| Monique; |
| | I Tokio Hotel non mi appartengono, i fatti narrati non sono realmente accaduti e non guadagno niente dalla loro narrazione. Detto questo, enjoy. ^^ Love for music Prologo Ho sempre pensato che ognuno abbia il proprio modo di esprimersi e che debba difenderlo con le unghie e con i denti, perché è una delle poche cose che un individuo possa vantare come personali, unicamente proprie. C’è chi usa le parole, il mezzo più ordinario, chi il look, chi il disegno, chi la cucina… Io avevo la musica. Pizzicare corde, premere i tasti di un pianoforte e sentire la melodia librarsi dallo strumento che suonavo mi faceva sentire piena, viva, consapevole dei miei sentimenti. Suonare mi aveva sempre aiutata a conoscerli, capirli, analizzarli. Se non sapevo riconoscerne il vortice confuso, bastava che mi avvicinassi ad un basso, ad una chitarra, ad un’arpa o una tastiera e cominciassi a suonare. La melodia si plasmava seguendo le forme delle mie percezioni, lenta e malinconica, oppure energica, o sferzante e dura. Era uno sfogo, un tuffo a capofitto in me stessa, quando chiudevo gli occhi e lasciavo che le mani si muovessero da sole. In alcuni momenti mi sentivo così in comunione con la musica da sentire di essermi confusa e mescolata ad essa. Io ero un insieme di note, così disarmonico e lineare insieme da confondere e stordire. Ma era la musica, e la musica era me. Era tutta la mia vita. Capitolo 1 Era una giornata come tante. Solo una giornata come tante. Mentre mi vestivo, facendo particolare attenzione agli abbinamenti, continuavo a snocciolare quella frase fino a trasformarla in una nenia senza senso. Per la verità, non ero particolarmente euforica, né particolarmente allegra. Conservavo solo un vago sentore di felicità per il nuovo lavoro che ero riuscita ad ottenere (tramite raccomandazione, sia chiaro) e che avrei cominciato quel giorno, ma cercavo di reprimerlo con tutta me stessa. Non lasciarmi prendere troppo dagli eventi e dalle emozioni era un’abitudine per me, uno dei limiti che imponevo a me stessa. Mi scrutai allo specchio, cercando di studiarmi attentamente e di capire cosa fare per migliorare il mio aspetto. Nel complesso non ero male. Belle labbra, piene e rosa, e lineamenti delicati e armonici. Le uniche pecche erano il colore innaturale della mia pelle, che mi faceva sembrare sempre malaticcia, e quello degli occhi: un comunissimo castano, certo, poco usuale per una tedesca, ma comunque non degno di nota. Forse sui miei capelli potevo puntare di più. Erano di un biondo luminoso, e sciolti si allungavano in ciocche ondulate fin sotto i seni. Li sistemai e passai un velo di trucco sul viso, giusto per avere un colorito meno cadaverico. Benché normalmente non badassi troppo al mio aspetto esteriore, quel giorno vi feci più attenzione: non volevo presentarmi ai miei nuovi datori di lavoro bianca come un cencio. Terminato il restauro facciale, uscii di casa e m’infilai in macchina. Guidai per le strade di Amburgo fino a raggiungere l’indirizzo che mi aveva indicato l’uomo con cui avevo parlato al telefono. Era un posto isolato, perciò ci misi una buona mezzora a raggiungere il posto. Visto da dietro il vetro appannato della mia C3, e sotto il cielo plumbeo di quella mattina, sembrava più una masseria isolata che un vero e proprio studio di registrazione. Sui muri di cotto rossiccio si arrampicavano edere verdeggianti, che mettevano radici in un prato inglese molto curato, intrecciandosi ai cespugli. Molto rustico. Non avrei mai immaginato uno studio di registrazione così. Piuttosto mi aspettavo un ambiente buio e pieno di stanze che trasudava tecnologie moderne, nascosto in un’anonima palazzina in periferia. Probabilmente, però, questi tizi avevano molta più fantasia di me. Uscii dall’auto stringendomi nel cappotto e nella sciarpa per ripararmi dal vento. Cercai di ricordare esattamente il nome dell’uomo con cui avevo parlato al telefono e che avrei incontrato di lì a qualche minuto. Un certo David… mi sfuggiva il cognome. Ricordavo solo che appena l’avevo appuntato sul block notes, insieme all’indirizzo e al numero di telefono, avevo pensato che era un cognome da stupido. Camminai fino all’entrata principale, approfittando per guardarmi un po’ intorno: