occhi sgranati si voltò verso la ragazza e notò l’espressione stravolta di Jinny che fissava la villetta.
- Jinny che hai? – le chiese preoccupata. L’amica la guardò ancora più stravolta, poi ritornò con gli occhi sull’oggetto del suo sconvolgimento.
- Non ci posso credere... – gracidò, il tono di voce al di sopra di qualche ottava, gli occhi che fuoriuscivano dalle orbite. Il suo dito si puntò verso l’assurda visione. Vale voltò la testa e capì che quel dito accusatore era puntato contro Bill e lo strano rastaro. Aggrottò la fronte, Bill si morse il labbro inferiore e il viso s’increspò in un’espressione preoccupata. Ma che stava succedendo?
Jinny si avvicinò ai ragazzi con un’espressione indefinibile sul viso. Un incrocio tra l’euforico e lo spiritato.
– Jinny, ma che fai?! – le urlò dietro tentando di seguirla, ma quando la raggiunse era praticamente di fronte ai ragazzi.
- Ciao Tom! – squittì Jinny, mentre gli porgeva la mano – Io sono Jinny! – si presentò.
- Ciao Jinny – il ragazzo sfoderò uno dei suoi sorrisi migliori e la strinse. I bodyguard si guardavano intorno preoccupati, specialmente uno, che armeggiava con un palmare e una ricetrasmittente al tempo stesso.
“Ma che sta succedendo?” pensò con orrore. Come faceva Jinny a conoscere il nome del ragazzo?
Jinny porse la mano anche a Bill, che la accettò con un mezzo sorriso stentato. I suoi occhi viaggiavano da quella ragazzina euforica alla figura dolce e piacevolmente diversa di Valentina, che esibiva una giustificata espressione spaesata.
- Mi fate un autografo per favore? – Jinny stridette ancora, adulante – Per favore! –
- Certo – rispose quel Tom, cordiale, mentre Bill si ostinava a stare in silenzio, lanciandole spesso fuggevoli occhiate.
Jinny si affrettò a prendere una penna e un pezzo di carta dalla borsa.
Il rasta si appoggiò al muretto bianco e ruvido e ci pasticciò qualcosa sopra. Bill fece lo stesso. Non aveva detto nemmeno una parola, le mani gli tremavano appena.
- E la tua amica rimane in silenzio? - disse poi Tom con blanda sorpresa. Oddio. Si stava riferendo a lei?
Jinny serrò le dita intorno al suo polso, e la trascinò accanto a lei.
- Ahi! – si lamentò Valentina e la guardò torva. Jinny si ostinò a non abbandonare quel suo onnipresente sorriso ebete. Per quanto potesse essere carina, sembrava proprio una cretina in quel momento.
- Questa è Valentina. E’ Italiana, i suoi zii abitano qui - la presentò, come se fosse un trofeo. Da quel momento l’umore di Valentina prese una piega pericolosamente negativa, molto in contrasto con i suoi occhi sgranati.
- Ciao... – gorgogliò con voce più ferma di quanto si sarebbe mai aspettata.
- Valentina, hai qui Bill e Tom dei Tokio Hotel e ti limiti ad un “ciao” stentato? – la rimproverò Jinny, lievemente isterica. All’improvviso tutto apparve chiaro: il Bill della televisione, quello che era stato operato a Berlino per un problema alle corde vocali, il celeberrimo vocalist... dei Tokio Hotel in realtà non era altro che il ragazzo che aveva conosciuto lei. Quello che “non era esattamente una persona importante, anzi”.
- Veramente... – la voce di Bill che cercava di replicare la fece riemergere dalla sua nuvola di pensieri. Alzò una mano, zittendo il ragazzo.
- Si, giusto. Ciao Bill – disse e gli regalò un sorriso mesto. Un sorriso lezioso e falso, così poco da lei che si stupì di se stessa. Bill la guardò un po’ stupito, ma lui non sapeva che era meglio che Jinny non sapesse nulla della loro conoscenza. Come era successo tante altre volte, qualcosa di doloroso come un cilicio si aggrappò al suo cuore, cominciando a ferire.
- Jinny, dobbiamo andare – concluse alla fine, rivolgendosi all’amica. Jinny la guardò come se fosse una stupida.
- Vale, non capita tutti i giorni di incontrare i gemelli di una delle band più famose del mondo, chiaro? Quindi ora stiamo qui – la ammonì. Anche Valentina ricambiò lo sguardo di poco prima e guardò lei come se stesse rimirando un’idiota. Poi un altro dei suoi sorrisi leziosi comparve sul suo viso. Non aveva intenzione di starsene lì ad idolatrare gente che non conosceva, gente che le aveva mentito. E poi c’erano quegli uomini alti che si scambiavano continuamente occhiate e le guardavano come se fossero una fastidiosa intrusione. Non aveva nessuna intenzione di sentirsi indesiderata.
Non voleva guardare quei ragazzi, non voleva guardare quegli occhi. Perchè ingenua si, ma stupida no.
Bill le aveva mentito. Ma come aveva potuto essere così stupida? Cosa le era saltato in mente? Il male esisteva anche lì, in quel posto lontano da casa. Non esisteva un mondo rosa, dove non si provasse dolore nemmeno se si batteva contro uno spigolo. Quelli erano i sogni, ed era meglio lasciarli nella dimensione in cui stavano.
Fece dietro-front e camminò verso la porta di casa, con un gusto amaro in bocca.
- Dove vai? – tuonò Jinny, dietro di lei. Sembrava che stesse facendo qualcosa di assurdo.
Si voltò verso di lei con un movimento nervoso e la coda di cavallo sfiorò la sua guancia, per poi scivolare di nuovo al suo posto. I suoi occhi brillavano di rabbia.
- Nel caso non te ne fossi accorta, le due celebrità qui presenti avevano tutta l’intenzione di farsi i fatti propri, quindi non vorrei sentirmi di troppo – berciò con voce tagliente. Si voltò di nuovo, trottò lungo le scale e sparì dietro la porta di casa.
I tre rimasero sorpresi da quella reazione. Passò circa qualche secondo prima che Jinny si voltasse verso di loro, decisissima a profondersi in scuse.
- Scusatemi, io davvero non so cosa le sia preso... -
- Ragazzi, tornate dentro adesso – proclamò la voce possente di Saki, interrompendo il delirio giustificatorio della ragazza che li guardava come se Valentina avesse sputato sulle loro scarpe.
- Cara Jinny, consiglierei alla tua amica una buona dose di Valium due volte al giorno prima dei pasti di persona, ma adesso dobbiamo andare. Glielo dici tu, vero? Ok, grazie – disse tutto d’un fiato e lasciando la ragazza di sasso, insieme al fratello che aveva sibilato un veloce “ciao”, se ne tornò in casa.

Valentina tornò dentro, sbattendo la porta. Si recò nella sua stanza e si abbandonò sul letto. La coda di cavallo le dava fastidio, e con un movimento collerico si sfilò l’elastico che raccoglieva i suoi capelli. Lo gettò via rabbiosamente, ma leggero com’era, l’effetto distruzione voluto da Vale non si attuò, anzi ricadde a terra, poco lontano da lei
Chiuse gli occhi, tentando come al solito di razionalizzare prima gli avvenimenti, ingoiarli poi.
Doveva riorganizzare i pensieri.
Primo, Bill faceva parte di una band. Una delle band più famose d’Europa questo comportava che anche Bill era famoso, inevitabilmente. Secondo, quel ragazzo era suo gemello.
Gemello?!
Non potevano essere gemelli, erano troppo diversi, erano praticamente uno l’opposto dell’altro. Fisicamente s’intendeva. Era assurdo. E come mai lei non li conosceva, non aveva mai visto uno di quei due volti su qualche tabloid, qualche giornale, in televisione? Possibile che fosse così fuori dal mondo, così fuori dai canoni?
Sbuffò, rassegnata. Lei non vedeva molta TV e non comprava mai giornali. Non vedeva programmi musicali, non conosceva lontanamente nemmeno le manifestazioni che questi organizzavano.
Si sentì scivolare lentamente in un abisso nero di vetri rotti.
Era una diciassettenne qualunque? Era una ragazzina normale?
Ci pensò su. La risposta alla prima domanda era decisamente positiva. Non aveva niente che la distinguesse dalla massa.
E alla seconda domanda non aveva risposta.
Sentì un moto di rifiuto verso se stessa, verso quella situazione surreale, verso tutto.
La porta della sua stanza si aprì e una Jinny più incazzata che mai si appoggiò indolentemente allo stipite, guardandola come se volesse affettarla.
- Beh? – chiese all’improvviso Valentina, spazientita da quel suo continuo fissarla. Non la sopportava. Non la sopportava!
Jinny scattò come una molla.
– Mi dici che cazzo hai fatto stasera? Che ti è saltato in mente? Mi hai fatto fare una figura di merda bestiale di fronte ai miei idoli! Ti rendi conto? – sbraitò stringendo i pugni ai lati dei fianchi. Brigitte accorse sentendo le urla.
- Che succede? – chiese, sull’uscio della cucina.
- Niente, una cosa tra me e lei. – la liquidò Jinny, senza nemmeno guardarla. La donna non rispose, rimase a fissarle con i suoi occhi castani spalancati.
- Allora? – tuonò Jinny, incitandola a rispondere. Batteva ritmicamente il piede a terra in un modo snervante, le mani sui fianchi.
- Allora cosa? –
- Che hai da dire per giustificarti? – ripeté, facendo schizzare il sopracciglio verso l’alto. Quel gesto altezzoso la infastidì più della sua vocina stridula, più della sua aria sempre allegra, più del suo parlare sempre a sproposito. Si sollevò dal letto e si mise in piedi.
- Ho da dire che non devo assolutamente giustificarmi e che la figura di merda l’hai fatta tu, solo mettendoti a gridare come un’isterica correndo a braccia aperte verso di loro. Perchè già che c’eri appendevi uno striscione e accendevi una sirena?! –
- Senti, occasioni del genere capitano una volta sola nella vita! Era ovvio che avrei reagito così, quei ragazzi possono essere visti solo in televisione e se non li avessi visti stasera avrei dubitato che erano fatti di carne e sangue! –
Valentina sgranò gli occhi. Era così oca? E quei ragazzi erano così importanti?
- Ma che vuol dire?! Ti annichilisci così per un paio di bei faccini? –
Era sconcertata.
- Si! – rispose Jinny, convinta – Perchè io farei di tutto per passare del tempo insieme a loro! Di tutto! – scandì bene le ultime due parole, sputando fuoco anche dagli occhi.
- Non riesco a credere che tu sia questo Jinny. Non hai una dignità, un’intelligenza? Perchè...-
- No, stai zitta! Tu non capisci niente e hai rovinato un sogno! – le sbraitò contro, interrompendola.
Valentina abbandonò le armi e lasciò le braccia cadessero abbandonate lungo i fianchi. Rinunciò a farla ragionare. Era troppo accecata dalla rabbia e dalla sua ossessione per quei ragazzi. L’antipatia che nutriva per lei si trasformò all’improvviso in compassione. Si sentì triste e impotente. Se reagiva così, forse un po’ di affetto per Jinny lo provava, in fondo. Le venne da piangere, così, senza un perchè. Voleva farlo e basta, ma si trattenne.
- Non usciamo più? – le chiese alla fine, la voce bassa, sapendo ovviamente che non c’era bisogno di una risposta.
Jinny che si era accasciata vicino al muro la guardò: sembrava stanca, tutto d’un tratto.
Brigitte sparì in cucina senza dire una parola.
- No – rispose. Chiuse gli occhi, si tenne la testa con le mani – Ma se vuoi proprio uscire prendi la macchina e vai da sola – sibilò, gli occhi ancora chiusi.
Valentina si stupì: possibile che non sapesse che era minorenne e che non aveva la patente?
- Si, grazie – accettò. Se non fosse stata triste, avrebbe sorriso perfidamente.
Lei sapeva guidare, guidava da quando aveva quattordici anni. Prendeva clandestinamente lezioni da suo cugino. Non quel cugino, un altro, Luca.
- Le chiavi sono sul mobile nell’ingresso, la macchina è la Golf gialla parcheggiata quì davanti. I numeri della targa sono 667. Non puoi sbagliarti –

- Adesso mi devi dire che cazzo hai combinato – ringhiò Tom contro il fratello, che aveva lo sguardo basso e la posizione di un bambino in castigo.
Appena entrati dentro, Tom aveva afferrato il suo adorato fratellino per la maglia, trascinato nel soggiorno e sbattuto letteralmente sul divano, noncurante delle sue lamentele e gli si era piazzato di fronte, con i pugni posati sui fianchi, mentre lo guardava, con fare minaccioso.
- Non ho combinato niente. Solo che, ecco, non le ho detto chi siamo... – mugolò di risposta il Bill con lo sguardo basso.
- Non hai avuto le palle, vorrai dire... – lo imbeccò Tom.
Scese il silenzio. Un silenzio in cui l’unico suono udibile a parte un fastidioso abbaiare di un cane vicino era il sospiro scoraggiato di Tom, che si abbandonò a peso morto sullo stesso divano, accanto a lui. Bill gli aveva detto che la tipa in questione non aveva la minima idea di chi fossero i Tokio Hotel, ma non gli aveva spiegato il fatto che non si era nemmeno sprecato a parlargliene.
Bill ripensò al sorriso di Valentina e a quella sua aria leziosa e vagamente disgustata. Molte persone lo avevano schernito, regalato sorrisi falsi, compassionevoli, altezzosi, sguardi che avevano lo scopo di farlo sentire meno di una nullità. Nessuno di quegli sguardi, di quei sorrisi aveva raggiunto il suo fine. Nessuno tranne quello di Vale. Forse perchè nel suo sorriso non c’era odio e disgusto, ma solo delusione. Forse perchè era l’unica persona al di fuori della sua famiglia e di una ristretta cerchia di amici che aveva conosciuto e a cui si stava affezionando sul serio. Forse perchè ogni volta che la vedeva il cuore gli batteva come non faceva da tempo.
- Tom... – trovò la forza di sibilare Bill. Lui lo guardò, distrattamente – L’ho combinata grossa? – chiese con il candore di un bambino, un bambino in castigo. Ancora una volta suo fratello sbuffò.
- Dipende Bill - gli rispose e Bill annuì, come se conoscesse già la risposta.

