| Capitolo 4.
Quella stessa sera, gli zii ritornarono dalla gita, preoccupati per lei e si scoprì che la ragazza aveva parecchia febbre e un principio di bronchite, dato che aveva cominciato a tossire. Le ci vollero sei giorni a letto per riprendersi, anche se non completamente. Nei giorni di malattia, Valentina ricevette tutte le attenzioni e le cure necessarie. Anche quelle non necessarie per la verità, si sentiva al centro dell’attenzione e dell’amore di tutti e per quanto piacevole fosse, era una cosa abbastanza nuova che la colse in contropiede. I suoi genitori la chiamavano regolarmente ogni giorno per sapere come stesse e lentamente si stava abituando alla notizia del bambino in arrivo, riuscendo perfino a conviverci. Aveva raggiunto un minimo equilibrio interno, finalmente. Il pomeriggio decise di alzarsi finalmente da quel letto, che nonostante la sua ampiezza era diventato troppo stretto. Voleva tornare nella biblioteca, era l’unico luogo che le trasmettesse tranquillità, oltre la sua stanza. Posò i piedi coperti solo dai calzini terra. Prima di uscire da quella stanza lanciò uno sguardo all’orologio a muro: esattamente le tre e mezza del pomeriggio. Perfetto, a quell’ora gli zii riposavano e la governante anche. Fece scivolare il cotone fresco del vestitino da notte che indossava sul pavimento e si vestì, prendendo dall’armadio un paio di jeans e una semplice maglietta, scegliendo tra i suoi capi che Anja aveva tirato fuori dalle sue valige e sistemato nel guardaroba. Scivolò giù dalle scale in punta di piedi, facendo attenzione a non fare rumore con le scarpe e percorse il corridoio. Da uno dei mobili che lo arredavano, prese una penna e se la infilò tra i capelli, lasciando che alcune ciocche sfuggissero ribelli a quella fragile presa e scivolassero sul collo, accarezzandolo e cadendo poi morbidi su una spalla. Finalmente si ritrovò di fronte a quella porta che celava l’immenso e favoloso mondo di carta. La scostò con un’energica spinta e ci s’infilò dentro, silenziosa. Subito si trovò quasi catapultata in quel mondo a tomi, in quell’ambiente dove tutti i sogni potevano prendere vita ed essere vissuti esattamente come la vita. Si guardò intorno, con gli occhi che brillavano. Fissò la scrivania di legno scuro, piena di fascicoli e fogli di carta dai contenuti incomprensibili e poi si trovò ad ammirare la grandissima poltrona che ci troneggiava dietro, imperiosa. Ci si avvicinò, sfiorando con le dita la superficie liscia del legno, girò intorno e si trovò accanto alla sedia. Sorrise pensando che a casa sua non aveva mai visto nulla del genere e che sicuramente sua madre si sarebbe trovata con gli occhi sognanti esattamente come lei in quel momento davanti a quello spettacolo meraviglioso. Chissà quanto c’era da scoprire tra quelle pagine, quanti mondi, quante parole, nascoste in quei volumi. Sicuramente non le sarebbe bastata tutta la vita per leggerli tutti, nonostante fosse capace di leggere un tomo di cinquecento pagine in due giorni. “Divoratrice di libri. Così perdi tutto il gusto!” le diceva sua madre sempre. Ma non ce la faceva, era più forte di lei: doveva continuare a leggere, non riusciva a fare come la maggior parte della gente, a riporre il libro, per dormire o anche solo per ritagliarsi uno spazio libero. Fissò la porta finestra e le immagini dei ricordi di qualche giorno prima le trapassarono la mente, non senza una punta di ansia. Si diresse verso quella finestra lentamente, sentendo che il dolore la colpiva molto, molto schermato, lasciando che godesse ancora di quella temporanea serenità. Si fermò e osservò la strada attraversata da qualche passante e da qualche macchinone di tanto intanto. Poi scorse qualcosa. O meglio, qualcuno. Una persona sul marciapiede stava parlando con un uomo molto robusto e molto alto, con degli spessi occhiali neri. Un contrasto lampante rispetto a quello con cui discuteva, che anche se alto, aveva una figura molto magra e longilinea. Valentina poteva vedere chiaramente il viso dell’uomo robusto, visto che si trovava quasi di fronte a lei. Li vide discorrere ancora insieme ed poi annuire entrambi. L’uomo andò via entrando in un’auto, e la persona entrare nel giardino