Love for music

« Older   Newer »
  Share  
Fee1702
view post Posted on 1/10/2009, 19:36




CHe meraviglia per gli occhi, per il cervello e per il cuore. QUesta storia è qualcosa di fantastico.
La canzone credo sia la più azzeccata che potevi trovare, si perchè Tom ed Elsa sono proprio come sono descritti in quelle frasi che hai trascritto. Io di solito amo Bill in tutte le sfaccettature che gli vengono affibbiate, del resto, non mi vergogno a dirlo, sono di parte xD.
In questa storia, però, mi rendo conto che lui con la protagonista non ha niente a che vedere. Troppo fragile per lei, troppo abituato a sentirsi amato per scontrarsi con la ferocia del carattere di Elsa. TOm lo sa e credo che quando dice " non voglio che mio fratello si prenda una sbandata per una come te" parli proprio di questo.
Tra Elsa e il bel chitarrista è chiaro che ci sia un'attrazione forte, ma due caratteri così identici, potrebbero mai trovare un equilibrio? Diccelo tu Monique e fallo presto perchè sto moredo dall voglia di sapere il continuo!
Fee
 
Top
selina89
view post Posted on 10/10/2009, 15:56




uuuuuuuuuu l ho appena finita di leggere tutta d un fiato...è semplicemente stupenda.. la continuerai vero??? sono troppo curiosa di sapere come finirà tra elsa e tom..il mio tom gelosone eheheh..
 
Top
salamandra940
view post Posted on 12/10/2009, 16:33




è vero è una meraviglia
 
Top
Monique;
view post Posted on 13/10/2009, 23:32




Siete gentilissime e sì, selina, certo che la continuerò. Mi piace troppo questa storia e mi diverto un mondo a scriverla.
Un bacio!
 
Top
Monique;
view post Posted on 20/1/2010, 12:09




Mi dispiace moltissimo, so che ci metto sempre mesi ad aggiornare e questa volta ho superato ogni limite, ma mi ero bloccata e non riuscivo più a scrivere. Adesso le cose sono migliorate e buona parte del capitolo è scritta, spero di aggiornare presto.
Baci!
 
Top
Monique;
view post Posted on 27/1/2010, 15:42




Ce l'ho fatta dopo la bellezza di tre mesi!!! Scusate il ritardo apocalittico, ma avevo un milione di cose da fare. Spero che non mi abbiate abbandonata intanto! Baci