Niente parole. Solo sguardi. Dire tutto, senza mai dover dire nulla. E’ questo l’amore.

- Ora però ho bisogno di nicotina – affermò Tom e si alzò, sfregandosi senza un motivo le ginocchia, coperte da una delle maglie oversize che portava. Anche Bill si alzò, nervosamente, grattandosi uno degli avambracci: era proprio nervoso.
- Ti faccio compagnia – lo informò, ma Tom gli mise una mano sul petto e lo fermò.
- No, tu adesso ti stai buono buono in casa, perchè potrebbe venirti la tentazione di fumare e nel caso cedessi io sarò così gentile da usare la tua chioma fluente come scopino da regalare alla zia Kay e non credo ti farebbe piacere –
Bill rabbrividì al solo pensiero e si diresse con l’obbedienza di un bravo scolaro verso la play station. Tom lo vide accenderla con un’ultima, fuggente occhiata, poi uscì dalla stanza.
Tom aprì il portone e lo richiuse alle sue spalle. Ci si appoggiò con la schiena e si accese una sigaretta. Sentiva delle urla dalla villa accanto.
Chissà, forse la “tipa” in questione era anche lei isterica. Che l’avesse sopravvalutata? Forse si.
Ma che razza di ragazzina era una che non conosceva i Tokio Hotel? Gli sembrava così strano e surreale, quasi impossibile.
Fece un tiro e soffiò ancora fumo: una nuvola grigiastra galleggiò nell’aria formando strane volute dai contorni sfumati. Cercò immaginarsela esattamente come Bill l’aveva descritta: bagnata, sofferente, fragile, con gli occhi vuoti e spezzati.
Ma... sbagliava o stava diventando sensibile? C’era molto più di quanto immaginasse di Bill in lui.
Sentì una porta sbattere. Il rumore attirò la sua attenzione e lo sguardo cadde quasi involontariamente verso la villa accanto, dove vide Valentina premere un interruttore nero accanto al porta d’ingresso per aprire il cancello e scendere le scale adornate ai lati da qualche pianta, un mazzo di chiavi in mano. L’espressione dura, gelida stampata in viso. Camminava con la testa un po’ chinata, lo sguardo un po’ basso, ma velocemente verso il cancello. Non aveva molto l’espressione di una ragazza piena di problemi con le onnipresenti lacrime negli occhi, anzi. Sembrava una stronza, fatta e finita.
Sentì una portiera sbattere e un rumore sordo di gomme che strisciavano sull’asfalto.
Impossibile. Era semplicemente impossibile. Quella ragazza non aveva nulla della dolcezza descritta da Bill. Nulla. Se mai aveva solo un culo da cinema.
 
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Lullaby;
view post Posted on 10/3/2009, 20:15




Ma perchè non pubblichi questa ff sottoforma di libro?
Parlo seriamente!
 
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Shynee
view post Posted on 10/3/2009, 20:30




Spero che tu stia scherzando...
 
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Lullaby;
view post Posted on 11/3/2009, 18:28




CITAZIONE (Shynee @ 10/3/2009, 20:30)
Spero che tu stia scherzando...

No, parlo sul serio!
 
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Shynee
view post Posted on 11/3/2009, 18:56




Non penso di poterlo fare XD. E' scritta malissimo, è immatura e piena di concetti da bimbaminkia. Mi sa che dovrò continuare a sognare per un po'...
 
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blueNACHT;
view post Posted on 11/3/2009, 19:26




Uh, hai recuperato i capitoli da quanto vedo.
Continua, continua, io sono con te *-*
 
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Shynee
view post Posted on 11/3/2009, 22:53




Capitolo 7.

Aprì gli occhi, balzò seduto sul letto morbido.
Il cuore pulsava, impazzito, aveva il respiro pesante e affannoso. Si passò una mano sulla fronte e la scoprì fastidiosamente umida. Era sudato. Sudato nonostante fosse stato scoperto. Ingoiò, fissando il buio della camera. Era stato solo un sogno. Solo un sogno.
Premette l’interruttore volutamente posizionato accanto al letto e la stanza s’illuminò.
Era solo. Solo il proprio riflesso nella specchiera di fronte a se gli faceva compagnia. Un altro se stesso.
Si alzò dal letto velocemente, voleva bene. Si infilò il primo paio di pantaloni di tuta e a piedi nudi si diresse verso la cucina.
Versò un po’ d’acqua nel bicchiere e in un attimo lo vuotò. Che ore erano? Fuori era molto buio, doveva essere notte inoltrata.
Lanciò uno sguardo al suo tecnologico cellulare, dimenticato sul tavolo della cucina la sera prima. Le 3:37.
Si versò un altro bicchiere d’acqua e si diresse verso la veranda della cucina.
Si sedette alla vecchia sdraio di plastica. Quella che era sopravvissuta alle continue lotte tra lui e suo fratello. Da quando la comprarono, quando avevano circa dodici anni, si era subita tutte le intemperie derivanti dai loro giochi spericolati. E aveva sempre resistito. Bill l’aveva voluta anche lì, nella loro casa nuova a Berlino.
Bevette un altro sorso d’acqua, mentre guardava il cielo.
Faceva freschetto e le stelle c’erano. La luna era piena, quella sera.
Era stato solo un sogno. Un frutto della sua mente. I suoi desideri vi erano stati proiettati, mettendolo di fronte alla realtà dei suoi sentimenti in un modo quasi spietato.
La sua superstizione e la sua convinzione che tutto accadesse per una ragione lo portarono a pensare che c’era un motivo se non era riuscito a... insomma... fare quello che voleva fare.
Scosse la testa. Non voleva che lei scappasse via, almeno non prima di averle dato spiegazioni. Perchè almeno quelle, gliele doveva. Ancora il vento si infranse sul suo corpo, quasi lo volesse attraversare. Brivido. Gli si era accapponata la pelle. Forse stava dando troppa importanza a quella questione. Era solo una ragazza, dopotutto. Era carina come tante altre. Delicata come potevano esserlo tante altre. Genuina, ma anche quella qualità era riscontrabile in altra gente.
- Bill – una voce dietro di lui lo raggiunse e lo fece sobbalzare. Si girò, il cuore ancora frenetico, e vide Tom che lo scrutava serio, penetrante e assonnato. I rasta sciolti liberamente sulle spalle e gli occhi assottigliati in un’espressione insonnolita gli davano una strana aria da cocainomane strafatto. E la cosa più buffa era che gli si addiceva. Ad un tratto se lo immaginò con gli occhi arrossati e sgranati, mentre rullava una canna e diceva con la voce impastata: “vivere è stupefacente”.
- Tom – rispose, rimettendosi poggiato allo schienale plastico della sedia.
Il fratello trascinò rumorosamente una sedia dalla cucina e gli si sedette accanto, stravaccandosi pigramente come era solito fare.
- Dimmi un po’, non trovi poco assennato da parte tua passare la notte in bianco sapendo che domani devi sciorinare il tuo adorabile faccino davanti alle telecamere e devi sembrare quantomeno allegro e spensierato? – esordì Tom, saccente. Bill accolse la saccenteria del fratello con un sonoro sbuffo.
- Forse con l’aiuto di qualche fata Turchina, domani riuscirò a passare sotto uno staff di parrucchieri e truccatori senza sfociare in una crisi isterica –
Tom corrucciò le labbra, in un’espressione indecisa – Le fate Turchine fanno magie, non miracoli Bill – lo stuzzicò.
- Già. L’hai scoperto quando le hai chiesto un cervello? – lo pungolò con un mezzo sorrisino.
- No, quando le ho chiesto di renderti taciturno - lo rimbeccò, tenendogli perfettamente testa.
- Stronzo –
- Fottiti –

Quando si dice affetto fraterno...

- Non lo farai! – sbottò, in preda al panico e alla rabbia – Non torcerai loro nemmeno un capello! Hai rovinato la vita a me, ma lascia stare loro! – le lacrime bagnavano il suo viso disperato. I suoi occhi erano vuoti, erano spenti, privati dell’ultima traccia di voglia di vivere che li animava debolmente.
- Ti prego... – sussurrò poi, in un’ultima, stremata preghiera, nel vano tentativo di risvegliare in lui un po’ di compassione. Il sole mattutino trapassava il vetro della finestra piccola e pacchiana e le feriva il viso, illuminandole solo una parte, scoprendo lo scroscio del suo dolore sulla gota arrossata. La luce del abat-jour posato sul comodino accanto a lei era spenta. Spenta come i suoi occhi che guardavano il loro interlocutore sorridere in un modo strano. Maligno. Terrorizzante.
- Ma così non sarebbe divertente... – sibilò l’altro, il tono velenoso e impregnato di sadismo – hai sbagliato, devi pagare, piccola mia. – continuò, sempre non guardandola in faccia, ma tenendo lo sguardo fisso fuori da quella finestra dai contorni in legno chiaro, così in risalto con l’oscurità che divorava la camera. Chissà cosa trovava di affascinante in quell’ammasso di cemento spento e triste che faceva prepotentemente capolino nella stanza dalla trasparenza dei vetri.
- Io sto già pagando! – ribatté, ancora più disperata, terrorizzata. Avrebbe fatto loro del male – Ma non devono farlo le mie figlie per me... – e scossa sempre di più dai singulti, accucciata su quel letto bianco e puzzolente, si raggomitolò contro la parete, con le ginocchia al petto. In quel momento sembrava più una bambina paurosa che una donna adulta. E si disprezzò per questo.
- No cara Gloria. – e finalmente, sempre con le braccia incrociate sul petto, si voltò verso di lei con un movimento elegante e fascinoso. La fissava, l’espressione ancora sprezzante e sadica stampata in viso – le tue figlie saranno il prezzo da pagare... devi fare quello che ti dico io se non vuoi che succeda loro nulla... – e ritornando a guardare il nulla dalla finestra, lasciò che la sua risata sommessa da pazzo spiritato echeggiasse nella stanza “delle torture”, come la chiamava lui, insieme ai sussulti di un’impotente Gloria.

Capitolo 8.