della villa, passando per il cancelletto. Quando si guardò intorno e voltò la testa, scrutando ogni cosa, Valentina riuscì a vederne il viso, prima nascosto dai lunghi capelli neri. I suoi lineamenti erano delicatissimi, quasi femminei, tanto che fu un attimo indecisa se classificare quella persona come un ragazzo o una ragazza. Qualsiasi cosa fosse, sembrava nutrire un po’ di preoccupazione. Scrutava l’ambiente intorno, come se avesse paura che qualcuno l’avesse visto o lo vedesse. Poi ricordò il discorso di Anja, qualche giorno prima: “E’ un ragazzo, pare che abbia appena diciotto anni. E quando non ha da fare ritorna a casa dei parenti oppure viene quì con suo fratello, che ora è in viaggio” Due fratelli, quindi quasi sicuramente quello era un ragazzo, costatò con un po’ di scetticismo in volto. Lo guardò meglio e gli sembrò di averlo visto da qualche parte. Sgranò gli occhi all’improvviso: era... era la stessa persona che aveva visto quel pomeriggio! Poi il ragazzo scomparve in casa sua. Istintivamente allungò il collo per cercarlo ancora, ma non c’era più nessuno. Stranamente, le venne in mente l’unica volta in cui si era innamorata. Strano ma vero, nonostante tutto ciò che lei aveva passato, una volta si era concessa di innamorarsi di un ragazzo, poco più grande di lei. Grosso, grosso sbaglio. Si era lasciato incantare dal suo aspetto, dalla sua aria gentile, ma non sapeva che dietro quell’aspetto c’era una persona che aveva sofferto e che aveva degli ostacoli da superare. L’aveva illusa. Le aveva fatto credere di amarla, ed in effetti sentiva qualcosa per lei, anche se qualcosa di molto superficiale, legato soprattutto all’apparenza. Chissà, forse avrebbe potuto svilupparsi se non l’avesse lasciata perdere dopo che aveva scoperto che non riusciva a lasciarsi andare. “Non riesci a darmi quello che voglio, hai troppi problemi” le disse per telefono. Nemmeno faccia a faccia. Lei non ebbe nemmeno il tempo di replicare, lui aveva già chiuso. Valentina quel giorno lasciò scivolare ancora una volta il telefono dalla mano, ma a quel tempo era più solido, non si aprì. Il suo cuore andò in pezzi. In pezzi letteralmente. Provò in un solo momento la vergogna di essere quello che era, la frustrazione di sentirsi sbagliata. L’umiliazione e la sofferenza, infine la rabbia. Soffrì tantissimo. E si disse che in vita sua non avrebbe più amato in quel modo incondizionato. Perchè lei era così: non conosceva l’interesse, l’ipocrisia verso le altre persone. Non conosceva la cattiveria, quella pura, quella che porta una persona ad essere considerata “viscida”. Conosceva la rabbia, conosceva la frustrazione, ma non era mai sbottata. Ed aveva elaborato una tesi. Semplice, concisa, ma efficace: qualsiasi essere di sesso maschile presente sulla terra è uno stronzo manipolatore, insensibile ed egoista. Semplicemente, è maschio. Aprì la vetrata sorridendo mestamente e andò sul balcone. Il cielo era finalmente sereno, equilibrato nella sua armonia da piccoli sprazzi bianchi dai contorni soffusi. Le giornate si stavano riscaldando, la primavera cominciava a farsi sentire anche lì, finalmente. Si stiracchiò respirando rumorosamente e poi abbandonò i muscoli e le braccia lungo i fianchi. Con un altro salto, Valentina atterrò dall’altra parte del balcone, molto meno violentemente e in modo più agile e disinvolto. Soddisfatta di se, constatò che quello era il modo più facile e veloce di ritrovarsi in giardino e che lo avrebbe utilizzato spesso. Decise di fare un giro intorno all’enorme proprietà degli zii. Anche se era uscita poco dalla sua stanza, ormai si sapeva orientare. Camminò percorrendo tutto il perimetro, poi ritornò vicino al balcone della biblioteca. Agitò le dita delle mani rilassate lungo il suo corpo e arricciò la bocca, non sapendo che fare. Poi sentì un rumore. Il rumore di qualcosa che si muoveva. Si guardò intorno, ma sentiva solo passi pesanti e decisi. Si girò e vide un cane che le andava incontro. Un cane grande e grigio, con zampe sottili e due orecchie allungate sulla testa piccola. Conosceva la razza, era un Alano. Si avvicinava sempre di più, non ne ebbe paura. Ma anche se ne avesse avuta, non l’avrebbe mostrata. Perchè