Capitolo 6

Sapevo che sarebbe stato un disastro.
Dopo lo spettacolo di Tom che vomitava anche l’anima nel corridoio del primo piano del Mabou, cercai Didi come in preda ad una delirante semicoscienza. Sia lui che Gustav accompagnarono Tom in bagno, e io aspettai fuori per circa mezz’ora, camminando su e giù per il corridoio come un leone in gabbia. Non avevo idea del perché fossi così preoccupata, né ci volevo pensare, perché la parte più sveglia del mio cervello era impegnata ad elaborare una possibile spiegazione a tutti gli eventi della serata.
Proprio quando non avevo più unghie da rosicare, lui e Gustav vennero fuori trascinandosi un pallidissimo Tom in stato semicomatoso e rantolante.
Discussero della quantità di drinks che aveva bevuto, un numero che non riuscii ad afferrare e lo trasportarono in macchina, dove lo aspettavano Bill e Georg.
Vissi tutto così velocemente che la mattina della domenica, rintanata sotto le coperte con una tazza di latte stretta in mano, avevo solo pochi ricordi confusi degli ultimi minuti della serata.
Il primo pensiero che ebbi fu rivolto a Bea. La sua serata non doveva andare in quel modo, me lo ripetevo in continuazione e mi trastullavo con il senso di colpa. Fissavo la piccola scrivania di legno chiaro di fronte al letto, piena di fogli e cianfrusaglie, e pensai che se le cose erano andate in quel modo, era solo colpa mia. La paura che Didi e Bea non fossero compatibili con quei ragazzi e i loro caratteri, in realtà era solo il riflesso di ciò che accadeva a me: io non sapevo integrarmi; io, con la mia mania di fasciarmi la testa prima di rompermela, compromettevo tutto in partenza.
Esattamente come mi aveva sempre detto mio padre, con termini meno delicati, ma con lo stesso significato.
Sospirai e chiusi gli occhi, il manico della tazza quasi vuota stretto in mano.
Poi c’era Tom.
Mi aveva sconvolta con le sue parole violente e con quel gesto rude, indesiderato, che mi ero trovata a ricambiare anche solo per qualche istante.
Perché?, era la mia domanda continua.
Ero talmente confusa che tra tutte le idee che mi vorticavano in testa faticavo a riconoscere quella di me stessa.
«Sissi?». Didi bussò piano, e socchiuse la porta tanto da poter infilare la testa bionda e sconvolta nella fessura. «Posso entrare?».
Annuii e bevvi l’ultimo sorso di latte, poggiando poi la tazza sul ripiano dello scaffale in legno accanto al letto.
Didi entrò, lasciò la porta aperta e si sedette, incrociando le lunghe gambe fasciate dal pigiama giallo sul mio piumino lilla. Il contrasto era quasi ridicolo.
«Stai bene?», mi chiese.
«Certo. Perché me lo chiedi?».
«Non è da te restare a letto così a lungo».
Aveva ragione, era mezzogiorno passato. «Sono solo fiacca», gli risposi, sbrigativa.
«Per via di ieri sera?».
Come al solito fece centro. Non mi sforzai neanche di negare; mi chiusi in un silenzio equivalente ad un sì, Didi lo sapeva.
«Dovrei essere io quello triste, l’idea è stata mia», sorrise appena, gli occhi azzurri dal taglio vagamente orientale abbassati sul piumino. Il solo guardarlo equivaleva ad una dose extra di miele sparata in vena.
«Pensavo soltanto a Bea», cercai di distrarlo, quasi commossa dal suo faccino. «Le ho rovinato la serata».
I suoi occhi guizzarono su di me, animati da una vispa scintilla di curiosità. «Tu?».
Mi ero tradita da sola, ne ero consapevole. Ma mi sentivo così spossata da non riuscire a pentirmene.
«E’ successo qualcosa tra te e Tom, non è vero?», si sporse verso di me, avvicinando il viso, la fronte solcata da una piccola ruga perplessa.
Di nuovo, non risposi.
«Ti ha fatto del male?», insistette, preoccupato.
Mi tastai discretamente il braccio coperto dalla manica del pigiama, poco sopra il gomito: dove le dita di Tom mi avevano stretta, sentivo dolore, prova inconfutabile dei lividi che erano sbocciati sulla pelle. Ma non volevo far preoccupare Didi inutilmente.
«No, non mi ha fatto male».
«Ma non ti sei ridotta così per niente», osservò.
«Sto solo reagendo in modo esagerato ad un paio di insulti, niente di nuovo».
«Che tipo di insulti?», chiese, ma proprio in quel momento udimmo il rumore della porta d’ingresso che si apriva e chiudeva, violentemente. Conoscevo solo una persona che adottava quel modo di fare, e comparve sulla soglia della mia camera dopo pochi secondi.
Bea mi guardò perplessa, i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo e le guance e il naso rossi per il freddo. «Ne hai uccisi molti?», mi chiese. La sua espressione era quella di sempre: seria e leggermente sarcastica insieme.
«No!», esclamò Didi, io alzai gli occhi al cielo.
«Sì, tu sei la prossima».
E poi avvenne ciò che, in media, accadeva una volta ogni era glaciale: non replicò, cosa già di per sé molto preoccupante, ma a rincarare la dose fu il suo sorriso, indulgente come quello che un essere supremo rivolgerebbe ad un inetto minorato mentale. «La solita acida intrattabile», mi blandì. Si tolse i guanti, il giubbotto e la borsa e li lanciò sul piccolo comò accanto alla porta, sommandoli alla montagnetta di indumenti già presente.
Ma che le era preso?
«Cos’è quell’aria così giuliva?», chiese Didi.
Bea si sedette sul letto accanto al mio amico continuando a sorridere enigmaticamente. «Nulla, è soddisfazione».
«Vuota il sacco», le ordinò con cipiglio imperioso. «Cosa hai combinato ieri sera?».
