CITAZIONE (rok1 @ 13/1/2009, 16:51)
Lei una fiction così non l' ha mai fatta!
Ma dai, credo che ognuno abbia il proprio stile e di conseguenza le proprie idee.
Lo prendo comunque come un complimento, grazie!
Lipsia, 2 Settembre 1989.
L’orario delle visite non era ancora cominciato, ma in quell’ospedale era comune consuetudine far visita ai pazienti al di fuori degli orari prestabiliti.
Erano le nove passate.
Simòne indugiava davanti a quella porta ormai da un’ora. Si avvicinava, decisa ad entrare, ma prima che gli occhi oltrepassassero la soglia per sfiorare una qualche immagine della stanza, si bloccava e ritornava seduta sulla sua sedia, mangiucchiandosi le pellicine delle dita. Le persone che stazionavano nel corridoio del reparto Ostetricia la osservavano: chi con scetticismo, chi con curiosità e chi addirittura con compassione, pensando che fosse pazza, ma lei non se ne curava. Non aveva motivi per farlo. Dopo aver passato la notte in ospedale, agitata e nervosa, camminando per il reparto come un leone in gabbia, ponendosi un milione di domande a cui non aveva risposta, proprio non riusciva a preoccuparsi dell'opinione pubblica.
Chi glielo avrebbe mai detto che a venticinque anni non avrebbe avuto la forza di parlare a qualcuno, nonostante una parte di lei fosse cosciente che non era un semplice “qualcuno” chi aspettava in quella stanza.
Sua sorella…
La ragazza che molti anni prima aveva cullato di notte, nel tentativo di calmare una colica fastidiosa. Quella che aveva accarezzato, amato.
La stessa ragazza che due anni prima aveva spezzato il cuore a lei e alla sua famiglia, scappando senza lasciare nessuna traccia. Quella che aveva insultato lei e sua madre, sbraitando che le stavano rovinando la vita con le loro proibizioni, senza rendersi conto che la vita se la stava rovinando lei con le sue stesse mani. Scosse le onde dei suoi capelli. Scacciò via quei ricordi dolorosi ed entrò, imponendosi di non pensare.
L’ambiente era abbastanza piccolo: due letti vuoti addossati alla parete destra e un letto a quella sinistra, tutti affiancati da piccoli mobiletti bianchi. In una nicchia a sinistra c’erano un piccolo armadio, un fasciatoio e un lavandino. Le pareti, i mobili, le lenzuola, tutto emanava un odore dolce con un retrogusto fruttato.
- Sei venuta... – una voce spezzò il silenzio della stanza, priva di inflessioni. Seduta sul letto addossato alla parete sinistra, le ginocchia piegate e la schiena poggiata su diversi cuscini, sua sorella aveva lo sguardo perso. Simòne raccattò una sedia da qualche parte e le si sedette accanto. Le guardò gli occhi gonfi, il viso smunto; le labbra bianche e screpolate, solo un vago riflesso di ciò che erano state. Era impressionante. Era straziante.
Guardò oltre il letto, in cerca di qualcosa.
- Non ci sono – sentì mormorare Silke, gli occhi ancora persi nel bianco delle lenzuola.
Lei aggrottò la fronte.
- Si, sono... sono due gemelli. Maschi – chiarì la sorella.
Per la prima volta dal giorno prima, Simòne sorrise. Un sorriso vero, generato da una felicità morbida, leggera. Avrebbe voluto abbracciare sua sorella e condividere quell’emozione con lei, ma qualcosa la fermava. Forse il suo volto, inespressivo come quello di una statua.
- E’ una bella cosa, no? – si azzardò a chiedere.
La ragazza annuì appena, ma non sembrava dare troppa importanza alla cosa. Fu lì che qualcosa cominciò ad agitarlesi dentro.
– E’ successo qualcosa? – domandò, posando una mano sulla spalla della ragazza.
Silke non rispose e il cuore cominciò a battere appena più veloce.