Praticamente Valentina quella mattina era rotolata giù dal letto in uno stato comatoso. Non che avesse dormito, ovviamente, ma si era comunque svegliata a mezzogiorno passato.
La notte precedente era infatti rientrata ad un orario indecente, con un mal di pancia e un mal di testa che la distruggevano. L’avevano gentilmente tormentata anche durante il “lunghissimo” tragitto dall’entrata della villa fino alla sua camera e non le avevano concesso tregua per tutta la notte. Ma lei lo diceva sempre: odiava essere femmina.
Ed il risultato di quel malessere misto ad una notte insonne e all’agitazione della sera prima era riflesso in quello specchio, proprio davanti a lei: gli occhi arrossati e piccoli, cerchiati da profondi solchi e un pallore mortale della pelle, messo in risalto dalle solite labbra colorite e piene. Sembrava malata.
Rantolando sommessamente si trascinò fino al lavandino e si lavò i denti.
Dopo una doccia, raccolse i capelli in una coda bassa e strisciò giù per le scale, sperando in un miracolo per raggiungere la cucina.
Riuscì ad arrivarci illesa ed entrando notò sua zia intenta in uno dei suoi strambi lavori a punto croce.
- Santo cielo Valentina, sembri uno straccio vecchio! – la sentì trillare appena riuscì a sedersi al tavolo per versarsi un po’ di latte freddo in un bicchiere. Avrebbe voluto ringhiarle di smettere di urlare, ma effettivamente non stava affatto urlando. Solo qualsiasi suono era amplificato di qualche migliaio di decibel nella sua testa.
- Buongiorno anche a te zia, anche tu sei bellissima. – sibilò ironicamente. Bevette il primo sorso del suo latte, ma ne rimase disgustata e ripose il bicchiere sul tavolo con una smorfia. Optò per uno dei biscotti asciutti dentro la piccola teglia di vetro posta al centro del tavolo.
- Ma dai, sono solo preoccupata! – rise Brigitte, senza staccare gli occhi dalla stoffa bianca.
- No zia non ti preoccupare.. non vedi che sto benissimo? – rispose Vale sardonica. Ma la donna fece spallucce e continuò il suo intreccio di fili. Assurdo, se l’era bevuta. Doveva provarci più spesso per saltare la scuola.
Già, la scuola... quello sarebbe stato l’ultimo anno. Quell’anno avrebbe avuto gli esami e lei se ne stava seduta tranquillamente nella cucina della sua zia multimilionaria tedesca invece che tra quegli odiosi e scomodissimi banchi verdi. Forse doveva darsi una mossa e cominciare almeno a pensare di tornare a casa. Anche se casa e incubo erano sinonimi per lei. Si alzò e si diresse vicino al calendario appeso nel cucinino, accanto al frigorifero. Trovò Anja intenta a sgrassare la cucina con una grossa spugna gialla. Quel giorno era il 28 di Aprile. Luna piena.
Sollevò la pagina di cartoncino e ignorando il capogiro che il braccio sollevato frettolosamente le aveva procurato, diede uno sguardo al mese di Giugno. Che aveva di particolare il mese di Giugno? Nulla, assolutamente. Il quindici avrebbe solo compiuto diciotto anni. E sarebbe stata libera. Quantomeno dalla scuola.
- Che è successo ieri? Ho saputo che non siete uscite più – esordì Anja, mentre si strofinava le mani bagnate sul suo grembiule fiorato e la guardava, interrogativa. Aveva già finito di pulire la cucina?
Valentina trascurò le onde sonore che si erano infrante contro i suoi timpani ampiamente amplificate e si sforzò di sorridere.
- Nulla, Jinny ad un tratto non aveva più voglia di uscire – rispose, semplicemente. Anja la squadrò da capo a piedi e il suo viso si increspò in un’espressione dubbiosa. Poi scosse candidamente le spalle e sparì da qualche parte nella casa. Vale intravide nel salotto, tutt’uno con la cucina, Jinny stravaccata sul divano con il telecomando in mano. Stava guardando la televisione, sicuramente. Sua zia stava ancora armeggiando con il suo lavoretto. Chissà lo zio Jimmy dove si era cacciato, mancava solo lui a completare il quadretto. Ingoiò un paio di pasticche per il suo “malessere”, bevette un antinfiammatorio, uscì dalla cucina e virò verso la biblioteca, verso il suo mondo.
Riuscì con non poca difficoltà ad aprire la porta, e a scivolare dentro. Senza guardarsi intorno la richiuse velocemente e vi si appoggiò con la fronte, gli occhi chiusi, poi sospirò. Era vero, quella mattina era proprio uno straccio.
- Valentina! – la chiamò una voce alle sue spalle. Sobbalzò e con uno scatto improbabile perfino per lei, si voltò, trovando lo zio seduto dietro la scrivania con un fascicolo in mano e due grossi occhiali dalla montatura spessa adagiati sul naso. Si premette la mano al centro del petto senza dire nulla e insipirò, cercando di calmare il suo cuore che doveva aver fatto una specie di salto mortale con triplo avvitamento. Si sentiva le arterie tutte annodate.
- Ti ho spaventata? – ghignò ancora suo zio.
- A parte lo stomaco al posto dell’esofago no – rispose mentre si dirigeva verso la finestra. Si sdraiò sul tappeto, come al solito, a pancia in giù.
- Esagerata. Che ci fai qui? – le chiese, riportando la vista, filtrata dalle spesse lenti, sullo strano foglio.
- Questo è il mio secondo mondo, zio – rispose sorridendo e guardò fuori dalla finestra. Un alveare di gente stazionava sull’asfalto e sui marciapiedi. La strada era transennata bloccando il traffico e il passaggio di qualunque pedone e c’erano almeno cinque volanti di polizia con tanto di lampeggianti accesi parcheggiate appena fuori il recinto di transenne. C’era molto movimento. D’un tratto tutto quel movimento si spiegò nella sua testa e il suo volto prese una piega infastidita, disgustata quasi, che accompagnò con uno sbuffo.
D’un tratto si trovò di fronte le scarpe nere ed eleganti dello zio. Le era venuto vicino e non se ne era nemmeno accorta. Alzò la testa, scorgendolo dal basso in alto.
- C’è movimento oggi – affermò in tono piatto, fissando lo sciame di persone armate di macchine fotografiche e telecamere. Erano a stento trattenute da poliziotti grandi e grossi che controllavano che nessun giornalista eludesse le misure di sicurezza. Tuttavia, se Valentina fosse uscita dalla villa, si sarebbe ritrovata all’interno dello spazio tracciato dalle transenne.
- Si – rispose lei, ancora più atona – sarà per quella specie di cantante... – e abbassò gli occhi disgustata da lei stessa e dal suo tono acido, rimirando i motivi geometrici del tappeto scarlatto. Cattiva. Spietata. Ingiusta. Bill non se lo meritava, in fondo.
“ma non sono esattamente una persona importante... anzi”
Serrò la mascella. Molto in fondo.
- Quello con cui ti ho vista giocare un paio di volte? – la punzecchiò lo zio con un mezzo sorrisetto sul viso, senza guardarla.
Valentina si sentì colpita. Avrebbe voluto morire. Si sarebbe sotterrata in quel momento.
- Io... beh... si... – farfugliò.
- Hai idea della fortuna che hai avuto? Quel ragazzo è conosciuto in tutto il mondo e adorato e riverito ovunque vada, non va in giro se non con almeno otto guardie del corpo a circondarlo ed è più ricco di un signore arabo –
“Per favore, basta...” supplicò la sua mente. Si sentiva già abbastanza stupida ripensando ai suoi comportamenti troppo... confidenziali. E troppo bruschi. Sicuramente non era abituato a farsi trattare così.
- E tu queste cose come le sai? – chiese scacciando dalla mente quei pensieri. Jimmy scosse le spalle, con disinteresse.
- Con una fan accanita come ospite dovrò pur averla imparata qualcosa – rise lui – Ma... lei è a conoscenza della tua tenera amicizia con l’“orsetto” come lo chiama lei? – domandò, sottolineando l’aggettivo “tenera”.
Valentina all’improvviso sentì le sue guance avvampare. Si decise ad alzarsi in piedi e a posizionarsi accanto allo zio. Sorvolando sul fatto che si sentisse un tappetto di sughero in confronto a lui, comprese la vera importanza e l’irrealtà di quella persona. Con chi aveva avuto a che fare.
Si mise una mano nei capelli, maledicendo ancora la sua impulsività e soffiò forte aria.
- Ehi, parlo con te! – la voce dell’uomo la scosse.
- Eh? – lo guardò interrogativa – Ah! No, non lo sa... e non ho alcuna intenzione di dirglielo – rispose decisa. Non gliel’avrebbe detto primo perchè l’avrebbe come minimo lapidata. E poi perchè quell’amicizia era destinata ad appassire con la stessa velocità con cui era sbocciata.
- Perchè? Dopotutto Jinny è una ragazza... –
- ...non adatta a conoscere certe cose. E poi tra me e Bill non c’è mai stato niente... – concluse abbassando il tono di voce all’ultima frase. Si stupì del tono triste che aveva usato, e un istante dopo si chiese perchè diavolo stava parlando dei suoi problemi adolescenziali con un signore che aveva oltrepassato abbondantemente la mezza età. Sentì ridere sommessamente suo zio accanto a lei: una risata che non si spiegò.
- Sarebbe bello avere una nipote fidanzata con una delle più celebri rock star d’Europa e dintorni – mormorò ghignando.
Valentina dapprima sorrise; poi ricordò: lei non era esattamente normale. E il sorriso divenne pregno di amarezza e malinconia.
- Zio... devo dirti una cosa importante – glissò abilmente, carpendo il momento giusto. Distolse lo sguardo dalla confusione che riempiva la strada per portarlo sul viso appena rugoso e ilare dello zio.
- Io voglio... – voglio tornare in Italia entro la prossima settimana – voglio andare a fare un giro fuori. Posso? -

- E STOP! – urlò ancora l’addetto alla registrazione dei video. Bill sciolse il sorriso che pochi secondi prima gli solcava il viso e abbandonò la testa allo schienale del divano. Chiuse gli occhi. Doveva riabituarsi a quel ritmo. Doveva riabituarsi alle telecamere e all’assenza totale di privacy. Si coprì le palpebre pesantemente truccate con un braccio concedendosi un profondo sospiro.
- BILL! – urlò minacciosamente una voce femminile all’improvviso. Sobbalzò, guardandosi intorno spiazzato e riconobbe Natalie che lo guardava furiosa mentre si puntellava le dita sui fianchi magri.
- Che c’è? -
- Alza immediatamente la testa dal cuscino e non permetterti più di metterti un braccio sugli occhi. Non ho intenzione di perdere nuovamente un’ora ad acconciarti e truccarti di nuovo. Chiaro? – sbraitò bruscamente, ricevendo in risposta un sonoro sbuffo del ragazzo, che evitò di guardarla negli occhi e si rimise composto.
- E non fare quella faccia annoiata, che non te lo puoi permettere! Si da il caso che sia io a lottare contro quella massa ribelle di serpenti che ti ritrovi sulla testa! E pensi che truccarti sia una cosa facile, visto che ti agiti sempre più di un’anguilla? –
Bill si prese la fronte tra le mani, mentre lei continuava a urlargli contro di tutto. Ancora dieci secondi. Se non avesse smesso di blaterare entro dieci secondi l’avrebbe fatta smettere lui. E poi tutti si chiedevano perchè diventava isterico. Era più che normale, avendo a che fare con gente anche più isterica di lui.
- E guardami quando parlo, signorino! - fu l’ultima frase che sentì. E fu la goccia. Bill sollevò la testa di scatto e ridusse gli occhi a due fessure. Le rivolse lo sguardo più omicida e carico di odio che potesse mai fare. Si alzò dal divano e le andò minacciosamente incontro – Ma la vuoi smettere di starnazzare! Non se te ne rendi conto ma sei proprio una rompi c... – non fece in tempo a concludere la frase che Georg lo prese sottobraccio e gli diede una “affettuosa” ed esagerata pacca sulla spalla.
- Bill! Ma guarda un po’, cercavo proprio te, amico mio! – sorrise alla donna diabolica e lo sottrasse al “tornado Natalie”. Lo trascinò in un posto completamente fuori dal raggio d’azione di quel concentrato di isteria: la cucina.
Tom era seduto sul piano di marmo intento a sorseggiare una birra e Gustav era abbandonato su una delle sedie che circondavano il tavolo. Bill si sedette su una sedia proprio accanto a quella dell’amico, piazzando poco galantemente i gomiti sulla superficie lucida del tavolo e poggiando la fronte sulle mani. La testa era pesante. Si era disabituato ai quintali di gel e lacca sui suoi capelli.
- Bill dovresti darti una calmata. Siamo ancora al primo giorno – suggerì Gustav rimirandosi una mano, prima di nasconderla nella tasca dei suoi pinocchietti neri.
- Abbiamo cominciato solo quattro ore fa e mi sono già preso la paternale prima da David, poi da Dunja e adesso anche da quella vipera solo perchè mi sono messo un braccio sulla fronte – si lamentò Bill, la fronte ancora poggiata alle mani.
- E perchè hai poggiato la testa allo schienale del divano – continuò Georg mentre prendeva una bevanda dal frigo. Non gli interessava cosa fosse, l’unica cosa che fece fu fulminarlo con un’altra delle occhiate truci.
- Che c’è? – gli domandò, e per un attimo Bill poté quasi vedere realmente i punti interrogativi di paillettes scintillare nei suoi occhi – diamo a Cesare quel che è di Cesare... – affermò scuotendo le spalle.
- Bill dai... prova a metterti nei suoi panni – esordì saggiamente Tom, parlando per la prima volta. Faceva roteare il residuo di birra nel fondo della bottiglia verde.
- Cioè? – chiese Bill incuriosito. Tom si scolò la bottiglia e la posò sul ripiano accanto a lui.
- Cioè che se io avessi a che fare con il figlio di una Drag Queen e un parafulmine e magari avessi pure le mie cose reagirei nella stessa maniera. Poi Natalie è anche rompipalle di suo... –
- Ah, rassicurante Tom, davvero – gli rispose Bill, che aveva abbandonato stancamente le mani sul tavolo. Tom non fece in tempo a sorridergli che tutti udirono dei piccoli urli. E delle lamentele che facevano da eco ad una voce possente.
Accigliati e curiosi, si diressero tutti e quattro fuori dalla porta d’ingresso. Tom rimase più indietro: saltando dal mobile della cucina era inciampato nei pantaloni.
Una volta fuori, Bill si stupì dello spettacolo che vide: oltre il cancelletto spalancato della villa, Saki era in strada mentre afferrava per un braccio una ragazza dal viso estremamente familiare. Ovviamente i giornalisti riprendevano tutto, consapevoli però della poca importanza di quell’avvenimento: perchè era solo una fan, no? Una delle tante.
- Ragazzina, ti ripeto, come sei entrata?! – le urlò ancora Saki scuotendola dal braccio. Valentina serrò gli occhi.
- Casa mia è quella qui accanto, sono solo uscita per... fare un giro... – la sentì rispondere con la voce impaurita. E vide l’espressione che aveva: terrorizzata. Cercava in tutti i modi di interrompere il contatto fisico, ma Bill attribuì quel comportamento all’atteggiamento violento del bodyguard.
- Chi è? – domandò Gustav.
- E come ha fatto ad entrare? – proseguì Georg rimirando la scena.
Tom finalmente arrivò, sistemandosi la cintura dei pantaloni che si ostinavano a scendere.
- Mi sono perso qualcosa? – chiese, allungando il collo cercando di vedere qualcosa oltre suo fratello. Bill ignorò la domanda, scese le scale a velocità supersonica e si diresse verso il cancelletto aperto, certo che le fronde delle siepi ben curate lo coprissero dai flash delle macchine fotografiche.
- Saki! – urlò, anche se a voce moderata. Ebbe quasi subito su di se l’attenzione dell’uomo.
- Bill scusa, davvero non so come abbia fatto ad entrare... – cercò di giustificarsi lui, con tono mortificato.
Bill intanto portava gli occhi dallo sguardo impaurito di Vale agli occhiali dalle lenti sottili dell’uomo.
Idea.
- No è mia amica. Falla entrare. – concluse.
Gli occhi di tutti si dilatarono, quelli di Vale compresi. Tom fu certo di aver sentito l’occhio destro contrarsi un paio di volte e un orecchio fischiare all’improvviso.
Ma se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto. No?
- Cosa? – chiese Saki, incredulo. Bill sbuffò sonoramente.
- Insomma vuoi farla rimanere lì e darla in pasto ai giornalisti? Muoviti, portala dentro! – urlò come se stesse parlando di un oggetto. S’infastidì lui stesso del tono che aveva usato, non osava immaginare come si fosse sentita Vale sentendo parlare di lei in quel modo.
Alla fine Saki capitolò e mollò la presa, la accompagnò dentro casa.
Valentina ebbe un tuffo al cuore quando fece il primo passo nell’ingresso. C’era un grande viavai di gente che non faceva minimamente caso a lei, di cineprese e telecamere, inoltre c’erano fili dappertutto. Ma dove era finita? Sul set di un film?
Voleva andare a casa. Voleva trovarsi in qualunque posto che non fosse quel luogo. Vide davanti a se due ragazzi che non conosceva: uno le parve subito la copia umana (seria e ben riuscita) di Winnie the Pooh, l’altro lo doveva ancora studiare.
Poi qualcuno la prese per mano. Non sapeva chi fosse. L’unica cosa che aveva subito notato era il contrasto tra le testa leonina e il fisico magro. Le dava le spalle mentre la trascinava, non capiva chi fosse.
- Vieni con me – si sentì mormorare e senza quasi accorgersene si trovò mano nella mano con quello strano tipo mentre la conduceva su per le scale. Cominciò ad allarmarsi: dove voleva portarla? E perchè la teneva per mano?
Quando entrambi si trovarono nel corridoio del piano superiore, Valentina lasciò la presa con un gesto repentino e quasi violento. Il ragazzo si voltò per guardarla, la fissò per un po’ spaesato.
Ma Vale aveva... paura.
- Chi sei? – domandò continuando a scrutarlo.
Il ragazzo sospirò e guardò in basso - Sono Bill, Vale. – le rispose malinconico, e le fece cenno di seguirlo. Lo raggiunse in una stanza abbastanza piccola, con le pareti candide. Un piccolo divano a due posti era posto dietro un tavolino basso e alla sua destra c’era un mobile che copriva tutta la parete, fungendo da libreria e da sostegno per la playstation e il televisore al plasma.
- Per favore aspetta qui, abbiamo quasi finito. Ti raggiungerò appena possibile – disse Bill accanto a lei. Sembrava quasi una preghiera la sua.
- Si... – rispose, poco convinta, con lo sguardo basso. Non riusciva a guardarlo negli occhi e non sapeva perchè.
- E non scappare – le disse ancora. Riuscì con la coda dell’occhio a vedere che sorrideva a malapena, ma non rispose. Si diresse verso il divanetto e ne occupò una piccola parte, compattandosi. Sembrava che dovesse condividere quel due posti con altre tre persone. Poi Bill chiuse la porta, lasciandola sola.
Era davvero Bill quello? Forse si, ma... conciato in quella maniera... non le piaceva. Forse quello era il ragazzo dei tabloid, dei maxi schermi e dei concerti, quello truccato con i capelli sparati.
Ma cosa ci ha fatto a quei capelli?
Si grattò la testa e valutò varie possibilità: escluse l’elettroshock. Optò per quantità industriali di lacca, gel e innumerevoli passate di piastra.