La scena era da immortalare: visti dalla mia angolazione, quei due sembravano più che mai due comari intente a spettegolare.
«Ero molto occupata a divertirmi», fu la risposta enigmatica di Bea.
«Ma se siamo corsi via dopo appena tre ore, di cui una passata a soccorrere quel relitto rantolante», feci notare, guardandola scettica.
Mi restituì uno sguardo furbo. «Non ho idea di cosa abbia fatto tu, probabilmente eri impegnata a sbavare veleno sul grande Kaulitz, ma io ero in ottima compagnia».
Mi venne in mente l’immagine di lei che si trascinava Georg in pista e spariva e realizzai che la serata era andata male solo a me. Mi sentii immensamente sollevata nell’immediato.
Didi intanto si puntellava i fianchi con le mani. «Non avrai concupito il bassista dei Tokio Hotel?».
«Non ho concupito un bel niente», si difese lei, imbronciata. «Però è simpatico».
Un campanello d’allarme trillò nella mia mente. Conoscevo Bea, e simpatico non era una parola intesa nel senso comune del termine, per lei, specie se associata ad un ragazzo. Un ragazzo simpatico a Bea era intelligente, capace di stare al passo della sua lingua affilata, di metterla a suo agio e di trovarsi a sua volta a proprio agio. Conoscendo il soggetto, era praticamente impossibile trovare un uomo così.
Non era una persona facile da capire, Bea. Era, se possibile, più chiusa di me. Con la differenza che io non facevo nulla per mascherarlo, attirandomi le antipatie e il disinteresse delle persone, e lei si prodigava, nonostante il cinismo e il sarcasmo che la caratterizzavano, per non avere problemi con la gente. Del resto, il tempo e le persone che era stata costretta a frequentare per una vita – la famiglia all’antica e maschilista, i compagni di classe e parte del resto della gente con cui aveva avuto a che fare – avevano sempre cercato di snaturarla e correggere il suo modo di fare e di porsi. Il padre aveva offerto tutte le occasioni di farsi strada al fratello maggiore e a lei era toccata la gestione di una rivista di giardinaggio praticamente sconosciuta, con la speranza che le responsabilità “le mettessero la testa a posto”.
Animata dalla voglia di ribellarsi a quel sistema, insopportabile come un vestito stretto, l’aveva trasformata in una rivista di gossip e le aveva dato un taglio giovane e fresco. Con i guadagni era andata via di casa a ventidue anni e aveva affittato un piccolo appartamento poco distante da casa nostra.
Aveva conosciuto Didi al Mabou, quando chiese al responsabile se un posto di barista fosse disponibile. Si licenziò circa tre settimane dopo aver conosciuto me e i ritmi insostenibili del bar.
Ci eravamo sempre capiti, noi tre. Ma eravamo abituati a non essere compresi dagli altri e ad essere considerati come un gruppo di persone unite da non si sapeva cosa. In realtà, stavamo bene insieme perché tutti e tre avevamo sperimentato sulla nostra pelle il senso di una vita all’insegna del senso di inadeguatezza ed eravamo riusciti, in qualche modo, a sganciarcene.
Chi più, chi meno.
Ora, vedere che qualcun altro si inseriva con naturalezza in questo equilibrio mi atterriva. Non che Georg fosse un cattivo ragazzo, ma…
«Terra chiama Elsa, rispondete, rispondete!».
Vidi che Bea mi stava sventolando una mano davanti al viso e i miei occhi si focalizzarono sulla realtà, definendone i contorni.
«Vedo del fumo, vacci piano», continuava intanto lei.
Scacciai la sua mano con poca forza. «Simpatica».
«Dov’eri?», chiese Didi.
Contemporaneamente, Bea esclamò:«oh! Ieri nel trambusto non ho avuto il tempo di chiederti nulla, ma non avevi un bell’aspetto quando ti ho vista, fuori dalla discoteca. Cos’è successo?».
«Tom mi ha vomitato davanti, tu come avresti reagito?».
«Io l’avrei lasciato lì», mi rispose con assoluta calma. Sapevo che non era vero, in ogni caso.
«E che ci facevate tutti e due nel corridoio del primo piano?», intervenne Didi.
In momenti come quelli, ero combattuta tra l’idea di amputargli la lingua e quella di farla finita una volta per tutte.
«Ero andata in bagno e… l’ho visto», tentennai nel rispondere, e sperai con tutte le mie forze che nessuno dei due lo notasse.
«Ma mi hai detto che avete litigato», mi fece notare il mio amico.
«Infatti, quello dopo».
«Dopo cosa?».
«Dopo aver vomitato».
«Anche tu hai vomitato?».
«No, lui».
«Quindi ci hai litigato dopo che ha vomitato».
«Sì. Cioè no».
Mi stavano guardando tutti e due, chi con le braccia conserte, chi con un sopracciglio talmente inarcato che poteva sparire da un momento all’altro nell’attaccatura dei capelli.
«Non la trovi tenera?», chiese Bea a Didi, mentre entrambi mi osservavano.
«Molto. Non riesce nemmeno a mentire in modo lontanamente credibile».
«Oh, finitela». Mi offesi e persi la pazienza. Ero determinata a tenere per me l’accaduto di quella serata, perché sapevo che se mi fossi fatta sfuggire qualcosa, tutto sarebbe stato travisato e avrebbero continuato a fare domande e supposizioni che non stavano né in cielo né in terra; e io ne avevo fin sopra i capelli di intromissioni dei Tokio Hotel nella mia vita privata.
«Posso anche capire che tu non voglia parlare di loro», disse Didi, più serio, «ma non capisco perché se se ne parla, vai in tilt del tutto».
«Ciò che io non capisco è perché invece vogliate parlarne a tutti i costi. Si tratta solo di un lavoro temporaneo, un trampolino di lancio».
«Sicura che sia solo lavoro?», mi chiese Bea.
«Sì». Ma nemmeno io ne ero sicura.