– Silke, rispondi – le disse scuotendola appena, le mani che cominciavano a tremare.
- No, non è successo niente. Li hanno portati via per i controlli di routine – la tranquillizzò sua sorella. Simòne sospirò, sentendosi già più sollevata. Sollievo che durò poco, appena il tempo di accorgersi delle cose in sospeso che c’erano tra lei e sua sorella. C’era una mole immensa di cose da spiegare, da chiedere. Ed era conscia che il passo più difficile sarebbe stato quello di iniziare.
Si sentì di nuovo irrequieta, tentata dalla voglia di annodarsi le dita delle mani. Sua sorella invece appariva così rilassata… così spenta. Sembrava un involucro svuotato. Qualcosa corrompeva i suoi lineamenti, ma non seppe identificare cosa.
- Sai, pensavo che forse dovrei lasciarli qui – disse all’improvviso Silke, spezzando il silenzio.
- Cosa? – chiese, presa alla sprovvista.
- Ho detto che forse non dovrei fare loro da madre – ripeté tranquillamente. Sembrava stesse parlando delle condizioni meteorologiche.
Sperò con tutte le sue forze di aver capito male.
- Perché? – chiese, la voce appena incrinata. Lo stomaco le si attorcigliò. Non era sicura di voler conoscere la risposta.
- Perchè credo che sia meglio così –
A quel punto sentì un moto di rabbia e di irritazione crescerle dentro. Non solo per il tipico atteggiamento di sua sorella, quello di parlare, parlare e non spiegare mai, ma anche perchè non capiva troppe cose. Troppi passaggi le erano oscuri.
- Non dire stupidaggini. Quei bambini hanno bisogno di te. E poi, dimmi, quale madre abbandonerebbe i suoi figli? –. Rimproverandola, scoprì di avere lo stesso tono severo ma amorevole che usava due anni prima.
Silke serrò la mascella, i pugni che stringevano le lenzuola.
- E io, da sola, che futuro potrei garantirgli? Pensi che abbandonarli non mi costi niente? – ringhiò.
Simòne per poco non la prese a schiaffi.
- Tu non sei sola. Hai la tua famiglia, hai me. Insieme possiamo farcela –
La ragazza fece saettare il suoi occhi verso di lei e la guardò come se avesse detto un’eresia. La sua espressione fu così convincente che per un attimo credette davvero di aver bestemmiato.
- E con che coraggio tornerò a casa con due bocche in più da sfamare e nemmeno uno straccio di lavoro? Come guarderò in faccia i nostri genitori? Dopo tutto quello che ho fatto… - s’interruppe, voltando la testa dall’altro lato. La maschera impassibile che Silke si era dipinta in faccia si sciolse e la ragazza si coprì gli occhi con una mano. Dopo qualche secondo, si vide una lacrima rotolare sulla guancia scavata, seguita da sussulti soffocati.
Simòne sapeva che si sentiva in colpa, che i rimpianti la stavano divorando da dentro con morsi dolorosi. E fu come se stessero divorando anche lei. Non poteva fare niente se non guardarla soffrire.
Le aveva sempre detto che si sarebbe pentita di tutto solo quando fosse stato troppo tardi. Lei stessa aveva urlato in preda alla rabbia il giorno prima della sua sparizione che non avrebbe trovato nessuno, quando si sarebbe pentita, che aveva sopportato anche troppo.
In quel momento, però, tutti i ricordi colmi di rancore, tutte le raccomandazioni verso se stessa perdevano di significato. La promessa di odiarla per tutta la vita si infranse quando si accorse che provava solo comprensione per quella giovane donna che aveva l’unica colpa di essere umana. Solo amore. Lo percepiva in modo quasi violento.
Si sollevò dalla sedia cigolante e la circondò con le sue braccia. Posò la guancia sui suoi capelli, chiudendo gli occhi, qualche lacrima impigliata tra le ciglia.