non c’erano auto parcheggiate oltre la mia. Forse non c’era nessuno. Suonai comunque il campanello, in fondo avevo un appuntamento. Poco dopo mi aprì un uomo leggermente più basso di me, con il viso allungato, la mascella squadrata, e due occhi azzurri fin troppo vispi, coperti dai ciuffi ribelli dei suoi capelli neri. Mi squadrò un momento, diffidente, prima di aprir bocca. Tra le sopracciglia gli si formò una piccola ruga. «Lei è…?». «Elsa. Elsa Fränze», risposi meccanicamente. «Ha parlato con me al telefono ieri». «Ah, è qui per il posto di sound editor», disse. «Dev’essere la cugina di Erika. Io sono David Jost». Oh, ecco qual era il cognome da stupido che non riuscivo a ricordare. «Esatto». Sorrisi e gli porsi la mano. Lui l’afferrò. Aveva una stretta asciutta e decisa. «Prego, entri. Le faccio conoscere la band». Erika era la mia cugina di quinto grado. Era una giornalista affermata in Germania, e si era fatta parecchie conoscenze. L’avevo pregata, in nome della nostra parentela fittizia, di trovarmi un lavoro adatto alle mie conoscenze – mi ero diplomata al Conservatorio e avevo frequentato con successo corsi di formazione specifici – e mi aveva combinato un incontro con un famoso produttore di una band musicale, molto in voga in quel momento. Ovviamente non avevo la minima idea di chi fosse la band in questione, e non avevo nessuna aspettativa. Mi serviva un lavoro, non un idolo. «Perdoni la diffidenza iniziale, ma sa, le fan sono sempre pronte a rovinare le vite a tutti», spiegò mentre mi conduceva all’interno. Le stanze erano l’esatto opposto dell’esterno: luminose, ariose, arredate in modo moderno e sui toni del bianco e del marrone chiaro. «Le fan?», domandai perplessa, lasciandomi guidare. «Sì», confermò. «La band è estremamente famosa, ma non si fa vedere da un po’ di tempo in giro per concentrarsi di più sull’album nuovo. E le ragazze non si fanno scrupoli ad invadere la loro privacy». Il fatto che considerasse le masse di fan parlando solo al femminile la diceva molto lunga sul tipo di band che curava. Tuttavia non riuscivo a concepire come si potesse essere tanto insensibili. Anche i… musicisti – mi sforzai di chiamare tali quelli che probabilmente componevano solo motivetti orecchiabili – erano umani, no? «Capirà quando avrà passato un po’ di tempo con noi», disse, probabilmente notando la mia espressione perplessa. David mi portò davanti ad una porta bianca e l’aprì, cedendomi il passo. Entrai per prima nella stanza buia, contigua ad un’altra camera che si poteva vedere tramite l’enorme vetro che copriva metà della parete di fronte a me. Sorvolai sulle meravigliose apparecchiature e sui monitor accesi unicamente perché vidi quattro ragazzi dall’altra parte del vetro. Erano tutti tanto, tanto diversi. Il primo su cui posai lo sguardo fu il batterista, che batteva sui suoi piatti con poca intensità, ma con uno sguardo concentrato. I lineamenti appena paffuti e i capelli biondi e corti gli davano un non so che di tenero e rassicurante. Mi fu subito simpatico. Poco più a sinistra, seduto su uno sgabello, c’era un altro ragazzo dai capelli lunghi e castani che scivolavano lisci su una parte del viso. Pizzicava con le corde del suo basso con sicurezza e maestria. Anche sotto la maglia a maniche lunghe che indossava, potevo individuare un paio di bicipiti piuttosto floridi. Senza volerlo, sulle mie labbra spuntò un sorriso: quel ragazzo era una vera gioia per gli occhi. Al centro, invece, c’era una pertica oscura, che sembrava appena poggiata allo sgabello. Il viso era così gentile da poter essere tranquillamente scambiato per quello di una ragazza, ma dai fianchi stretti e dalla totale assenza di petto capivo che si trattava di un ragazzo. Mormorava quasi, gli occhi chiusi, le mani sulle cuffie. I suoi modi di muoversi, di sfiorare con le labbra il reticolo del microfono, di increspare le sopracciglia mentre cantava lo rendevano magnetico, ed era difficile non concentrare l’attenzione su di lui per tanto tempo. Accanto, il chitarrista suonava ad occhi chiusi. Indossava vestiti di grossa taglia e una bandana nera che raccoglieva i rasta biondi che gli toccavano appena le spalle. Un cerchietto metallico gli perforava il labbro inferiore. Come il