Con che faccia mi sarei presentata a quei quattro? Con quale coraggio avrei fatto finta che nulla fosse successo?
Potevo tentare di mettere su la migliore faccia tosta di cui disponevo, ma avevo il vago presentimento che non sarebbe mai bastata: non ero una brava attrice, purtroppo.
Quindi, nella mia macchina, con il riscaldamento rotto e le mani congelate, maledicevo chi farneticava tanto sui viaggi nel tempo e non faceva mai nulla di reale per concretizzarli.
Ero in ritardo di dieci minuti, e una parte della mia coscienza mi strillava che dovevo tirare fuori le palle ed andare a fare ciò per cui ero pagata anche abbastanza bene.
Sbuffai pesantemente e aprii lo sportello, senza però scendere dall’auto.
Ma come avrei affrontato Tom?
Se potessi vendere paranoie, saresti ricca, lo sai?, disse quell’insopportabile vocina nella mia testa.
La ignorai e la relegai in qualche anfratto nella mia testa.
Forse avrei potuto chiamare e avvisare che ero ammalata…
«Ehi!», qualcuno aprì di scatto il mio sportello ed infilò la testa dentro, facendomi sobbalzare pesantemente.
«Accidenti, Georg, ma è una dote la tua?!», sbottai portandomi una mano sul petto per lo spavento. Uscii dall’auto e mi appoggiai alla carrozzeria, con lui accanto. Strano a dirsi, ma di nuovo la sua presenza non suscitava in me il minimo turbamento.
Georg infilò le mani nella tasca del suo cappotto, dopo averci soffiato dentro. «Si può sapere cos’hai tanto da pensare?».
«Niente, davvero», un altro argomento, mi serviva un altro argomento, subito. «Tom come sta?».
Perfetto. Avevo scelto esattamente l’argomento che più volevo evitare.
«Oh, meglio. La notte di sabato ha vomitato e rantolato per un’altra oretta, poi è crollato, e ieri mattina quando ho telefonato a Bill per chiedere di lui, ha detto che non si ricorda nulla di sabato sera».
Rimasi per un attimo interdetta. Davvero il cielo mi aveva fatto un regalo così grande? E quanto mi sarebbe costato?
«E come mai tu non hai dormito allo studio?», tergiversai di colpo.
«Non dormiamo sempre qui», spiegò, «capita, ma il più delle volte ci obblighiamo ad essere puntuali». Mi lanciò un’occhiata obliqua. «E tu oggi sei in ritardo».
Inutile sperare che Georg non notasse cose del genere. Del resto, era abbastanza evidente.
«Ogni tanto mi succede. Andiamo dentro ora? Fa freddo», mi strofinai le braccia con le mani ridotte a due ghiaccioli e contemporaneamente sbadigliai. Mi sentivo stanca, e probabilmente quel senso di spossatezza derivava da tutta la tensione psicologica che stavo subendo in quei giorni.
Mio padre mi avrebbe dato della pappamolle, se mi avesse vista; forse avrebbe usato un termine più aulico.
«Oggi non voglio fare niente», stava dicendo Georg intanto, mentre camminavamo sul pietrisco a passo lento, come se stessimo passeggiando.
«Non prendere l’andazzo di Tom, per pietà», supplicai.
Lo sentii ridacchiare sotto i baffi. «No, ma ho come l’impressione che nemmeno tu sia in forma».
«E’ un effetto collaterale della presenza prolungata di Didi e Bea», spiegai, mentre lui apriva con le chiavi, «dovresti provare».
«Gentile, ma ho già le mie grane a cui pensare. Voi quando vi siete conosciuti?».
Appendemmo i nostri soprabiti all’attaccapanni.
«Io e Didi ci conosciamo dai tempi del liceo. E lui ha conosciuto Bea al Mabou, quattro anni fa».
Lo scrutai attentamente mentre parlavamo, cercando di cogliere qualche indizio su ciò che lui e la ragazza in questione avevano fatto sabato sera, ma non individuai nulla di rilevante, a parte un sorriso appena accennato.
Ti stai comportando come quella pettegola di Didi, mi avvisò la parte posata e razionale di me, smettila subito.
Georg si accorse di essere osservato e mi restituì un verde sguardo perplesso. «Cosa c’è?».
«Niente, niente», mi affrettai a rispondere scuotendo la testa. «Voi, invece, vi siete conosciuti nella stessa gabbietta dello zoo?».
«Non per niente ci chiamano animali da palcoscenico», mi rispose argutamente, ammiccando.
Risi di nuovo.
«Oh», il suo sguardo veleggiò sul salotto vuoto dello studio. «Credo che non siamo gli unici ad avere poca voglia di lavorare, oggi».
Mi misi le mani sui fianchi e scrutai anche io l’ambiente, che senza le solite quattro, rumorose presenze, appariva tristemente anonimo. Inutile dirlo, nonostante tutti i miei preconcetti e le mie raccomandazioni, mi stavo scoprendo affezionata a quei ragazzi.
«Nemmeno Gustav è venuto, chi l’avrebbe mai detto», dissi.
«Non parlare troppo presto, donna di poca fede».
Sia io che Georg ci voltammo nell’udire la voce di Gustav alle nostre spalle. Lo vedemmo strisciare i piedi sullo zerbino e togliersi il cappotto.
«Bene, ora mancano solo i gemelli», sussurrai, concedendomi di sedere sul divano. Mi sentivo strana, come se mi mancasse qualcosa.