- Con lo stesso coraggio con cui hai guardato me. Noi non ti lasceremo da sola, siamo la tua famiglia – rispose dolcemente, mentre Silke singhiozzava sotto le sue braccia. Non sapeva nemmeno lei come avrebbero fatto, ma in quel momento ci credeva davvero.
- No… non capisci… - sussurrò la ragazza, ma troppo confusamente perché Simòne capisse. Si scostò da lei e posò le mani sulle guance arrossate e umide di Silke: la guardò negli occhi e le rivolse un sorriso rassicurante.
- Andrà tutto bene - sussurrò.
In quel momento qualcuno bussò alla porta. Si voltarono entrambe e videro una donna vestita di bianco che sorrideva, mentre spingeva una culletta di plastica trasparente poggiata su un carrello metallico a quattro ruote.
- Posso entrare? – chiese l’infermiera con voce gentile. I muscoli di Silke si rilassarono e finalmente sorrise anche lei. Sembrò quasi la ragazza di due anni prima.
- Prego – rispose asciugandosi le lacrime con le dita.
La donna avanzò e spostò la culla accanto a Simòne. Sorrise un’ultima volta, poi uscì, salutando.
Gli occhi di Simòne videro qualcosa che non avevano mai ammirato prima: infagottati in due tutine azzurre, c’erano due bambini. Uno sembrava dormire, l’altro dimenava le piccole braccia emettendo brevi lamenti. Due pelli morbide e arrossate, due teste ricoperte da una soffice patina bionda. I loro visi paffuti erano identici, entrambi corrucciati in una smorfia.
Simòne aveva già visto dei bambini nella corso della sua vita. Aveva già avuto a che fare con dei neonati. Ma nessuna delle sue esperienze era equiparabile a ciò che provò nel vedere quei due esserini, così fragili, così innocenti… Così puri che aveva quasi paura a toccarli. L’emozione fu tanta che coprì con le mani il sorriso che era nato sulle sue labbra. Rimase senza fiato.
Si voltò verso sua sorella, che li guardava, ma diversamente da lei. Il suo sorriso era stanco ma sereno, pieno di dolcezza; i suoi occhi traboccavano d’amore. Tese le braccia e sollevò uno dei due bambini in un gesto naturale, attirandolo a sé e stringendolo al petto. Poi lo distese tra le braccia, raccolte a formare una sorta di culla.
- Come… come li hai chiamati? – sillabò Simòne, masticando le parole.
- Lui è Tom – rispose indicando il bimbo che aveva tra le braccia, - Invece… lui è Bill – e fece un cenno verso il fagottino azzurro che dormiva nella culla.
- Sono bellissimi – mormorò sinceramente. – Posso chiederti chi è il padre? – domandò con tutta la delicatezza possibile.
La ragazza abbassò lo sguardo, contraendo le labbra. Simòne capì di aver fatto la domanda sbagliata. La magia e la gioia del momento si persero.
- Va bene, non fa niente - disse, ma Silke non si rasserenò. Anzi, si mostrò ancora più turbata. Sembrò che quella domanda le avesse ricordato qualcosa.
- Simòne, devi promettermi che porterai quella busta alla polizia. E’ molto importante – disse con tono serio.
Quella frase le fece ritornare in mente il pomeriggio del giorno prima. Scavò tra i ricordi, in cerca della busta di cui parlava sua sorella, ma rinvenne solo poche e frammentarie immagini. Non ricordava quasi niente, se non urla, lacrime e terrore.
- Va bene – affermò comunque. – Lo farò, quando uscirai da qui -
Silke non sembrò soddisfatta, ma annuì ugualmente. - E devi promettermi anche un’altra cosa -
La incitò con il capo a continuare.
- Se dovesse accadere qualcosa, qualsiasi cosa… tu ti dovrai prendere cura dei bambini. Devono avere tutto quello di cui avranno bisogno -
- Ma cosa stai dicendo? – domandò accigliata e anche un po’ spaventata. – C’è qualcosa che… -
- Promettimelo – la incalzò.
Sospirò. - Promesso –
Edited by Shynee - 30/7/2009, 11:26