Circa venti minuti dopo, la confusione che si sollevava dal piano inferiore cessò con lo sbattere di una porta: forse quella d’ingresso, Valentina non lo sapeva. Incrociò le braccia sul bracciolo del divano e ci nascose dentro la fronte. Chiuse gli occhi. Attese ancora un altro po’ in silenzio, tendendo le orecchie, chiedendosi cosa caspita ci facesse lì, perchè Bill le desse tanta attenzione e perchè non l’avesse mandata a fanculo direttamente. Forse l’avrebbe fatto quel giorno stesso. Meglio: lei si sarebbe risparmiata spiegazioni inutili e lui non si sarebbe perso proprio niente. Ma perchè non la finiva di autocommiserarsi?! Stava esagerando. Gli agi e le comodità non le facevano bene, no. Si stava concedendo troppi lussi, a partire dal dormire due giorni per finire con il giro in macchina e tornare a casa alle quattro passate del mattino.
Mentre il suo caotico flusso di coscienza si divertiva a torturare il suo cervello, si rese conto di avere la fronte appena sudata. Alzò la testa e ancora ad occhi chiusi si passò una mano sulla fronte. Non era sudata, era solo calda. Aprì gli occhi e... rivelazione. Bill era appoggiato con la schiena alla porta e la scrutava.
Era vestito nella stessa maniera di poco prima (maglietta bianca e pantaloni neri) ma era struccato e aveva i capelli bassi e disordinati che scendevano sulle spalle. Si vedeva che erano appena stati lavati.
- Pensavo ti fossi addormentata – disse con un mezzo sorriso. Valentina roteò gli occhi per scacciare quel pensiero. Certo, sarebbe stato il colmo. Il colmo dei colmi.
- Non ti ho sentito arrivare – rispose. Prese a torturarsi le mani.
- Finalmente abbiamo finito. Non c’è più nessuno – lo sentì affermare con un sospiro di sollievo, probabilmente più a se stesso che a lei, che rimase in silenzio. Sentì la rabbia che provava poco prima dissolversi come freschi residui di nebbia sottile e farsi spazio dentro di lei la sensazione assillante di non sapere cosa dire, come comportarsi.
- Scusa per la scenata di prima, ma Saki è sempre un po’ irruente con le ragazze... - grazie al cielo fu Bill a rompere il ghiaccio; parlò a voce bassa.
Lei invece si chiuse nel silenzio: lo faceva sempre, quando si parlava di lei o quando intuiva che si dovesse parlare di lei.
Bill le si sedette accanto e quando vide il suo viso così vicino, sentì il cuore cominciare a battere convulsamente.
- Ti ha fatto male? – si sentì domandare.
Scosse violentemente la testa e si alzò di scatto. Voleva allontanarsi da lui.
- Senti, io ti devo delle scuse – prese a parlare Bill – mi dispiace di non averti detto nulla, ma mi piaceva che tu mi trattassi da ragazzo normale, che non ti facessi problemi a parlare con me. Mi piaceva che non mi morissi davanti appena mi vedevi. Se te l’avessi detto tutto questo sarebbe cambiato e io non... non volevo perchè... - s’interruppe, guardando in basso – perchè tu saresti stata... diversa -
E Vale non provò più nulla. Non sapeva come comportasi di fronte a tanta sincerità. Rimase solo lì, in piedi ad ascoltarlo.
- Mi dispiace che tu l’abbia saputo così... ma davvero quando la tua amica ci è corsa incontro e ti ho vista mi sono sentito male...quando mi hai sorriso in quel modo, io.. non so come spiegartelo... -
- Bill, lascia stare, ho capito – disse Valentina, interrompendo quel fiume di frasi sconnesse che sgorgava impetuoso dalla bocca del ragazzo. Senza volerlo si trovò a sorridere debolmente, anche perchè stava diventando blu. Aveva capito che era un tizio a cui non mancavano mai le parole, salvo qualche rara occasione.
- Pensi di potermi perdonare? – le chiese guardandola cautamente negli occhi.
Si alzò e le si avvicinò di nuovo, in un modo innocente, ma pericoloso: almeno per lei. Il sorriso scomparve dal suo viso.
- E’ passata Bill... - ...che importa se ti perdono o meno. Tanto non mi vedrai più.
Si voltò di spalle, per evitare di fissare i suoi occhi. Quel pomeriggio non ce la faceva.
- Ho l’impressione che tu mi dica così solo per tenermi buono. Mi stai nascondendo qualcosa? –
Valentina irrigidì visibilmente le spalle. Pessima, pessima attrice. Tanto valeva...
Finalmente si voltò e lo guardò negli occhi - Pensi che rimarrò quì per sempre? Tornerò a casa molto presto... e non mi vedrai più. Mi dimenticherai, il mio perdono a questo punto è relativo – si morse il labbro superiore. Eppure lei non voleva dimenticare.
Lo vide esitare qualche momento muovendo le labbra, poi una mano si posò sulla sua spalla – Io non voglio dimenticare... sei l’unica che mi abbia fatto sentire apprezzato per quello che sono e non per come appaio - mormorò.
Lei lo guardò ancora, ma non rispose. Non ne valeva la pena, perchè non lo capiva? Lei era un caso perso.
La mano scese accarezzando il suo braccio e quando la stoffa della maglia a mezze maniche non fece più da intermezzo tra le loro pelli, Vale si irrigidì di nuovo. Chiuse gli occhi all’improvviso e serrò la mascella.
- Lasciami – ringhiò. Non voleva essere toccata, non voleva essere toccata per la miseria!
Fu esaudita: Bill le tolse le mani di dosso e indietreggiò di qualche passo. Aprì gli occhi e vide la sua espressione quasi indignata. E fu allora. Una lancia la trafisse in pieno petto, dandole dolore. Era quasi fisico. Le sue guance tremarono per un momento. E più lo guardava negli occhi, più vi leggeva sgomento, sorpresa... delusione.
- Non mi guardare così... – mormorò a voce bassa, rassegnata. Come i suoi occhi che cominciavano ad inumidirsi. Ebbe repulsione di se stessa, del suo cazzo di subconscio che condizionava ogni suo atteggiamento.
- E come dovrei guardarti... mi hai guardato come se fossi uno stupratore – commentò acido. Altro colpo da incassare. Fissò all’improvviso i suoi occhi bagnati in quelli di lui, che erano delusi. E di nuovo pròvò rabbia.
Cosa poteva saperne lui?
- Delicato... – rispose con lo stesso tono pungente e la voce rotta – Ma in fondo non potresti capire... – mormorò a voce bassissima, non si aspettava certo che lui capisse. Si voltò verso la porta per andare via. Non sapeva che Bill non aveva nessuna intenzione di farla scappare. La afferrò per un polso e la costrinse a voltarsi.
- Aiutami a capire – la pregò, con stupore di lei. Aveva davvero sentito? Si rese conto solo poi della mano di lui, stretta intorno al suo polso. Un brivido freddo le attraversò la schiena insieme a mille immagini. Suo cugino quattro mesi prima l’aveva sbattuta a terra afferrandola da un polso. Sussultò violentemente e interruppe il contatto fisico forse con più violenza di prima.
- Lascia stare – ripose lapidaria. Sentì il desiderio di andare via e di scappare. Si voltò ancora, in direzione della porta.
- No, non lascio stare! – sentì urlare Bill alle sue spalle. Lei si voltò improvvisamente – Voglio capire perchè non riesci a lasciarti andare, perchè non vuoi essere toccata da me e perchè non parli con nessuno quando stai male! – agitava le mani davanti a se. Valentina lo vide mordersi il labbro e si accigliò.
- E chi ti dice che io non parlo con nessuno? E poi non sto male! – ribatté. Mentì, e anche spudoratamente. E lui doveva averlo capito, data l’espressione scettica e le braccia incrociate sul petto.
- Oh certo, una ragazza che scappa dalla sua casa in Italia per venire a Berlino, che scappa pure dalla sua casa a Berlino dopo una telefonata misteriosa, per farsi ritrovare fradicia qualche ora dopo su una panchina dev’essere proprio felice. Convincente come tesi, davvero –
Vale guardò da un’altra parte e un istante dopo si schiacciò le labbra.
- Quindi tu mi hai vista... – sussurrò.
- Oh, per favore, lo sai pure tu che ti ho vista – disse Bill, la fronte ancora corrugata – io voglio solo cercare di capire come mai non mi dici niente di te – il tono cambiò improvvisamente: diventò calmo, amorevole quasi.
- Innanzi tutto perchè ci conosciamo da... – soffiò fuori aria in un piccolo sbuffo – due settimane scarse? – inarcò un sopracciglio e roteò gli occhi - E poi perchè non c’è niente da dire – concluse. Bill non se la bevve.
- Io penso che ci sia molto da dire, invece – ribatté guardandola. Lei si premette i palmi delle mani sulla fronte e cercò di trattenere le lacrime. Parlarne voleva dire affrontare, affrontare voleva dire rivivere. No, nemmeno a pensarci. A costo di rimandare per sempre, lei voleva solo dimenticare.
- Senti ma perchè non te ne ritorni ai tuoi palchi e alla tua vita perfetta? Anche se ci fosse qualcosa da raccontare non la direi a te! – lo aggredì e una lacrima scivolò dal suo occhio. Vacillò un momento per un capogiro ma si riprese subito. E Bill era ancora lì, con la sua espressione indecifrabile e i pugni stretti ai lati dei fianchi.
- Sei solo una bambina – bisbigliò, più prossimo possibile al ringhiare.
Valentina dilatò gli occhi e lo fissò. Sentì la mascella cedere.
- Co...come hai detto? – domandò scioccata. Nessuno (tranne suo padre, ma i suoi insulti erano irrilevanti) le aveva mai dato della bambina. Nessuno, perchè lei non lo era affatto. E sentirselo dire da un ragazzino ricco e famoso che aveva sempre avuto tutto dalla vita la innervosiva.
- Hai capito bene. Ho detto che sei solo una bambina. Mi deludi – freddo, glaciale. Una freddezza che la colpì e che la trafisse. Un altro colpo da incassare.
- Oh! Sta parlando un ragazzino ricco e viziato abituato solo a schioccare le dita per avere quello che vuole! Ma che ne sai tu della mia vita, che ne sai di cosa ho passato e di cosa passo ogni giorno! – urlò. Non riusciva più nemmeno a vederlo. La sua era solo una sagoma bicromatica liquida e offuscata. Si premette ancora un palmo contro la fronte e quando chiuse gli occhi le lacrime sgorgarono copiose sulle sue guance arrossate dalla rabbia.
- E’ vero che non so niente della tua vita, ma almeno io, da ragazzino “viziato”, quando ho un problema ne parlo e cerco di risolverlo per stare meglio, tu pensi di fare la donna matura tenendoti tutto dentro? Fai preoccupare la gente e stai ancora più male. Ne vale la pena? – Inarcò un sopracciglio. Lei scostò le lacrime dagli occhi con una nocca e lo guardò, la fronte aggrottata.
- E chi ti dice che faccia preoccupare qualcuno...? – chiese Vale a voce bassa. Gli passò accanto per sedersi di nuovo sul divano, sentiva le gambe molli. Lui si voltò seguendola con gli occhi.
- Non fare anche la vittima ora. Fai preoccupare me, questo è certo – rispose. Le andò vicino, di nuovo in quel modo pauroso, per sedersi vicino a lei.
Era già pronta ad alzarsi, ma la sua voce la raggiunse prima – Non scappare, per favore. Non ti voglio fare male – ancora quel tono quasi supplichevole. La paura che avesse capito le attraversò la mente. Non si mosse. Rimase lì, a guardarlo.
Dirgli tutto?
Ma si, perchè no... In fondo, voleva liberarsi di quel peso. Voleva parlarne con qualcuno. Con lui. Lui che la guardava e aspettava che dicesse qualcosa. Socchiuse le labbra per parlare.
Ma qualcosa la bloccò.
Le labbra tremavano scosse dal pianto, gli occhi si riempivano ancora di lacrime. Non ci riusciva... lei non ci sarebbe mai riuscita. Guardò in basso rassegnata e una lacrima cadde sulla sua gamba sinistra, assorbita dalle fibre dei jeans scuri. Un singhiozzo la scosse. Ma stava piangendo?
Lei non voleva piangere, cazzo.
- Scusa – fu l’unica cosa che riuscì a mormorare, nelle lacrime. Lui rimase in silenzio, non disse nulla, cosa che lei apprezzò moltissimo. Si trovò a pensare che era la seconda volta che apprezzava la sua discrezione.
Si sentì asciugare le lacrime da un suo dito e non ebbe paura. Sentiva solo una irrefrenabile voglia di abbracciarlo. Di essere abbracciata. Ma come al solito rimase immobile al suo posto, con le mani unite in grembo. Perchè i suoi desideri e i suoi bisogni eccetto l’igiene, il cibo e il sonno non contavano.
Posò le mani sulle guance rosse e calde, quasi per cercare in loro quel calore che si negava da sola.
Sentiva Bill esitare accanto a lei, fremere, indeciso. Lo guardò e gli rivolse un sorriso umido e stentato. Lui ricambiò. E di nuovo quella sensazione che aveva provato il giorno prima. Quella di non voler lasciarlo andare via.
Tremante e cauta, prese una delle mani di Bill che teneva unite in grembo e la strinse, evitando studiatamente di incrociare il suo sguardo. Che stava facendo? Non lo sapeva, ciò di cui era certa era che in quel momento aveva bisogno di supporto. Anche solo il sentire qualcuno vicino a lei, qualcuno che poteva donarle calore anche solo grazie alla presenza era sufficiente.
Strinse un po’ di più la presa della sua mano, fissando il buio dal retro delle palpebre chiuse.
Poi, in un altro lunghissimo istante, un braccio si posò la sua schiena. Sorrise impercettibilmente si strinse ancora un po' di più, assaporando quel calore e quell’affetto che sentiva erano solo per lei, certa che sarebbe stata l’ultima volta.
 