«Benjamin non viene?», s’informò Gustav.
«No, oggi no», risposi.
Benjamin Ebel era uno dei produttori più vicini alla band, insieme a David. Spesso lavorava con noi, ci aiutava nella composizione dei brani, ma altrettanto spesso si assentava insieme al manager per assicurarsi che la popolarità della band, nonostante l’assenza, non calasse oltre il livello critico. Così, io che dovevo essere il tecnico del suono, mi ero trovata a svolgere anche la parte di produttore.
Solo dopo un quarto d’ora di chiacchiere, i Kaulitz ci onorarono della loro presenza. Entrambi entrarono, ed avevano un muso così lungo che avrebbero potuto inciamparci dentro. Bill guardava costantemente in basso¬, con l’espressione di un bambino scontento: lanciò il suo soprabito e la sua sciarpa sul bracciolo del divano, a poca distanza da dov’ero seduta io e non mi degnò di uno sguardo.
Tom era pallido e aveva due occhiaie spaventose, e sembrava, più che imbronciato, davvero incazzato.
Probabilmente erano ancora arrabbiati l’uno con l’altro. Prenderne atto mi fece sentire terribilmente in colpa, ma proprio non riuscivo a capire come io potessi essere la causa di un litigio tra i due fratelli più uniti e affiatati che avessi mai visto.
E poi, nessuno dei due mi guardava. Bill non mi aveva sorriso. Tom non mi aveva salutata nel suo solito modo tagliente.
Ma era quello che volevo, no? Poca considerazione e più fatti. Ma lo stesso mi sentivo così… triste.
«Viva il buonumore», commentò la voce sarcastica di Georg.
Tom si limitò a grugnire qualcosa e sparì oltre la porta della cucina.
Mi sporsi sul bracciolo e cercai lo sguardo di Bill, che stava trafficando con il suo soprabito lungo. «Ciao», lo salutai, alzando la voce.
Mi rivolse un’occhiata stentata e un saluto appena accennato.
Mhm. Bene, probabilmente non ce l’aveva solo con il fratello, ma anche con me.
«Che succede, ragazzi?», chiese Gustav dal divano bianco, di fronte a me.
«Niente», mugugnò Bill.
Analizzai la situazione. Bill e Tom, a quanto pareva, erano intrattabili, quindi in quel momento essere autoritaria avrebbe solo generato altre liti. Georg cercava di mascherarlo, ma era visibilmente distratto. Gustav… beh, Gustav non faceva testo: era sempre tranquillo e razionale, anche nei momenti più critici. Era una qualità che gli invidiavo.
Georg prese posto accanto a Bill, che sembrava essere intenzionato a sfoggiare tutte le sue considerevoli doti da regina del dramma. Fissava il tavolino al centro dei divani con un’intensità tale da poterlo penetrare, le braccia conserte e il cappellino ancora calato sugli occhi.
«Non sembra “niente” quella faccia da funerale. Ti è finita la lacca, per caso?», domandò Georg.
«Dovrei ridere?», ribatté con tutta l’acrimonia di cui era capace, fulminandolo con lo sguardo.
Proprio in quel momento Tom riapparve con una bottiglia d’aranciata mezza vuota in mano. Bevve un altro sorso, poi si pulì la bocca con il dorso della mano. «State tranquilli, il suo problema è solo l’orgoglio ferito e ne fa una tragedia greca». E gli scoccò un’occhiata che avrei potuto definire solo meschina.
Bill batté un pugno sulla pelle bianca del divano e replicò, improvvisamente animato: «Il tuo invece qual è? Difficoltà ad accettare i rifiuti?».
«Ehi, Bill, che ne dici di andare a farti fottere?».
«Dico che lo fai abbastanza tu per tutti e due».
Scattai in piedi. «Io invece dico che mi sono stancata. Piantatela, tutti e due».
Quel concentrato di feromoni e vanagloria conosciuto anche come Tom Kaulitz mi guardò per la prima volta da quando era entrato, e il suo sguardo non era ostile, ma nemmeno benevolo. Non seppi spiegarmelo.
Sapevo che gli costava enormemente prendere ordini da me, ma anche quella volta obbedì e si appoggiò al muro accanto alla porta, tracannando aranciata.
Non mi andava di lavorare in quel clima così negativo, non avremmo concluso nulla.
Gustav, Georg e anche Tom mi stavano guardando, aspettando che dicessi qualcosa: senza accorgermene, avevo preso a rappresentare il ruolo del leader, la figura di riferimento, e mai come quella volta ne sentii addosso tutta la responsabilità.
La mia mente elaborò in fretta una soluzione e sperai con tutte le mie forze che fosse quella giusta.
«D’accordo, oggi tutti abbiamo la luna storta».
«Ma non mi dire…», intervenne Bill sottovoce.
Gli lanciai un’occhiata in tralice. «Quindi, ci diamo una calmata e… e poi usciamo».
L’avevo sganciata.
Controllai gli sguardi dei presenti: tutti erano scettici, e Bill mi guardava come se avessi detto la più grossa baggianata.
«Uscire?», chiese educatamente Gustav.
Annuii per sembrare convinta. «Sì. E’ chiaro che non si può lavorare, o rischierete di azzannarvi a vicenda, ergo, oggi, relax». Inoltre, realizzai che la sensazione di fastidiosa mancanza era derivata dall’aver dimenticato il computer portatile, più tutti i materiali, in macchina. Era un chiaro segnale: ero proprio sfasata, nemmeno io avrei concluso nulla, anche sforzandomi al massimo.