cantante, era concentratissimo. Erano tutti e quattro molto gradevoli agli occhi, ma solo del chitarrista pensai, istintivamente, che era bellissimo. Vidi David avvicinarsi alle apparecchiature e premere un pulsante rosso. Poi avvicinò la bocca al microfono: «ragazzi, venite fuori», mormorò. I quattro s’interruppero e mi lanciarono occhiate perplesse. Vennero fuori e mi si piazzarono di fronte, guardandomi con aria perplessa. Perché mi guardavano così? Avevo i capelli fuori posto? Il trucco sbavato? La cerniera dei pantaloni aperta? Cosa?! Decisi di rompere il ghiaccio per prima, ma David fu più svelto. «Lei è Elsa Fränze, la nostra nuova tecnica del suono», mi presentò. «Piacere Elsa, io sono Bill». Il ragazzo più alto, il cantante con i capelli neri si presentò con un largo sorriso. Mi porse la mano elegante e inanellata, inclinandola leggermente in avanti. La sua stretta calda ed equilibrata mi mise subito a mio agio. «Io sono Tom, piacere», disse il ragazzo con i dreadlocks, porgendomi subito la mano nerboruta. La strinsi, osservando attentamente la sua espressione: meno esuberante del cantante, ma anche più riservata e sicura di sé. Sfoderò un sorriso piuttosto ambiguo, che mi fece increspare le sopraglia. Risposi al suo sorriso. Mi sembrò di afferrare una somiglianza tra i ragazzi, specie nel profilo dritto del naso e nella forma degli occhi, ma non ne fui sicura. «Ehi Tom, spostati!». Il ragazzo con i capelli castani e lunghi gli diede di gomito, stirando le labbra da un lato. Poi tornò a guardare me. Benché la stanza fosse illuminata solo dalla luce giallognola della piantana, notai due bellissimi occhi verdi. «Scusalo, quando c’è una bella ragazza in giro diventa esibizionista. Io sono Georg». Strinsi anche la sua mano e risi alla battuta. «Non è vero, qui l’esibizionista è solo Bill», s’intromise il ragazzo dal volto roseo e vispo. Il cantante protestò contrariato, ma nessuno ci fece caso. Sembravano abituati. «Io sono Gustav, l’unica mente sana in questo gruppetto di pazzi». Mi fece l’occhiolino e ci stringemmo la mano. «Bene», il manager batté le mani una volta, «avrai capito con che personaggi avrai a che fare, e immagino che li conoscerai meglio in futuro. Ci vediamo domani», mi liquidò. Dalla sua espressione e dal tono di voce capivo che voleva liquidarmi in fretta. L’ipotesi che fosse uno scemo mi convinse definitivamente. «A che ora posso venire?», chiesi un po’ acida. Fece una smorfia che voleva sembrare pensierosa, ma forse era solo fastidio. «Puoi venire alle nove», rispose. Salutai i ragazzi e mi feci accompagnare all’uscita. Speravo solo che andasse tutto bene.
Parcheggiai nella mia via con le idee piuttosto confuse riguardo quello che mi era accaduto. Ero stata certa di cominciare a lavorare quel giorno stesso, di rendermi utile da subito, invece mi avevano rispedita a casa come un pacco indesiderato, recapitato all’indirizzo sbagliato. Dalla confusione passai rapidamente al nervoso, e dal nervoso all’arrabbiatura. Il tutto, ovviamente, nell’arco di tempo in cui aprii il portone e cercai di far partire quel ferro vecchio che si faceva passare per ascensore. Che avrei fatto per tutto il giorno? Entrai nel mio piccolo salottino sbuffando. Per capire come occupare la giornata, diedi un’occhiata in giro: non c’erano briciole sul divanetto alla mia destra, e i cuscini erano in ordine. Il tappeto era a posto, le cornici sulla televisione spolverate e visibili. Inoltre avevo sistemato le stanze e il bagno il giorno prima. Che stizza, era tutto in ordine, non avevo nemmeno distrazioni. Gettai le chiavi sul piccolo mobiletto, accanto al telefono. Qualche minuto dopo, con un cucchiaio di gelato al cioccolato in bocca, mi buttai sul divano e accesi il televisore: avrei visto il primo film che fosse capitato a tiro. «Che ci fai qui?». Feci sfrecciare lo sguardo in direzione della porta del corridoio, da dove proveniva quella voce assonnata che conoscevo bene. Il mio coinquilino, che indossava solo un paio di slip con motivi a cuoricini, mi guardava stropicciandosi gli occhi. «Didi!», esclamai, segretamente riempita dalla felicità. «Non dovresti essere al negozio?». Alla televisione, una puntata di Baywatch stava cominciando. «Ho chiesto a Ferdinand una mattinata