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Lullaby;
view post Posted on 11/3/2009, 23:00




Ma quali concetti immaturi e da bimbaminkia!
è stupenda!
SPOILER (click to view)
Mi dai il tuo contatto? ^_^
 
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Shynee
view post Posted on 11/3/2009, 23:14




SPOILER (click to view)
Ti ho mandato un mp
 
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Shynee
view post Posted on 15/3/2009, 22:54




Capitolo 9.

Abbracciarla era stato un gesto spontaneo. Non sapeva cosa fare e cosa dire, perciò aveva deciso che l’unico modo per comunicarle che le era vicino, era abbracciarla.
Tanto dolore, tanta sofferenza per un qualcosa che lui non poteva nemmeno immaginare. E non lo voleva nemmeno fare, perchè quel poco che aveva intravisto dagli atteggiamenti scontrosi della ragazza raccolta tra le sue braccia lo terrorizzava e lo spingeva ad allontanare pensieri terribili. Tuttavia quella era l’unica spiegazione plausibile, per quanto raccapricciante. Ma il mondo faceva davvero così schifo? Certo, lui dal suo universo patinato e dorato fatto di sorrisi, concerti e studiate risposte a studiate domande, non poteva saperlo. Lui non si era mai trovato a fronteggiare situazioni così difficili. Ma volendo essere pignoli non era mai entrato nel ruolo della persona che ascolta in silenzio e aiuta in un modo disinteressato. Perchè era sempre stato lui quello che nei momenti no era sempre trattato con delicatezza, con amore, lui era quello che appena era in difficoltà trovava persone sempre pronte a dargli una mano, a partire da Tom e i suoi amici, per finire allo staff, che per quanto composto da gente rompi palle sulla soglia dell’esaurimento nervoso, era sempre pronto ad assecondarlo in ogni cosa.
Ma Valentina? Valentina gli era capitata all’improvviso tra capo e collo, e lui non sapeva nulla di lei, se non che aveva un’avversione naturale contro i capelli ordinati e sciolti. Tutto ciò che aveva capito era che si sentiva schiacciata da pesi che lui non poteva (voleva) comprendere, e che non aveva mai avuto tempo e modo per comportasi come un’adolescente spensierata. In quel momento però, mentre lui accoglieva il suo dolore, si sentì sereno, tranquillo, utile.
Poco dopo (non sapeva esattamente quanto dopo, potevano essere state ore quelle che a lui erano parsi effimeri minuti) Valentina sollevò la testa e lo guardò.
- Grazie – la sentì mormorare, mentre gli rivolgeva un sorriso che per quanto stentato, era colmo di riconoscenza.
Quando lei si sfilò dal suo abbraccio e il calore del suo corpo gli venne a mancare, ebbe improvvisamente freddo. Una sensazione che rimase ancorata a lui anche quando lei, timidamente, gli chiese dove potesse sciacquarsi il viso, quando lui la portò fuori dalla stanza e le indicò il bagno e anche quando lei ne uscì, pochi minuti dopo, informandolo che era ora che andasse via.

- Allora ciao – mormorò lei. L’imbarazzo che provava era evidente: nonostante non avesse le guance arrossate, la voce era bassa e sottile.
Erano sulla soglia della porta d’ingresso, tristemente aperta, e lei sarebbe andata via tra una manciata di secondi.
- Ciao – lui invece mascherava bene il suo imbarazzo. Nonostante quello, le sorrise.
La vide annuire un paio di volte con il capo impercettibilmente, guardando in basso e mordicchiandosi il labbro inferiore. Poi voltarsi e cominciare a scendere le scale, per dirigersi verso il muretto: meglio evitare il cancello, doveva averlo capito anche lei.
Ma non poteva lasciarla andare via così, e che cazzo. Il guaio era che quando Valentina si trovava a meno di dieci metri da lui, la logorrea veniva sostituita da un impietoso (e imbarazzante) vuoto nel suo cervello che lo portava inevitabilmente a non proferir parola. La cosa si aggravava notevolmente quando la stessa Valentina era avvinghiata a lui, sospirando sul suo collo aria calda, cosa che avrebbe potuto comportare risultati abbastanza controproducenti, se non fosse stato impegnato a pensare a quanto facessero schifo lui e i suoi stupidi desideri, scambiati per improbabili problemi esistenziali.
Il punto comunque era che lei stava andando via e lui se ne stava rimanendo lì, impalato senza dire nulla.
- Valentina! – la chiamò allora e un secondo dopo si rese conto della pronuncia schifosa con cui aveva urlato il suo nome. Lei si voltò con un sorriso divertito stampato sul viso finalmente sereno. O forse era una sua impressione.
- Si? –
Ed ora?
Parla, coglione! sbraitò la sua docile parte raziocinante sopravvissuta a quel sorriso che lo faceva sentire un budino.
- Grazie -
E quella ora da dove gli era uscita?
Troppi film romantici di serie B tesoro, rispose saccente quella vocina che ronzava nella sua testa, in un modo insopportabile.
Lei rise, scuotendo il capo per un momento, poi lo guardò ancora.
- Per averti scambiato per un’imitazione depressa di Simba, o per averti inzuppato in un modo indecente la maglietta? - chiese, le labbra ancora distese in un sorriso dolce e sincero.
Lui tentennò, fingendosi indeciso. Si portò una mano sotto il mento e guardò un punto indefinito in alto a destra.
- No, per avermi dato del ragazzino ricco e viziato, credo – ammise, mentre manteneva la sua espressione indecisa.
Lei rise ancora, anche se per poco, e anche lui abbandonò la sua maschera di indecisione, scivolando in una quasi risata. Vale si voltò per andare via, le spalle ancora scosse, ma questa volta dalle risate, e scavalcò con un salto il muretto, sparendo poi dalla sua visuale. L’aveva guardata finchè aveva potuto, ma quando non la vide più, ancora ridente, rientrò in casa chiudendo la porta con un gesto delicato.
Effettivamente doveva ringraziarla: molte cose che lei senza volerlo gli aveva fatto notare non le avrebbe mai capite da solo. Mentre si dirigeva verso la cucina, per avventarsi sulla scodella sempre piena di marshmallows, si ritrovò a porsi giusto un paio di domande.
Innanzitutto, perchè lui non si era mai accorto che la gente intorno a lui e all’infuori di lui poteva avere una vita, un passato e dei problemi alle spalle?
Valentina si sarebbe mai aperta con lui completamente?
E soprattutto... era stato un gesto da maniaco guardarle il culo mentre si allontanava?

La vita è bella.
Si, la vita è bella e Valentina ne era fermamente convinta. Era stata quella infatti la frase con cui aveva esordito entrando in casa, spalancando la porta con tanto entusiasmo da farla sbattere contro la parete, attirando sopra di se uno sguardo compassionevole di Anja che passava per caso di lì, un urlo della zia che aveva abbandonato il suo cerchietto a punto croce facendolo cadere a terra, e uno sbuffo di Jinny che aveva sbavato il suo smalto scarlatto sul pollice della mano destra.
- I’m like a bird, I’ll only fly away... – canticchiava Valentina, mentre si dirigeva saltellando verso la sua stanza, sotto gli sguardi stralunati dei presenti.
Elsa, il cane, entrò in casa quando lei aveva spalancato la porta e abbaiava saltellandole attorno, entusiasta di qualcosa che non poteva comprendere.
Quando Valentina entrò nella sua stanza, superò la sedia a ruote che faceva da ostacolo tra lei e il letto con una giravolta e si lasciò cadere a peso morto sul materasso, sospirando sognante. Si sentiva leggera, più di una piuma. Il cane si era seduto ai piedi del letto.
Valentina aprì le braccia sul materasso a mo’ di angelo e chiuse gli occhi. Andare in Germania era stata una benedizione. Il fatto che sua zia avesse un cane era stato un regalo ancora più grande.
Il cane, ma certo!
Balzò seduta sul letto con un saltello e si protese verso il cane che la guardava incuriosito. Gli rivolse un sorriso felice, mentre tendeva il collo verso quella testa magra e appoggiava le mani sul materasso, al centro delle sue gambe divaricate
- Lo sai che la vita è bella, vero? – chiese ridente. La risposta come al solito fu un guaito sommesso e un tendere il muso verso le sue mani, per chiedere carezze e coccole. Valentina sorrise e sfregò il palmo di una mano sul capo peloso del cane, che aveva aperto la bocca e lasciato penzolare la lingua.
- Sei solo una cucciolona. E tu dovresti essere un cane da guardia? Il mio peluche a forma di pecora è più aggressivo di te –
Senza volerlo si trovò a ridere da sola, senza un motivo. Un istante dopo si diede della perfetta cretina.
Cioè, sembrava un’ochetta in calore.
Sospirò e guardò in alto.
- Forse dovrei andarci con i piedi di piombo... – pensò a voce alta. Seguirono a quell’insucurezza altri mille pensieri, passatile per la mente tutti in un solo momento, troppi per essere elencati tutti.
Sollevò lo sguardo verso la porta, che aveva lasciato aperta. Jinny passava di lì, con il suo solito passo baldanzoso e il viso sereno. Almeno, era quello che le era parso.
Balzò in piedi e per poco non pestò una zampa al cane e la rincorse per il corridoio. Ci si fiondò a velocità supersonica.
- Jinny! -
La ragazza si voltò, il viso increspato in un’espressione curiosa. Il capelli serici e neri si erano mossi nell’istante in cui si era girata, schiantandosi dolcemente con il viso, e s’incastrarono dietro l’orecchio grazie ad una manata.
- Cosa c’è? -
Vale la raggiunse, la prese per un polso e la trascinò verso la sua stanza, ignorando bellamente le sue lamentele acute.
La fece sedere sul letto e si sedette sulla sedia girevole, proprio di fronte a lei.
- Ma che ti sei fumata?! – le chiese indignata. Valentina la ignorò ancora.
- Devo chiederti un favore – disse soltanto, sorprendendosi dell’entusiasmo nella sua voce. Jinny la incitò con un gesto del capo a continuare.
- Devi raccontarmi tutto quello che sai sulla band di Bill –
Il viso dell’amica s’increspò in un sorrisetto furbo e la guardò riconoscente, pronta a crogiolarsi nel suo dolce brodo di giuggiole.
Bingo.