Si scambiarono delle occhiate, soppesando la proposta anche senza l’uso delle parole. Mi ricordarono me, Bea e Didi in qualche modo, e il nostro modo di comunicare che a volte escludeva l’uso della parola.
«Per me va bene», concesse Georg, alla fine, dopo aver scambiato un’occhiata con Gustav.
«Anche per me».
Si sentì il forte rumore di uno schianto e voltai la testa verso Tom, che aveva gettato con forza la bottiglia vuota nel cestino dei rifiuti.
«Stai dimenticando il piccolo particolare della nostra popolarità. Se qualcuno ci becca e ci fotografa finiamo sulle copertine e sui siti internet di tutto il mondo in meno di mezzora».
«E se qualcun altro ci pedina non solo avrai problemi tu, ma scoveranno noi e saremo costretti a cambiare di nuovo studio di registrazione», aggiunse Bill.
Avevano ragione su tutto. Li stavo conoscendo meglio, non come celebrità, ma come persone ordinarie, e questo implicava inevitabilmente il trattarli come tali. Ma non lo erano.
«Sabato non vi ponevate tutti questi problemi», feci notare comunque. «Vi siete camuffati e nessuno vi ha riconosciuto tra la folla. Perché dovrebbe essere diverso ora, che è lunedì mattina e non c’è nessuno?».
«Andiamo, ragazzi», mi spalleggiò Gustav, alzandosi. «Non concluderemmo nulla comunque, perché non provare?».
I gemelli annuirono controvoglia, irradiando cattivo umore da ogni poro e tutti ci preparammo ad uscire. Quando fummo fuori, Tom era già pronto ad aprire la sua macchina.
Gli abbassai il telecomando con una mano ed ignorai il brivido che mi attraversò la schiena quando lo toccai. «Portare a passeggio una Cadillac non è il modo migliore di passare inosservati», feci notare con tutta la calma di cui disponevo.
Ripose l’aggeggio in tasca. «Quindi cosa proponi?».
«L’unica macchina normale, fra tutte, è la mia».
«E ci entriamo in quella scatoletta di latta?».
Calma, calma. Era nervoso e dovevo cercare di sorvolare, ribattere sarebbe stato controproducente.
«Se ci stringiamo».
Georg, Bill e Tom occuparono i sedili posteriori, Gustav si accomodò sul sedile del passeggero.
Lo sentii dire qualcosa che non capii, perché Bill piagnucolò: «accendi il riscaldamento! Fa freddo!».
E come glielo spiegavo che il riscaldamento era rotto?
Decisi semplicemente di ignorarlo e feci retromarcia, uscendo dalla recinzione che limitava gli spazi dello studio.
«Sai almeno dove andiamo?», berciò Tom.
«Vorrei farvi notare che siamo cinque, qui dentro. Potreste anche proporre».
Accidenti, mi sembrava di avere a che fare con dei bambini incapaci perfino di nutrirsi da soli.
«Io voglio andare a casa», s’imbronciò Bill con decisione.
Ignorare era la chiave, ignorare.
«E che faresti se andassi a casa?», chiese Georg, seccato.
«Mi butterei sul letto con le cuffie nelle orecchie e sparirei per qualche ora».
«Cioè come una dodicenne con problemi di cuore…», sentii borbottare da Tom.
«Vaffanculo!».
Stavo per sbottare. Ancora un’altra parola o replica e li avrei sbattuti fuori dalla mia macchina a calci.
«Ignorali», mi suggerì Gustav, quando mi lesse l’esasperazione in viso, «quando litigano è meglio lasciarli perdere, se non vuoi rimetterci qualche estremità vitale».
Sospirai. «Ti ho mai detto che invidio a morte la tua calma?».
«No, solitamente preferisci affibbiarci soprannomi orribili e denigrare ogni nostra buona azione».
Ridacchiai e in quello stesso momento sottili scaglie bianche cominciarono a posarsi sul parabrezza, sciogliendosi nello spazio di pochi secondi.
«Fantastico, ricomincia a nevicare», sbuffai. Fortuna che a causa delle bufere precedenti il mio meccanico aveva montato pneumatici da neve.
«Che bello, la neve!».
Lanciai a Bill un’occhiata divertita dallo specchietto retrovisore: guardava fuori dal finestrino con gli occhi spalancati e un sorriso che mi ricordava uno squarcio di cielo tra le nuvole. Sembrava non avesse mai visto neve in vita sua, e invece nei giorni precedenti ne era caduta così tanta che ai bordi delle strade c’erano cumuli di soffice ghiaccio alti almeno dieci centimetri.
Tutti ebbero la stessa reazione, sorpresa ed indulgente allo stesso tempo, a parte Tom, che, immaginavo, conosceva perfettamente i cambi improvvisi di umore del fratello. In quel momento, però, immaginai che fosse troppo incazzato con il mondo per curarsi di cosa accadeva intorno a lui.
Le strade erano scivolose, quindi impiegammo tre quarti d’ora a raggiungere Amburgo. Ci fu silenzio per la maggior parte del tragitto, un silenzio imbarazzato e teso, interrotto sporadicamente da qualche commento di Georg, o dalle esclamazioni di Bill.