più si mostra di aver paura, più l’antagonista è motivato ad attaccare. Sempre. Si abbassò mettendosi in equilibrio sulle mezze punte e cercò di assumere un’espressione più rassicurante possibile. - Ciao... - disse calma. Il cane le andò incontro e si sedette composto davanti a lei. Vale allungò lentamente una mano, con il palmo rivolto verso l’alto, permettendogli di annusarla e di assicurarsi che non fosse cattiva. Poi lo vide distendersi di fronte a lei, chiedendo esplicitamente carezze e coccole. Non ci pensò due volte e passò la mano su quel pelo scuro e grigio, massaggiando la pelle. - Le apparenze ingannano sempre, sai? – cominciò a parlare seria, fingendo che il suo interlocutore potesse capirla – Conosci qualcuno che ti sta simpatico, ti sembra gentile, limpido e cristallino, ma appena ti ha spremuto come un limone, non perde tempo e ti liquida via, con una buona dose di pugnalate dietro la schiena. E’ strano, ci provano perfino gusto – borbottò, con una punta di amarezza nella voce. Prese a parlare in tedesco, immaginando che il cane capisse solo quella lingua. Tutto ciò che ebbe come risposta, fu un guaito soffocato di piacere del bestione. - Ma la verità è che questo mondo funziona così. Bisogna far del male per sopravvivere. Sembra alquanto vittimistico come discorso, ma è così... -. Il cane guaì ancora. Riportò l’attenzione su di lui e si rese conto che aveva smesso di accarezzargli il pancione. Sbuffò, seccata e ripassò la mano sul pelo. - Ma che cosa pretendo da te? Sei solo un cane... – si derise da sola e sorrise. - Sono d’accordo – una voce estranea all’improvviso la fece sobbalzare. Il cane si rimise in piedi, guardandosi intorno in cerca di qualcosa o qualcuno. Lei dapprima si guardò intorno come lui, ma poi alzò la testa e notò con stupore e piacere che la misteriosa persona dagli occhi color castagna le aveva parlato, appoggiata al davanzale della solita finestra del piano superiore della villa accanto. Rimase senza parole. - Hai sentito tutto? – chiese imbarazzatissima, arrossendo fino alla radice dei capelli. - Direi di si. Che triste filosofia di vita che hai – commentò aggrottando la fronte. Vale alzò le spalle e suo malgrado si trovò a sorridere. - E’ triste però è... giusta - rispose. Si era dimenticata come si dicesse “vero” in tedesco. - Forse - approvò alzando una spalla anche lui. – Che bello il tuo interlocutore. Loquace - sorrise. Vale alzò le sopracciglia, poi diede uno sguardo al cane: – Beh, forse non molto, però sa ascoltare in silenzio - ribatté accarezzandogli la testa. Poi riportò lo sguardo sul viso del ragazzo. Notò che la fissava accigliato, come se fosse meravigliato di qualcosa. Si sentì a disagio ad essere scrutata in quella maniera. L’insufficienza era una brutta sensazione. Il presentimento costante e continuo che ti fiata sul collo come una spada di Damocle. Valentina con quella sensazione ormai ci conviveva. - Posso scendere? E’ difficile parlare così ed è alquanto imbarazzante per me dover fare la Giulietta della situazione – disse ironico. Lei sentì il suono di una breve risata, che con stupore scoprì essere la propria. - D’accordo – rispose sorridendo e il ragazzo poco dopo scomparve dalla finestra. Lei ritornò seria. Ma era pazza forse? Si dette uno schiaffo sulla fronte e chiuse gli occhi, pensando che si, era decisamente pazza, senza il forse e il punto interrogativo. Lo vide uscire dal portone, scendere la piccola scalinata e andarle incontro, e lei si sforzò di esibire un’espressione affabile. Lo scrutò meglio: magro come un chiodo, vestito totalmente di nero, a parte qualche contrasto con le fasce bianche della sua maglietta a maniche corte e le striature bionde dei suoi capelli, che portava lunghi e scomposti sulle spalle. Non riuscì a dargli un giudizio lì, per lì: era così e basta. Si avvicinò al confine tra una casa e l’altra, delimitato solo da un muretto di pietra spesso ma anche piuttosto basso. Si appoggiò con gli avambracci a quella superficie ruvida e si sporse in avanti, posando lo sguardo su quel cane che oziava seduto accanto a lei. - Io avrei paura a stare accanto ad una bestia così – cominciò con un sopracciglio alzato, indicandolo con il dito. Vale