Si chiedeva come avesse potuto essere così stupida, quando sgusciò velocemente via dal letto. Le lenzuola erano diventate improvvisamente troppo bianche perchè lei ci si potesse sentire a suo agio.
Mentre puntava verso il bagno evitava gli specchi. Ormai, la sua stessa immagine le dava il voltastomaco.
Perchè Gloria era cambiata. Quella dolce, quella un po’ insicura, ma felice non c’era più. L’immagine pulita di quella donna aveva lasciato il posto ad una figura diversa, che trasudava infelicità e sfiducia verso la vita da ogni atteggiamento. Perfino dal tono con cui parlava.
Erano quelle le conseguenze per la sua irresponsabilità, doveva subirle.
Più bella, decisamente irresistibile, ma piena di cose che non le appartenevano. Cose di cui si era dovuta appropriare per uno stupido errore. Perchè voleva distrarsi, almeno per una sera. Per il suo infantilismo.
Si infilò nella doccia, lasciò che l’acqua scorresse sul suo corpo provato. Sicuramente era diverso rispetto ad un mese prima.
Più magro, più tonico, più da... puttana. Una fitta al cuore la trafisse e inevitabilmente si portò una mano sul petto, dove vedeva ormai continuamente macchie. Macchie nere, di ogni forma e dimensione che la ricoprivano interamente. Erano baci. Baci di persone avide e cattive che non conosceva e che ormai la violavano regolarmente ogni notte, senza tener conto dei suoi desideri, senza chiedersi cosa ci fosse sotto quella pelle.
Portò il regolatore della pressione verso destra e subito le gocce che scivolavano su di lei in abbondanti fiotti diventarono gelide, facendola rabbrividire. Doveva soffrire.
Che vita era quella?
Anzi... era una vita, la sua? Per cosa viveva?
Si lasciò scivolare lungo le mattonelle fredde della cabina della doccia.
Non riuscì a trovare una motivazione nemmeno nelle sue figlie. Valentina senza di lei se la sarebbe benissimo cavata, ne era sicura. Quella ragazzina era troppo intelligente per farsi prendere dal panico e dal dolore. Sorrise, quando la mente la riportò a lei e a tutti i suoi sforzi per non farla soffrire. Per mascherare la verità a qualsiasi costo, pur di non turbarla. Valentina pensava davvero che non sapesse che quel bastardo di Marco aveva provato a violentarla? Lo sapeva, certo che lo sapeva.
Eppure non aveva avuto la forza di reagire. Non l’aveva tutt’ora. Si faceva trasportare dagli eventi come una foglia secca e consumata dal tempo si fa guidare dal vento, senza prendere la decisione di dare una svolta e difendere sua figlia come avrebbe fatto qualunque mamma degna di questo nome. Chi era la vera donna tra lei e Valentina?
Basta, non ce la faceva già più. Non aveva senso continuare così. Lei stessa non aveva un senso.
Ma non poteva farla finita, una volta per tutte.
Era quella la cosa peggiore. Non poteva decidere di abbandonare tutto, per amore di ciò a cui teneva di più. Il suo “protettore” avrebbe agito. Quel Daniel... le era sembrato un uomo così affabile. Invece era solo uno stronzo in cerca di prede per raggiungere il suoi scopo: i soldi. Non ci aveva messo molto a trasformarsi da amante dolce e gentile a violento manipolatore. E poi l’aveva messa in quel giro, minacciandola con la sicurezza delle sue figlie.
Strinse i denti tanto da far dolere i muscoli della mascella, e affondò il viso tra le ginocchia.
Con che coraggio si sarebbe mostrata a sua figlia...
Con che occhi l’avrebbe guardata se mai avesse scoperto la verità?
Non l’avrebbe più guardata, magari. Forse l’avrebbe addirittura odiata.
Ma poco male, alla fine. Sarebbe stata bene. L’unica cosa che non doveva permettere era che Valentina lo sapesse.
E la piccola Giorgia... La sua Giogiò. Le mancava.
Il rapporto tra lei e la bambina si stava affievolendo sempre di più, senza che lei potesse far nulla per evitarlo. La piccola passava più tempo con la babysitter che con lei, ormai. Le mancava incredibilmente. Era come se un pezzo di lei le fosse stato strappato. Una sua appendice rimossa. Quanto poteva vederla, oramai? Le poche ore pomeridiane che passava in compagnia di sua figlia trascorrevano tra uno sbadiglio e l’altro, tra un urlo e l’altro. Non riusciva più a tenerla a bada. Il ruolo di mamma le andava troppo stretto.
Non che fosse mai stata un buon modello da seguire... ma di giorno era troppo stanca per occuparsi di lei. E di notte non poteva lasciarla da sola a casa. Doveva lavorare. E il solo pensiero di ciò a cui doveva sottoporsi ogni notte la faceva sentire ancora più male.
Chiuse l’acqua della doccia e ne uscì, avvolgendosi in un asciugamano appeso al gancio di fronte alla cabina.
Senza volerlo, sorrise. Non sapeva dove trovasse la forza, ma lo fece. Quando il suo viso inevitabilmente incontrò il proprio riflesso nello specchio, sorrise. Quella situazione era di una tristezza quasi esilarante.
Forse era lei, che stava diventando pazza. Perchè sorrideva, eppure i suoi occhi si riempivano di lacrime. Si odiava. Era disgustata da se stessa.
Aprì l’armadietto per prendere lo spazzolino e lavarsi i denti e inevitabilmente il suo sguardo si posò su un oggetto affilato che luccicava con il riflesso della luce. Delizia e tortura di parecchi adolescenti sofferenti per i motivi più stravaganti. Un oggetto che lei non aveva mai pensato di utilizzare in quel modo.
Rimase lì a fissarlo con gli occhi spalancati.
Non si era mai tagliata. Non ne aveva mai avuto bisogno e di certo non l’avrebbe fatto in quel momento. Però la sua mano si stava pericolosamente allungando per prendere quell’oggetto, e non riusciva a fermarla. Era come se il suo corpo rifiutasse di obbedirle.
Sarebbe stato infantile. Si sarebbe comportata da bambina, ancora una volta. No, non l’avrebbe fatto, sarebbe stata forte almeno in quello. Cosa avrebbe risolto, poi? Sarebbe cambiato qualcosa? Proprio nulla.
Ma la sua mano tremante e insicura afferrò quell’oggetto. Doveva smetterla, non doveva farlo. Lentamente la portò sul dorso del suo avambraccio. No, era da stupidi e da deboli.
...troppo tardi.

Capitolo 10.

Valentina ci stava ancora pensando, anche dopo tre giorni. Lì, seduta sul suo letto nella sua stanza, con le gambe incrociate, le dita sotto il mento e la bocca imbronciata.
Jinny tre giorni prima l’aveva praticamente inabissata di notizie sulla band di Bill, i Tokio Hotel (che razza di nome era “Tokio Hotel”?!).
Le aveva assorbite tutte come una spugna e per la prima volta la diarrea verbale dell’amica le aveva fatto molto, molto comodo. Aveva scoperto cose che non avrebbe mai immaginato. Per esempio che quel Tom dal sorriso dolce era un playboy, al contrario di Bill che cercava l’amore vero. Oppure che quello strano Winnie the Pooh serio si chiamava Gustav e quell’omaccione tutto muscoli e capelli Georg. Effettivamente insieme formavano un bel quadretto: il bello e dannato, il rapper sexy e sciupafemmine, il capellone pigro, ma affascinante e l’orsetto timidone ed enigmatico.
Un quartetto molto carismatico insomma, ce n’era per tutti i gusti. Aveva perfino ascoltato qualche canzone. Non erano male, ma i suoi gusti pendevano in altre direzioni. Comunque “Vergessene Kinder”, “Black”, “Stich ins glueck”, “Nach dir kommt nichts” e la bellissima “Spring nicht” non le erano affatto dispiaciute.
A pensarci sorrise da sola, buttandosi con la schiena sul materasso.
Dopo l’ultimo episodio a casa sua, Valentina negli ultimi tre giorni aveva rivisto Bill parecchie volte. Niente più contatti fisici da parte sua, ma gli aveva fatto domande sulla sua vita, domande più strane, a cui lui aveva alternato facce realmente divertite ad espressioni cogitabonde.
Ricordava ancora la sua faccia sconvolta ma divertita quando gli aveva chiesto se tutte le fantasie delle fan sul twincest avessero un fondamento. Lui inizialmente aveva strabuzzato gli occhi. Poi l’aveva guardata, quasi per accertarsi che la domanda non era uno scherzo e poi era scoppiato a ridere, rispondendo con un “Oddio, anche tu ora”.
Che tipo strano, pensò sempre con il sorriso disegnato in viso.
E lui come al solito non le aveva fatto domande sulla sua vita. Lo apprezzava, ma un po’ le dispiaceva.
Perchè in fondo le sarebbe piaciuto che qualcuno a cui teneva si fosse interessato a lei.
Qualcuno a cui teneva... tutto d’un tratto si rabbuiò e ritornò alla sua vita in Italia.
Sua madre non la chiamava più. Non la sentiva da più di cinque giorni e lei non si era azzardata a sollevare la cornetta del telefono.
Suo padre non si faceva sentire da due giorni e nell’ultima telefonata era stato ancora più brusco del solito. Perchè lui, da bravo stronzo, ce l’aveva ancora con lei per il viaggio in Germania e voleva farla sentire in colpa a tutti i costi. Sentì improvvisamente un colpo, da qualche parte in fondo allo stomaco. Faceva male, si.
Bill in quei giorni era l’unico che la faceva sentire... non importante, ma quanto meno ascoltata. Aveva bisogno di lui.
Scosse la sua coda di cavallo e scacciò via quei pensieri, mettendosi più comoda sul materasso. Lei pensava troppo, i suoi neuroni residui si sarebbero consumati, a lungo andare.
Abbracciò il cuscino e chiuse gli occhi. Si sentiva stanca.
La sera prima aveva avuto un incubo appena si era addormentata e non era riuscita a dormire per tutto il resto della notte. Brutto segno. Bruttissimo.
Marco sarebbe stato per sempre indelebile nella sua vita.

- Cazzo, no Tom, non è successo niente... mamma mia, sei pedante! -
Bill certe volte non sopportava suo fratello. Lo adorava, ma quando gli si appiccicava peggio di un polpo appiccicoso riusciva a stento a trattenere i suoi impulsi.
(...)
Omicidi, ovviamente.
Erano tutti e due nella sala musica della loro casa, Bill e Tom avevano deciso di provare un po’ “Ready set Go” per l’esibizione del 6 Maggio. Bill era nervoso, il solo pensiero gli metteva l’ansia. Quella sarebbe stata la prima volta che avrebbe cantato dopo l’operazione alle corde vocali e si sarebbe concentrato se il suo adorato fratellino non lo stesse tartassando di domande strane sul suo rapporto tra lui e Valentina.
- No, sono solo curioso di sapere come mai mio fratello non si dà una mossa – rispose pacifico.
Bill si sistemò sospirando sul cuscino di pelle dello sgabello. Insomma, lo sapeva benissimo che lui non si lasciava andare facilmente con le ragazze, perchè insisteva?
- E’ una situazione difficile Tom... – glissò, e nel mentre regolava l’altezza dell’asta del microfono. Tom invece stringeva e allentava una corda della sua chitarra elettrica tramite uno dei pomelli.
- Cosa c’è di difficile? Ti piace, è carina, non ci vuole molto a fare il resto –
Bill roteò gli occhi e arricciò le labbra. Fissò Tom che che pizzicava le corde metalliche per accordare la chitarra mentre quell’aggeggio a pile appoggiato di fronte a lui indicava se il suono fosse troppo acuto, o troppo grave.
- Non la mia Tom, la sua. Ti ho detto come si comporta... -
Tom sollevò improvvisamente il capo, e fissò le iridi su di lui. La sua espressione era... spaventata? No, ma quantomeno sorpresa.
- Pensi davvero che sia stata violentata? – gli chiese poi, riportando lo sguardo sulla chitarra. Il suo tono era sorprendentemente pacifico, come se stesse raccontando come aveva bevuto il caffè quella mattina. Bill al contrario, ebbe un tuffo al cuore. Che delicatezza suo fratello.
Non sapendo cosa rispondere, si limitò a scuotere le spalle.
- Tutto lascia pensare questo – rispose con finto disinteresse. In realtà gli interessava parecchio e a dirla tutta il motivo non gli era ben chiaro. Non se lo chiese nemmeno, tanto la risposta, non aveva importanza.
- Ma ti piace? – Tom se ne uscì di nuovo, petulante come sempre. Un sonoro sbuffo echeggiò per la stanza insonorizzata, accompagnato dal suono di uno schiaffo, provocato dall’infrangersi delle mani di Bill sulle sue cosce. Ma che domande erano quelle?
- Ma perchè me lo chiedi? – domandò isterico.
Tom sollevò lo sguardo dalle corde e lo fissò, con una strana espressione dipinta sul volto. Un misto tra provocazione, strafottenza e una bastarda voglia di metterlo in imbarazzo. Una faccia su cui era scritto a caratteri cubitali “Porto rogne”. Quando suo fratello lo fissava in quel modo Bill non doveva aspettarsi nulla di buono. O di facile, per lo meno.
- Perchè non te l’ho mai sentito dire – rispose candidamente ed effettivamente aveva ragione. Non l’aveva mai confessato. Forse non se ne era mai reso conto davvero, era una verità sopita sul fondo polveroso del suo inconscio. Ogni volta che era con lei, specie negli ultimi tre giorni sentiva una sorta morsa allo stomaco che lo portava a non sapere cosa dire o a fissare come un ebete i suoi modi di fare, di muovere le mani e le labbra mentre parlava o rideva, ma quello non voleva dire che lei gli piaceva. O almeno che gli piaceva così tanto. Giusto?
- Allora? – lo incalzò Tom vedendo che non rispondeva, irritandolo non poco.
- Uffa Tom che rompi palle che sei... –
Si rese conto del suo tono di voce, circa un paio di ottave sopra la media. Ma quando gli occhi di suo fratello lo esortarono ancora a parlare, facendolo innervosire ancora di più, fu quasi tentato di cedere.
- No – mentì, sperando che suo fratello non indagasse. Però Tom non era intenzionato ad ascoltare le sue tacite preghiere e lo guardò come se fosse uno stupido.
- E io sono ancora vergine – rispose sarcastico.
- Ok, mi piace – capitolò riportando lo sguardo all’asta del microfono, fingendosi interessato alla regolazione dell’altezza. Ma tanto sapeva che suo fratello non ci sarebbe cascato. Lo conosceva troppo bene. Infatti sentiva i suoi occhi premergli sulla tempia destra come il calcio di una pistola.
- Tantissimo. – aggiunse allora – Contento ora? Non capisco a che cosa serva –
Vide Tom sghignazzare tra se, mentre riprendeva ad accordare la chitarra.
- Mi diverto –
Bill lanciò un altro sguardo al soffitto e soffiò debolmente aria. Certo, si divertiva a farlo incazzare. Poi era lui quello nevrotico.
Stava giusto per ribattere, quando suo fratello parlò.
- Ma Georg e Gustav esattamente quanto tempo fa hanno detto che tra cinque minuti sarebbero venuti? – il suo tono era impaziente, mentre si guardava attorno, quasi i suoi amici dovessero sbucare dalla porta da un momento all’altro. Ancora una volta scosse le spalle.
Poi un qualcosa vibrò nella sua tasca: il suo cellulare.
Dovette sollevarsi di poco per poterlo sfilare dalla tasca dei jeans stretti. Poi ebbe un colpo quando fissò il nome in pixel.
“Valentina”
Guardò quella scritta con occhi spalancati, ricordando che si erano scambiati i numeri circa due giorni prima.
Lo stava cercando. Oddio. Di solito era lui a cercare lei, quindi era successo qualcosa di grave. Forse si era fatta male, forse...
Un altro milione di ipotesi balenò nella sua mente in circa mezzo secondo. Lasciò che la suoneria di “Beat it” di Michael Jackson echeggiasse ancora qualche secondo nella stanza, sotto lo sguardo indagatore di Tom, prima di allontanarsi e sussurrare un flebile “Torno subito”.
Correndo, si rintanò nella cucina e chiuse la porta. Poi finalmente si decise a rispondere.
- Pronto? -
Silenzio dall’altra parte. Sentiva solo un respiro, un po’ affannoso. Il suo respiro.
- Bill... ti disturbo? – la sua voce finalmente raggiunse il suo orecchio. Suonava timida, sottile. Triste.
- Certo che no, dimmi pure – rispose allegro. Gli parve un insulto alla tristezza di Valentina e s’impose un tono di voce più tranquillo.
Lei dall’altra parte esitava. Doveva chiedergli qualcosa, era palese, come era palese che si vergognava. E lui non poteva che aspettare.
Dopo qualche altro secondo di esitazione, finalmente si decise a parlare.
- Volevo chiederti se... se possiamo vederci. Mi sento un po’ sola... – disse, la voce si abbassò verso l’ultima frase. Sembrava quasi che avesse paura ad ammetterlo.
E lui non poteva crederci. Valentina aveva detto che si sentiva sola? Non gli aveva mai, mai rivelato un suo stato d’animo. Aveva sempre negato tutto, anche di fronte all’evidenza.
E cosa poteva fare lui se non esultare mentalmente di fronte a quella sincerità?
- Certo! Ci vediamo fuori? –
- si, va bene – rispose, ancora più pacata di prima. Si, era successo qualcosa.