Da qualche tempo avevo cominciato a sentirmi a casa tra loro. Riuscivo a distaccare i preconcetti e le preoccupazioni da me, a sbatterle fuori da quello studio di registrazione e godermi la loro compagnia. Invece, quella volta, nemmeno la forte complicità che li connetteva riuscì a mutare l’atmosfera negativa e io mi sentivo spiazzata come un pesce fuor d’acqua. Sperai di non trasmettere anche a loro il mio disagio.
Sistemai l’auto in un parcheggio protetto dai rami spogli di tre pareti d’alberi e soffiai nelle mani per scaldarle un po’. Avevo vagato per la città cercando un posto che potesse essere abbastanza nascosto ma non troppo, per non avere la sensazione di soffocare e avevo trovato ciò che cercavo nella Hohe Bleichen. Era la strada di un quartiere piuttosto periferico, costeggiata da alberi e palazzi alti e grigi.
Era molto vicino a casa mia: riflettendoci qualche minuto, era quasi ovvio che sarei andata lì. Era solo un parcheggio, ma ci tornavo ogni volta in cui volevo stare da sola a riflettere.
«Dove ci hai portati?», chiese Gustav.
«Dove non c’è il pericolo di essere assaliti dai vostri plotoni di seguaci». Assatanate, ma questo non lo dissi.
«E ora che facciamo?».
Non ne avevo la minima idea, ma era più che evidente che tutti si aspettavano una risposta da me.
«Adesso scendiamo», dissi con finta naturalezza, e aprii lo sportello.
«Ti è saltata la rotella, per caso?», berciò Tom. «Se qualcuno ci vede non dormiamo per un mese».
Alzai gli occhi al cielo e rantolai, esasperata. «Caro il mio principino, non vi sto dicendo di salire su un piedistallo e urlare la vostra presenza con un megafono, ma solo di scendere ed essere discreti».
«Ma chi sa chi siamo ci riconosce anche dalla punta dei nasi!».
«In questo caso non correte pericolo, dato che tutte le vostre regali appendici nasali sono coperte dalle sciarpe».
«Vipera velenosa…», borbottò. La sua voce mi ricordò il brontolare di una pentola di fagioli.
Mi guardai intorno cercando aiuto negli altri tre, per niente toccata – o almeno, così sperai – dal suo amorevole insulto. Bill meditava con una mano a tormentare le labbra, ma probabilmente stava pensando agli effetti del freddo sulla sua pelle delicata e a quale crema usare per lenirli.
Fu Georg a venirmi in aiuto prima che i miei occhi veleggiassero sugli altri due. «Ma sì, non muore nessuno se corriamo un piccolo rischio. E poi non c’è nessuno».
Scoccai a Tom un’occhiata vincente e scesi dall’auto, seguita dagli altri tre. Percorsi la breve distanza che separava me dal marciapiede e dall’altro lato della strada avvistai il bar in cui spesso andavo. Prima che potessi proporre una delle magiche cioccolate del barista plurisecolare che dirigeva quel bar, qualcosa di freddo e duro mi colpì la schiena, sbriciolandosi poi ai miei piedi.
Mi voltai lentamente, vagamente scandalizzata e vidi che Bill cercava in tutti i modi di trattenersi dal ridere, Georg rideva piegato in avanti, Gustav sogghignava, appoggiato alla mia macchina e Tom traboccava compiacimento.
«Chi è stato?», chiesi, lentamente, lasciando trapelare la minaccia dal tono della mia voce.
Tutti e quattro indicarono qualcun altro.
«Non giocate a scaricabarile!», raccolsi un po’ di neve dal tettuccio di un’auto vicina e la scagliai contro Bill. Il piccolo mucchio esplose proprio contro il suo braccio.
Ovviamente, la Diva arruffò le penne come se gli avessi fatto un torto imperdonabile. «La mia giacca!», esclamò, la voce stridula.
Mi divertii ancora di più e gli scagliai un’altra palla di neve. Lui si vendicò lanciandomene un’altra che colpì la mia spalla sinistra. Anche Gustav e Georg cominciarono a lanciarsi la neve addosso, e in pochi secondi quello che era stato uno scherzo si trasformò in una vera e propria battaglia, che aveva le nostre risate come sottofondo.
Georg scivolò e atterrò sul sedere, e Gustav ne approfittò per infilargli della neve nel colletto del giubbotto. Bill vendicò il suo amico schiacciandogli una palla di neve tra i capelli e io gli colpii una gamba, per tutta risposta.
Continuammo a divertirci con quel gioco da bambini, ridendo a più non posso e facendoci dispetti stupidi, finché non mi accorsi che Tom non partecipava. Se ne stava appoggiato al muso di una macchina bagnata d’acqua ghiacciata, con una sigaretta tra le labbra e lo sguardo assente. Sembrava non curarsi del freddo pungente che gli arrossava le mani e del bagnato che penetrava i suoi vestiti.
Lo fissai mordendomi le labbra per qualche secondo, poi raccolsi una piccola manciata di neve da terra e la lanciai nella sua direzione. Il grumo biancastro gli colpì preciso la mano con cui reggeva la sigaretta, che cadde a terra e si spense nel ghiaccio.
Mi restituì un’occhiata profondamente irritata. «Mi hai fatto male», sibilò nella mia direzione.