di permesso», rispose. «Stamattina alzarsi era fuori discussione». Le parole gli vennero fuori come poltiglia. Scossi la testa, tornando al gran figo che correva a petto nudo sulla spiaggia. «Quando la smetterai di lavorare in quel locale?», domandai distrattamente. «Quando troverò una discoteca ugualmente famosa disposta ad assumermi», rispose sventolando una mano con aria altezzosa. Affondò sul divano accanto a me, e poggiai le gambe sulle sue. Iniziò a guardare la televisione senza interesse. Malgrado non lo rimproverassi spesso di stressarsi troppo con i suoi due lavori - era barman in una grande discoteca di Amburgo la notte e commesso in un negozio d’abbigliamento femminile di giorno – quella mattina ero davvero sollevata all’idea di averlo con me. Didi non era il suo vero nome, in realtà. Aveva avuto la sfiga di due genitori bigotti e all’antica, che gli avevano affibbiato un nome come Diedrich, perciò si faceva chiamare Didi quasi da tutti. Altra caratteristica che saltava agli occhi di chiunque: la sua totale, irrimediabile, innegabile omosessualità. Lo si poteva capire, oltre che dagli atteggiamenti petulanti e dalle movenze aggraziate, anche dai boxer decorati dalle fantasie più assurde, che puntualmente spuntavano dai suoi pantaloni di pelle, sempre troppo bassi. Gli ultimi che avevo visto avevano un motivo tigrato sul di dietro, con qualche schizzo verde qua e là, e sulla parte anteriore c’era disegnato Tarzan in una posa alquanto compromettente. Ero rabbrividita e avevo distolto lo sguardo, quando ci avevo posato gli occhi la prima volta. Nonostante ciò, era il mio migliore amico da sempre. Ci eravamo conosciuti al liceo quando avevamo quattordici anni, frequentavamo la stessa classe. Ed eravamo sempre stati inseparabili. Finita la scuola, prendemmo casa insieme. Ed eravamo ancora lì. «Che ti prende?», mi chiese tranquillo. Giusto. Avevo dimenticato che era anche un ottimo osservatore. «Niente». Feci spallucce e continuai a guardare lo schermo. Si sporse verso di me con tanto di sorriso angelico e ciglia sfarfallanti su due occhi limpidi e turchini. «Tanto non ci credo». Mi strappò un sorriso. «Mi scoccia che passerò una giornata a casa. Niente di particolare». Feci di nuovo spallucce. Si drizzò sul divano così veloce che mi fece sobbalzare, e si aprì in un sorrisetto machiavellico che mi spaventò. «Bene», concluse. «Allora stasera andiamo a divertirci». E fu lì che cominciai a tremare. Mi costrinse ad infilarmi in un vestitino sintetico a tinta unita, che mi avrebbe sicuramente fatta morire di freddo. Le paillette dorate riflettevano la luce ogni volta che mi muovevo, e uno scollo a barca mi lasciava scoperto il petto. Scendeva leggero e vaporoso sul seno e si stringeva all’altezza dei fianchi, arricciato da un sottile laccetto, terminando in una gonna a pieghe che s’impigliava fra le gambe. «Ma fa freddo!», protestai davanti allo specchio. «Metterai i collant più pesanti», replicò Didi dietro di me. «Ma è troppo corto!», fui costretta ad ammettere, lagnandomi come una bambina. Didi osservò attentamente il mio riflesso nello specchio, poi perlustrò anche la mia parte posteriore con perizia. «Credimi, farà la gioia di molte persone», sussurrò. «Adesso sbrigati». Continuai a guardare il mio riflesso nello specchio, imbronciata. Non era da me vestirmi in modo così appariscente, non ero mai stata una fanatica dell’attenzione. «Elsa!». Di malavoglia, e facendo attenzione a non rompermi le caviglie mentre camminavo sui tacchi alti, lo seguii fino in macchina. «Dove si va, autista?», chiesi, ammirando il suo petto armonico e la muscolatura appena evidente sotto la maglia verde che si era messo. Certe volte rimpiangevo che fosse gay. «Dove non si paga, ovvio. E non guardarmi così». Sbuffai, ignorando il suo ultimo commento. Mi avrebbe portata dove lavorava e poi mi avrebbe imbucata senza problemi. «Ovvio». Quella sera mi divertii sul serio e non pensai a niente. La musica mi riempì la testa e le orecchie, aiutata dall’alcool che mi scolai senza problemi. Mi presi una bella sbronza. Di certo il giorno dopo sarei stata uno straccio, ma che me ne importava in quel momento? Edited by Monique; - 11/9/2009, 20:23
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