La vedeva che scendeva le scale e raggiungeva il muretto. Aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo, ma due morbidi ciuffi incorniciavano i lati del suo viso.
Si avvicinava con fare sostenuto, i palmi delle mani premuti contro i gomiti piegati e il capo un po’ basso.
Era proprio a terra.
- Ciao – disse lui, per attirare la sua attenzione. Lei sollevò lo sguardo su e distese di poco le labbra.
- Ciao – lo salutò e poggiò una mano sul bordo del muro, riportando lo sguardo sulla pietra ruvida e bianca. Il sole del primo pomeriggio si rifletteva sui suoi capelli, accentuando le sfumature ramate.
- Scusa se ti ho chiamato all’improvviso, ma in casa non c’è nessuno. Sembrano essersi dimenticati di me... – concluse con un sorriso amaro.
Quella sua affermazione, carica di malinconia e sopita rassegnazione, lasciò Bill spiazzato.
Che voleva dire quella frase? Come potevano dimenticarsi di lei?
Sospirò. Non sapeva nulla di lei, per cui non poteva fare niente. E le solite frasi di conforto sarebbero state banali e soprattutto inopportune.
- Ti va di venire dentro? – disse solamente, mantenendo un tono di voce basso. Sembrava un segno di rispetto verso lei.
- Non lo so, magari stavi facendo... altro... forse disturbo – rispose esitante, mentre evadeva dal suo sguardo.
- Ma no! – squittì sorridendole – Dai scavalca – la incitò con un gesto del braccio tatuato.
Lei annuì, guardando in basso. Si sedette, sollevò le gambe e le portò dall’altra parte del muro.
Lui la accompagnò dentro casa, poi chiuse la porta.
Dopo il rumore della serratura che si chiudeva, Bill vide Tom spuntare dal corridoio, con fare distratto.
- Bill, quei due... – cominciò a parlare, ma s’interruppe, quando vide Valentina. I suoi occhi viaggiavano da lui a lei, poi di fermarono su di lei. Era come immobilizzato, continuava a fissarla, non sapendo bene cosa fare.
Bill si portò un pugno vicino alla bocca e diede due studiati colpi di tosse.
E infatti Tom, come se si fosse risvegliato da quel momento di trance, lo guardò di nuovo.
- V-volevo solo dirti che sono arrivati dalla porta sul retro... – lo informò, con voce parecchio insicura.
- Bene, fate pure senza di me –
Bill parlò evitando accuratamente di utilizzare parole come “prove”, “canzone” o qualsiasi cosa che potesse far pensare a Valentina di aver interrotto qualcosa. Pregò che suo fratello capisse, infatti Tom non disse nulla e dopo un’ultima occhiata alla ragazza accanto a lui, sparì di nuovo nel corridoio.

Conoscete quella sensazione di disagio diffusa per tutto il corpo, quella che vi spinge a guardare costantemente in basso, quella che vi obbliga a circondare il vostro stesso corpo con le braccia, pregando di scomparire?
Ecco, era la sensazione che invadeva in quel momento ogni singola parte di Valentina, che le scorreva nelle vene e la costringeva ad avvampare, oltre che a torcersi le dita delle mani tanto da temere di potersele annodare.
- Vieni – la voce di Bill la raggiunse come da molto molto lontano. Senza dire nulla lo seguì fino alla cucina e la invitò a sedersi sul divano foderato. Lui invece si diresse vicino al frigorifero dall’altra parte della stanza, e lo aprì, infilandoci la testa dentro. Per Vale, vedere certi suoi atteggiamenti naturali eppure buffi, impregnati di infanzia la faceva sorridere. E infatti fu quello che segretamente dentro di lei fece, perchè sorridere in un momento di imbarazzo totale era impossibile.
- Vuoi qualcosa? – chiese Bill guardandola. Rifiutò con un gesto del capo. Lui invece si versò un liquido denso e bianco in un bicchiere basso, da una bottiglia dalla pancia larga.
Mentre, ancora con il bicchiere mezzo pieno in mano, lui dal frigo camminava per raggiungerla, lei accarezzò con gli occhi la sua figura.
Quel pomeriggio era diverso: aveva i capelli lisci, che cadevano ordinati sulla schiena. Gli occhi contornati dal nero dell’ombretto, erano nascosti dall’ala di un cappellino scuro. Mentre, sempre camminando sorseggiava quel liquido dal bicchiere distrattamente, scese dal volto, alla maglia stretta che portava, fino alle gambe sottili fasciate dai jeans che sarebbero caduti senza il sostegno della cinta bianca.
Forse poteva apprezzarlo anche così... perchè, guardandolo bene, non si poteva dire che non fosse bello.
- C’è qualcosa che non va? – le chiese, sinceramente curioso. Si guardò per trovare qualcosa che non andasse in lui e qualche ciocca corvina scivolò dalle spalle, sul petto.
- No, niente... – rispose bruscamente. Troppo bruscamente. Abbassò subito lo sguardo, maledicendosi mentalmente in lingue sconosciute.
Non si sarebbe stupita se il suoi capelli fossero diventati rosso vivo da un momento all’altro. Con la coda dell’occhio poté vedere un angolo della bocca di Bill sollevarsi, dando al viso un’espressione molto furba.
Che stupida. Stupida, stupida, stupida.
Datemi una pala.
Vide che Bill stava per sedersi sul divano accanto a lei e improvvisamente l’autoflagellazione mentale non aveva più così importanza.
Si inquietò un poco, ma non ebbe il tempo di rendersene conto perchè lui si bloccò bruscamente. Masticava l’interno delle guance.
Aveva ricordato. Aveva ricordato che non poteva starle troppo vicino. Sfilò una sedia dal tavolo trascinandola per lo schienale e si sedette di fronte a lei. La sua espressione era apparentemente tranquilla, ma ormai lo conosceva abbastanza per riconoscere quando qualcosa gli faceva male. Quel peso fastidioso che gravava sul suo cuore ogni momento della sua vita, all’improvviso si fece più pesante del solito. Era diventato un blocco di cemento.
Eppure non le sarebbe dispiaciuto averlo accanto a se...
- Allora – la interruppe lui dai suoi pensieri – ti sentivo giù al telefono. E’ successo qualcosa? -
Innumerevoli flashback la riportarono alla sua solitudine iniziale.
A suo padre, a sua sorella... a sua madre. Alla sua notte insonne, al suo incubo.
Gli rivolse uno sguardo triste e si portò un ciuffo di capelli dietro l’orecchio.
- E’ solo che... – s’interruppe, di nuovo.
Diglielo. Diglielo che ti senti sola, diglielo che avevi voglia di vederlo. Dagli uno straccio di spiegazione sul perchè sei piombata in casa sua sconvolgendogli tutti i programmi.
Lo guardò, decisa. Meritava una spiegazione. Ma lui parlò prima.
- Vale, se non vuoi... -
- No Bill – disse, alzando una mano. Quella era una battaglia contro se stessa. Doveva vincerla. Non poteva tenersi tutto dentro, sarebbe scoppiata. Lui tacque e si abbandonò contro lo schienale della sedia.
- A casa non c’è nessuno, Jinny è partita, è ritornata dal suo ragazzo. E... in Italia... – si bloccò. Qualcosa bruciava da qualche parte in fondo alla sua gola, impedendole di parlare. Ma doveva farcela.
Inspirò: in fondo non poteva essere così difficile. Socchiuse le labbra e ricominciò.
- Mia madre non mi chiama da parecchi giorni... a mio padre non interessa nulla di me – finalmente affrontò il suo sguardo, i suoi occhi. La guardava e il suo viso non esprimeva alcuna emozione. Sembrava essere lì da sempre, solo per sentirla parlare. Riportò lo sguardo al pavimento.
- E’ offeso perchè sono venuta quì a Berlino... lui non era d’accordo e.. cerca sempre di farmi stare male, ma non m’importa. Mia madre però... è quello che mi fa più male... ero convinta che almeno lei... – sollevò lo sguardo, interrompendo la frase. Tanto il resto era facilmente intuibile.
- Mi sento... abbandonata. E sola. – concluse. Tutto ciò che aveva detto si poteva riassumere in quelle telegrafiche due parole. Uno stato d’animo, una vita in due schifose parole.
Perchè tutto dell’uomo viene sminuito dalle parole, anche la sofferenza e la gioia più grandi.
- Vuoi ritornare? – domandò Bill all’improvviso, utilizzando un tono triste a cui lei non prestò attenzione.
Rifletté.
Italia... Marco.
Marco... incubi, notti insonni e tanti, tanti pianti. Solitudine.
Suo padre, Jasmine. Il loro bambino, i suoi sensi di colpa.
No, non voleva tornare. Voleva rimanere lì. Con lui.
Agitò violentemente i capelli, scacciando via quei pensieri.
- No, non voglio...- squittì con più veemenza del dovuto – Ci sono troppe cose lì che mi fanno male. Che mi hanno fatto del male -
Ce l’aveva fatta. Non ci poteva credere, ce l’aveva fatta. Aveva vinto. Si sentì più felice, più orgogliosa di se stessa. Forse non era il disastro che immaginava.
Sorrise debolmente e sollevò lo sguardo sul ragazzo di fronte a lei. La sua espressione invece era preoccupata, i suoi occhi assottigliati. Lei non aveva mai creduto che si potessero vedere i sentimenti di una persona semplicemente dagli occhi. Non aveva mai visto nulla nelle pupille degli altri, oltre alle consuete macchie di colore. Eppure guardandolo percepiva la sua preoccupazione. Percepiva che in fondo, nonostante il suo silenzio, nonostante fosse una ragazza difficile, lui le voleva bene.
- Ti hanno fatto male... – ripeté, scostando lo sguardo.
Lei rimase zitta.
- Chi ti ha fatto male? -
La domanda giunse secca, lapidaria. Pungente. Una domanda che lei temeva e di cui aveva paura. Una paura che le gelava le vene, che scorreva sottopelle dandole i brividi, infida come una serpe.
Un’altra battaglia da vincere. Ma non era sicura che ce l’avrebbe fatta, questa volta. Era troppo per lei.
Cercò di... ripensarci. Pregò che Bill la lasciasse fare e non proferisse parola.
Con la mente ritornò a quella sera, due mesi prima. Una cena con suo padre e i suoi familiari, suo cugino seduto accanto a lei. Tanti sguardi che non si spiegava. Poi non riuscì a ricordare più nulla. Un nome vorticava nella sua testa, una spinta e il pavimento freddo. Poi il buio.
- Vale...? – qualcuno la chiamò ma non sentì nemmeno. Serrò ancora di più le palpebre.
Non ricordava più. Quell’esperienza si era seppellita dentro di lei, agendo contro la sua volontà, senza che potesse fare nulla per evitarlo. Cercò di far luce nel suo buio. Una sensazione di freddo. Freddo e caldo. E paura.
- Vale? – ancora quella voce.
Aprì gli occhi e Bill di fronte a lei, la guardava preoccupato.
Ritornò alla realtà. Niente sussulti, niente lacrime. Solo una sensazione di freddo diffusa per tutto il corpo.
Sorrise a Bill come se non fosse accaduto nulla nella sua mente. Dimenticò la domanda.
- Scusami... – mormorò, poi rise. Una risata falsa, sussurrata, satura di dolore.
- Scusami tu – replicò Bill. Sembrava dispiaciuto. Poi, animato da uno strano entusiasmo, scattò in piedi con un balzo e per poco la sedia dietro di lui non cadde.
- Senti ho un’idea – squittì guardandola.
- Spara – rispose, entusiasta anche lei.
- I miei amici stanno provando nel seminterrato, io devo raggiungerli. Ti va di assistere? –
Vale s’illuminò. Avrebbe visto i Tokio Hotel provare, al completo, in casa loro.
E stava stringendo amicizia con il famoso e famigerato vocalist. Quella situazione era assurda.
- Certo! – rispose, sorridendo. Lui si sfregò le mani e schiantò i palmi un paio di volte.
- Bene. Ti avverto però, sono le prime prove, sono un po’ arrugginito – distese le labbra.
Lei rise – E’ un modo per dirmi che stonerai sicuramente? – lo stuzzicò. Forse era stata un po’ cattiva.
- Decisamente si – confermò lui. Ma non sembrava offeso, dato il sorriso sereno che gli illuminava il viso.