restò piacevolmente sorpresa quando notò le mani del ragazzo, con unghie rosa e naturali, ma perfettamente curate e definite. Scrollò le spalle, fece un’altra carezza alla testa del cane, che per risposta abbassò le orecchie, tendendole all’indietro. Poi si avvicinò al ragazzo, andando incontro a quel muro e gli porse la mano. - Io sono Valentina – si presentò cortesemente. Lui parve scrutarla un momento, incredulo. - Bill... – rispose e Vale ignorò il tono insicuro e appena sorpreso della sua voce. - Allora, come... come stai? – riprese il ragazzo, mentre ritraeva la mano. - Aehm... bene? – rispose incerta. Il pensiero che quella non fosse una domanda di cortesia non l’aveva nemmeno sfiorata. Lui sorrise comprensivo e scosse la testa verso il basso. - Parlo della tua salute. Ti sei ripresa? -. Vale aprì per un attimo la bocca e spalancò di poco gli occhi. Capì e fu... terrorizzata. - ...Oh – sfiatò, atterrita. – Tu... ehm... sei... hai... – l’imbarazzo sembrava averle bloccato la facoltà di pensare e parlare come una persona normale. Pensò solo che, porca miseria, lui era... lui aveva... - Si – confermò lui, sbattendole in faccia la cruda verità. Voleva morire, in quel momento avrebbe voluto sprofondare. - Ehm... a questo proposito... – Vale ascoltò la sua voce elaborare qualcosa di sensato al posto della sua mente. - Volevo ringraziarti di cuore, sai... per il tuo… intervento – biascicò massaggiandosi la fronte, gli occhi costantemente bassi. Quella situazione era fastidiosa e le stava scomoda come un vestito stretto. - Figurati – minimizzò lui con un gesto della mano. Non disse altro, non chiese più niente e Vale ringraziò mentalmente quella sua discrezione, sapendo per certo che se le avesse chiesto qualcosa, comunque non avrebbe risposto: era stanca della gente che metteva il naso nella sua vita e nei suoi sentimenti. - Chissà come ti sono apparsa... – disse tanto per spezzare il velo silenzioso che si era adagiato su di loro. Bill ci pensò un po’ e si portò una mano al mento. - Mhm... Fammi pensare... Ci sono: bagnata – rispose ilare, dopo averci pensato su qualche secondo. L’imbarazzo iniziale sembrò sciogliersi e Vale rise di nuovo. - Beh, meglio bagnata che non barbona, patetica, idiota, incosciente...e potrei continuare all’infinito – parlò elencando tutto automaticamente, evadendo dal suo sguardo e tenendo il conto con la mano. Bill ridacchiò e dondolò le labbra. - No, non ho pensato niente del genere –. Valentina ne scrutò i movimenti: quando parlava, muoveva molto i muscoli facciali e le pupille, che però non fissavano mai l’interlocutore diretto. Muoveva le mani e ogni tanto si scostava un ciuffo di capelli dalla fronte. Che tipo particolare... - E come mi avresti definita? - chiese accigliata. A quel punto era curiosa, se non era passato “niente del genere” dalla mente del ragazzo (che a quel punto decise che era proprio strano) chissà che impressione aveva fatto. Bill la guardò e aprì le labbra per parlare: - Beh... credo che... -. - Valentina! Tua zia mi ha chiesto di dirti di venire dentro! – Anja apparve in giardino, stretta nei suoi comuni jeans e nella sua maglia nera informe. I capelli biondi legati in un’alta coda di cavallo evidenziarono la bella forma del viso. Entrambi si voltarono verso l’intrusa. - Oh, buon pomeriggio signore – la donna salutò cortesemente. - Buon pomeriggio - rispose tranquillo e con una piccola spinta si alzò dal muretto. - Bene, ci vediamo allora - concluse lui, ritrovando tutto il distacco iniziale. Vale lo squadrò meglio e pensò che anche lui era stato molto distaccato, un po’ di più della gente che conosceva di solito. - Ci vediamo – rispose, ma le rimase in bocca il retrogusto del curioso. Forse era solo riservato... o forse anche lui non si fidava della gente. Accompagnata dalle braccia della governante, ritornò dentro, questa volta utilizzando la comune porta.