Bill la accompagnò giù per le scale, scarsamente illuminate dalla luce residua del pianoterra. Si sentivano chiaramente il ritmo di una batteria e una chitarra, provenire da più lontano. Percorsero il seminterrato illuminato solo dalla luce di qualche neon fino a quando giunsero in un corridoio stretto, terminando con una porta di ferro grigia, incorniciata da bulloni plumbei. Aveva un aspetto parecchio inquietante.
- Sembra la camera a gas di un lager di nazisti – rifletté ad alta voce, fissandola ancora.
Bill accanto a lei la guardò, accigliato. Si rese istantaneamente conto di ciò che aveva detto e rivolse lo sguardo a Bill che la fissava serio. D’un tratto ebbe lo strano dubbio di aver detto qualcosa di sbagliato.
Istantaneamente realizzò e scattò, come una molla.
- Cavolo... Bill scusa, davvero... – cercò di giustificarsi.
Ma lui non fece caso alle sue scuse e alzò un sopracciglio, continuando a fissarla in quel modo... indefinibile.
- Davvero io... – si giustificò ancora. Poi improvvisamente Bill prese a ridere senza ritegno. Si piegò in due, posando le braccia sulla pancia, continuando a ridere.
Vale chiuse gli occhi e sorridendo si coprì gli occhi con le dita.
- Questa non l’avevo mai sentita – mugolò il ragazzo, ancora tra le risate. Aveva gli occhi velati da un sottile strato di lucidità.

Una volta dentro, Valentina fu presentata velocemente ai membri del gruppo. L’avevano accolta abbastanza bene, ma avevano tutti fretta di provare. Georg le era sembrato quello meno entusiasta di lei. Non le aveva nemmeno stretto la mano e si era riseduto sbuffando sullo sgabello.
- Possiamo riprendere? – aveva detto scocciato. Bill gli aveva lanciato un’occhiataccia, poi le aveva fatto cenno di sedersi su una panca in fondo alla stanza. Considerando il grande ammasso di fili colorati sparsi per terra era stato un po’ complicato per lei arrivare indenne, ma ce l’aveva fatta.
Ed ora era lì, seduta che ascoltava quel gruppo fantomatico per milioni di persone, ma reale e presente per lei metterla a parte dei loro errori, della loro musica.
La base di “Ready set go” le raggiungeva le orecchie e la voce di Bill le sembrava un suo completamento.
Le pareva che una non potesse esistere priva dell’altra, senza suscitare un senso di spiazzamento e incompletezza in chi ascoltava.
Erano fatte per stare insieme, così come Bill era fatto per cantare. La canzone era energica e la sua voce seppure qualche volta imprecisa sulle note più alte, ci si abbinava perfettamente. Le onde sonore s’infrangevano su qualsiasi cosa, facendola quasi vibrare. Era una bella canzone, decise alla fine. Ritmata, vivace. Si le piaceva.

- Perchè non sei andato con loro? Tanto io adesso vado via – disse Valentina a Bill mentre chiudeva il portone del retro della villa, dato che quello principale era ormai costantemente assediato dai giornalisti. Si diressero in cucina e lei si sedette compostamente sul divano. Ormai sapeva che a lui faceva piacere.
Erano le otto ormai, era rimasta con loro tutto il pomeriggio, senza che se ne fosse accorta. Poi i tre avevano dichiarato di andare a mangiare una pizza da David e Bill aveva rifiutato.
- Non mi andava di uscire – rispose semplicemente. Si sistemò il cappellino sulla testa e si prese una bottiglia di aranciata dal frigorifero. Poi si risedette sulla sedia di fronte a lei, lasciata nell’esatta posizione di poche ore prima.
- Non dovresti nutrirti in modo un po’ più sano? – chiese Vale, indicando la sua bottiglietta di Fanta con un gesto del capo. Lui si accigliò e la guardò con un’espressione dubbiosa.
- Prima la grappa, poi le gommose per tutto il pomeriggio e adesso ti scoli un’aranciata – chiarì con un sopracciglio sollevato. Lui fece candidamente spallucce e bevette un lungo sorso. Quando si staccò, si era scolato metà bottiglia.
- Mi sembra che tu mi abbia seguito a ruota, grappa a parte – ghignò ed effettivamente aveva ragione. Nemmeno lei aveva disdegnato nulla quel pomeriggio. Bill le porse la bottiglia, ma Valentina rifiutò con un gesto della mano e una piccola risata.
- Hai ragione – concordò, sorridendo.
Sentì un moto di profonda gratitudine verso di lui. Il “ragazzino ricco e viziato” che nonostante tutto aveva avuto la pazienza e la voglia di aspettare i suoi tempi e sorvolare sui suoi silenzi, confortandola con tanti sorrisi e un raro abbraccio. Lo stesso ragazzino ricco e viziato a cui sapeva di stare affezionandosi in modo molto pericoloso. E doloroso.
- Bill, grazie davvero – disse sinceramente. Se era così serena, lo doveva solo a lui. Bill posò la bottiglietta mezza vuota sul tavolo e incrociò le caviglie.
- Sono io che devo ringraziarti, mi hai risparmiato una cena con la mia truccatrice posseduta – scherzò, guardandola. Lei rise e guardò in basso.
Tanto aveva capito.
Quando riportò lo sguardo su di lui che stava sbadigliando, dal basso della sua postazione vide un qualcosa di bianco macchiare l’ala del cappellino ancora sistemato sul capo di Bill. Si accigliò e la fissò meglio. Ma non riusciva a capire che cosa fosse.
- Bill cos’è quella? – chiese e involontariamente si sollevò per cercare di capire cosa fosse.
- Cosa? – chiese lui, curioso. Lei non gli badò, gli si accostò con un movimento rapido e poggiò una mano sulla sedia, sullo spazio lasciato libero dalla sua gamba.
- Vale cosa fai? – chiese lui e il suo tono sembrava quasi allarmato, un po’ tremante. Non si spiegò perchè, ma voleva sapere cosa fossero quelle chiazze bianche sotto la visiera del berretto. Si sporse e sollevò lo sguardo: era solo una scritta.
- Oh, è una scritta – disse sorridendo, ma quando riportò gli occhi su Bill si accorse che lui la fissava. Serio.
Poi pensò che no, non la stava semplicemente fissando. Quegli occhi non la stavano solo guardando.
Sembrava che volessero penetrarla. Che riuscissero quasi ad insinuarsi dentro di lei, per illuminare tutte le parti in ombra.
Il suo sorriso innocente scomparve, lasciando posto ad un’espressione sorpresa, interdetta, insicura. Vedeva le sue labbra socchiuse, e ormai era abbastanza vicina per sentire il suo respiro caldo infrangersi sul suo viso.
Non ebbe il tempo di avere paura, quella volta. Non si seppe spiegare cosa provò o cosa la spinse a farlo, ma si avvicinò ancora, con la certezza assurda che non l’avrebbe mai fermata.
E prima di rendersi conto del vuoto che aveva appena invaso la sua testa, in un lunghissimo ma effimero secondo catturò le sue labbra.
Posò, appena tremante, un timido bacio sulla sua bocca ancora leggermente socchiusa, riuscendo ancora a percepire il gusto aranciato della bevanda che aveva bevuto pochi secondi prima, impregnargli le labbra.
Di fronte a lei, Bill si abbandonava a quel bacio, come se non avesse mai aspettato altro.
Assaggiò ancora le sue labbra, timorosa di fare qualcosa di sbagliato e fece scivolare una mano impaurita sul suo collo, penetrando la soffice barriera corvina. In quell’istante sentì di poter smarrire se stessa. Perchè un bacio non è altro che uno straccio d'eternità regalato a chi ci regala l'oblio.
Quando Bill posò una mano sulla sua guancia, ebbe quasi paura che la respingesse. Invece il pollice prese ad accarezzare il suo zigomo con dolcezza e una lentezza quasi esasperanti.
Aprì gli occhi, scossa. Allontanò il viso, l’espressione confusa e appena delirante. Che aveva fatto?
Quando incontrò gli occhi di Bill però, non ci vide nulla. Solo... sicurezza. Si, sicurezza, e una punta di confusione. Come se avesse saputo tutto da sempre, ma avesse paura.
Lei invece non sapeva niente, se non quello che provava. E quello che provava la spaventava. Come ciò che aveva visto, come uno scoppio di scintille dentro di lei.
- Bill, mi-mi dispiace... sc-scusa, io... ho fatto una cazzata – non seppe dove trovò il coraggio di parlare, ma farfugliò comunque quelle parole, inciampandoci. Guardava spiazzata il pavimento e si portava continuamente ciuffi ribelli dietro le orecchie. Lui si sollevò dalla sedia velocemente e le andò vicino. Voleva dire qualcosa, ma non gliene diede il tempo.
- Ora... vado via – sentenziò ancora stordita e si diresse decisa come un treno fuori dalla cucina.
- No aspetta! – lo sentì urlare dietro di lei, ma quella voce la spingeva senza un motivo preciso, solo ad aumentare la velocità. Serrò gli occhi e prese a camminare ancora più velocemente. Sperò che lui non la raggiungesse.
Improvvisamente le dita di Bill circondarono il suo braccio e la costrinsero a voltarsi. Aveva dimenticato che circa la metà del suo metro e ottanta passato era di gambe.
Evase ancora dal suo sguardo e chiuse gli occhi.
- Bill ho fatto una cazzata, scusa – ripetè e si divincolò dalla sua presa.
Bill urlò qualcosa che non capì. Si chiuse la porta di legno alle sue spalle e andò via, non curante delle ultime parole urlate dal ragazzo. Parole che forse avrebbero potuto cambiare... non tutto, ma gran parte di tutto.

Appena chiuse la porta d’ingresso, sua zia spuntò dal corridoio, fasciata dal suo grembiule fiorato e pieno di tasche, colme di matasse e fili. La inchiodava alla porta anche solo con gli occhi. Era visibilmente arrabbiata.
Oddio... non aveva voglia di ascoltare anche lei, adesso.
- Tu! Signorina, dimmi di grazia, dove sei stata? – urlò, mettendosi le mani sui fianchi abbondanti. Vale poggiò una mano sulla fronte. Calma, doveva stare calma.
- Scusa zia, ma non c’era nessuno, Anja dormiva, sono andata a fare un giro – rispose, mantenendo la voce tranquilla.
- Potevi lasciare un biglietto, qualcosa! – la aggredì, urlando più di prima. Lei abbassò gli occhi: beh, aveva ragione. Era sparita senza lasciare tracce. D’un tratto sua zia sospirò e si passò una mano tra i capelli.
- Senti, – ricominciò, con tono più calmo – a me fa piacere che tu esca, puoi andare dove vuoi, sei grande. Io non ti chiederò nemmeno dove sei stata. Ma per cortesia, evita ogni volta di sparire – si aiutò gesticolando lentamente con le mani. Valentina annuì e pronunciò un timido “Scusa”. All’ultimo sospiro della zia, si avviò per salire in camera sua.
- HAI MANGIATO? – la sentì urlare, mentre lei era sulle scale.
- SI! – urlò e andò in camera sua. Chiuse la porta a chiave. Si diresse al suo cellulare abbandonato sul letto quel pomeriggio e trovò diverse chiamate ed un messaggio.
Lesse velocemente il destinatario dell’ SMS. Sua madre. Il suo cuore fece una capriola. Non seppe definire se fosse gioia, dolore o sdegno. Forse era un miscuglio di tutti e tre i sentimenti fusi insieme. Si fece coraggio e lesse il messaggio.
“Ho provato a chiamarti, ma non rispondi mai. Visto che non posso dirtelo a parole te lo dico quì: Jasmine sta male, c’è il rischio che perda il bambino. Devi tornare in Italia entro dopodomani.”
Vale sollevò lo sguardo dal telefono e guardò il muro di fronte a lei. Sbiancò.
 
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Lullaby;
view post Posted on 16/3/2009, 14:59




Bill e Valentina sono perfetti...
CITAZIONE
E soprattutto... era stato un gesto da maniaco guardarle il culo mentre si allontanava?

Sì, sei un maniaco Bill U.U
 
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Shynee
view post Posted on 19/3/2009, 19:55




Perfetti? Lei mi sta antipatica
 
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52 replies since 18/2/2009, 10:49   2480 views
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