Gloria camminava sul marciapiede, stando attenta a tenere la piccola Giorgia per mano e a non lasciarsela sfuggire, dato che si dimenava come una matta. Quando voleva correre dietro ai piccioni che si posavano a terra era difficile controllarla, se non quasi impossibile. Con una mano teneva a bada la piccolina, con l’altra teneva le tre buste cariche di spesa e nel mentre parlava al telefono, incastrato abilmente tra la spalla e la testa, piegata da un lato. Stava parlando con sua sorella Brigitte che la informava sulle condizioni di salute di Valentina in modo più dettagliato di quanto non potesse fare sua figlia. Fu ben felice di sapere che si era ripresa quasi completamente, che non si svegliava più la notte tutta sudata, che la tranquillità gliela si leggeva sul viso. - Ma dove sei Glo? Si sente un baccano! - tuonò poi la sorella, sentendo i rumori delle auto e le urla della bambina, amplificate dal microfono del cellulare. - Mamma! Io voglio inseguire i piccioni, voglio inseguire i piccioni, voglio inseguire i piccioni! – urlò Giorgia più capricciosa che mai. Quando la mattina si svegliava anche mezz’ora prima, era ancora più insopportabile per tutto il giorno. Gloria sospirò e alzò gli occhi al cielo. - Sono per strada e devo tenere a bada la piccolina che cerca di sfuggire alla presa della mia mano e con l’altra libera devo portare le buste della spesa. Stiamo andando a casa. Grazie al cielo siamo arrivate quasi. – Si ripromise che la prossima volta che le sarebbe venuto in mente di fare una passeggiata a piedi, invece di usare la macchina, si sarebbe ricordata di quella mattinata terribile. - Oh, scusami! Pensavo che fossi libera, ti ho tenuto così tanto al telefono! Avrai fatto i salti mortali! – Gloria prese dalla borsa le chiavi di casa e ringraziò mentalmente che fosse arrivata a casa sua. - Beh, in effetti... Ora ti lascio Brigitte, sto salendo e mi raccomando a Valentina - Si salutarono, poi Gloria ripose il telefono nella borsa. Ma... con che mano? Guardò la sua mano e vide che era libera, poi si guardò intorno e di Giorgia nemmeno l’ombra. I suoi occhi si sgranarono, mentre terrorizzata si guardava attorno, pregando di scorgere la figura di sua figlia da un momento all’altro. Ma non vedeva nulla. Lasciò la spesa nel portone e lo chiuse, poi con le lacrime agli occhi cominciò a correre intorno all’isolato. - Giorgia! Giorgia, dove sei? – urlava sconvolta. Il cuore le batteva convulsamente. Svoltò un angolo qualsiasi, sbatteva contro la gente, ma non vedeva nulla, se non visi sconosciuti che la fissavano alcuni accigliati, altri spaventati, altri preoccupati. - Giorgia! – continuava ad urlare il suo nome – scusi ha visto una bambina con i capelli corti, gli occhi marroni e grandi, alta all’incirca così? – e indicò con la mano un’altezza di circa un metro e qualche centimetro da terra. L’uomo a cui si era rivolta fece cenno di no con la testa, avvilito. Continuò a percorrere la strada, quando all’improvviso: - Mamma! – una voce infantile e limpida la fece voltare. Il volto era rigato dalle lacrime e deformato dal terrore. Vide la piccola Giorgia che tendeva le braccia verso di lei in braccio ad un uomo abbastanza alto e brizzolato. Le andò incontro e senza nemmeno fare caso alla persona che quasi gliela porgeva. La prese fra le braccia e la strinse, premendo la mano sulla piccola nuca bianca e pallida. - Non farlo mai più, capito?! – urlò quasi, continuando a piangere ad occhi chiusi. Immerse il viso nel collo della bimba, poi aprì gli occhi. Si trovò di fronte un uomo. - Oh, grazie, grazie infinite.- disse quasi adulante. Lui sorrise gentilmente, rivelando una fila di denti bianchi e perfetti. Le brizzolature tra i capelli lo rendevano ancora più affascinante. - Ma si figuri. L’ho trovata nella traversa qui di fronte – e la indicò con il dito – e poi ho visto lei che piangeva e urlava un nome. A quanto pare si chiama Giorgia - - Non so come sdebitarmi – pigolò quasi interrompendolo – Cosa posso fare per ringraziarla? – chiese facendo scendere la piccola Giorgia dalle braccia e la posò a terra, stando attenta a serrarle bene la mano intorno al polso. - Può accettare il mio invito a cena - disse lui, cordiale e sorridente. Gloria ricambiò il sorriso, pensando da quanto tempo non si divertisse e non usciva un po’. - Beh, glielo devo. Gloria, piacere - e raggiante gli porse la mano (quella libera). - Daniel, il piacere è tutto mio - gliela prese e gliela baciò.
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