Il fracasso delle risate degli altri era talmente forte che mi costrinse ad avvicinarmi a lui.
«Era solo un po’ di neve», mi giustificai. «Stiamo giocando».
«Beh, con i tuoi giochetti stupidi mi hai quasi distrutto una mano».
Santo cielo, ma chi era la principessa tra lui e il fratello?
Lo fissai contrariata e anche segretamente po’ delusa. «D’accordo, scusami. Volevo solo giocare».
Mi guardò con la stessa intensità con cui mi fissava la sera del sabato, quando mi aveva immobilizzata sul balcone. Feroce e rabbioso. Pieno di rancore.
«Allora dovresti smettere di giocare con le persone, con me prima di tutto».
Afferrai più di un significato in quella frase pregna di risentimento. «Cosa vorresti dire, scusami?».
Lo vidi contrarre i muscoli della mascella e ciò che succedeva intorno a noi – potevo percepire solo con una minima parte del mio cervello la battaglia di palle di neve che continuava – non importava più. Le macchine scivolavano lente sulla strada ghiacciata, i ragazzi ridevano, ignari della brevissima conversazione che stavamo avendo io e lui.
Dischiuse le labbra per dire qualcosa, guardando rigido altrove, come se parlare gli costasse.
«Accidenti, fa male!», Bill indietreggiò fino a frapporsi tra noi, riparandosi il viso con le braccia, le maniche sporche di neve.
Sia io che Tom distogliemmo lo sguardo nello stesso momento.
«Georg, hai tirato troppo forte!», continuò contrariato.
«No, sei tu che hai gli stuzzicadenti al posto delle braccia!», protestò Georg.
«Guarda che la neve fa sempre male, se la lanci troppo forte!».
Mi sforzai di unirmi alla risata di Gustav con scarso successo, mentre Bill mi scrutava cercando di essere discreto. Gli rivolsi un’occhiata interrogativa, a cui rispose scrollando le spalle.
Scossi la testa, come per sgombrarla da ogni pensiero.
«Gente, non per guastare la festa, ma le mie mani si stanno congelando», disse Georg.
«Così impari ad uscire senza guanti», lo redarguì Gustav.
Bill si sfilò uno dei suoi e si fissò la mano arrossata. «A me si stanno spaccando le mani anche nei guanti».
Mi coprii meglio le orecchie con la sciarpa e mi feci sfuggire un sorriso alla sua espressione da cucciolo bastonato. «Che ne dite di una cioccolata calda?», proposi, lanciando un’occhiata al bar dall’altra parte della strada.
«A me non fa schifo l’idea…», approvò Gustav, subito supportato dagli altri tre.
«Benissimo, quelle di quel bar sono insuperabili!». Approdai al marciapiede e mi voltai ad aspettarli. Tutti e quattro si scambiavano delle occhiate che non capii e mi seguirono.
Erano buffi da vedere da quell’angolazione: sembravano un piccolo gregge di pecore fedeli. Il pensiero mi fece ridacchiare sotto i baffi.
«Ora ride da sola», fece notare Tom, imbronciato. «Sei proprio allo stadio terminale».
«Meno male che ci sei tu con il tuo lume, a tirare avanti questa carovana».
«Che cazzo c’entra adesso il lume?», chiese lui, mentre attraversavamo.
«E cos’è una carovana?», aggiunse Bill.
Sia io che Gustav e Georg scoppiammo in una risata, mentre aprivo la porta che si spalancava su uno dei bar più belli che avessi mai visto.
Le pareti e il soffitto erano rivestiti di legno, ed avevano un che di compatto che faceva sembrare l’ambiente molto raccolto e accogliente. Delle maschere tribali erano appese sulla parete dietro la cassa, esattamente di fronte a noi, e alla nostra destra si allungava un bancone in legno scuro, preceduto da una fila di sgabelli. Sulla sinistra, c’era un piccolo ambiente semibuio, riempito da sedie e tavolini. Era vuoto a quell’ora, quindi i quattro dell’Apocalisse dietro di me non dovevano preoccuparsi più di tanto dell’anonimato.
«Finalmente, caldo», sentii la voce di Bill.
Mi srotolai la sciarpa dal collo e allargai la cerniera del giubbotto.
«C’è qualche anima in questo posto?», chiese Tom con il solito tono sprezzante, come se guardasse tutto dall’alto.
«Andate a sedervi», dissi, «qui faccio io».
Tutti si diressero verso un tavolino, ma mi premeva fare una cosa. «Bill, aiutami a portare i due vassoi, per favore».
Lo vidi titubare qualche secondo, lo sguardo basso, poi mi si avvicinò, con gli occhi puntati su un qualcosa davanti a lui. Mi stava evitando, era chiaro. Sentii qualcosa pungermi dentro, una piccola spina incastrata nel cuore.
Stavo per parlare, ma il proprietario, un uomo alto e panciuto vestito sui toni del nero e del rosso, sbucò dalla porta d’ingresso, pulendosi le mani sul grembiule.
«Scusate se vi ho fatto aspettare. Oh, buongiorno Elsa». Mi sorrise sotto i baffi curati. Con la coda dell’occhio, vidi Bill voltare lo sguardo per non permettergli di vederlo attentamente in faccia, sicuramente un riflesso involontario di tanti anni passati cercando di non farsi riconoscere nei momenti in cui era in borghese.
«Ciao, Alfons», lo salutai. «Allora, quattro cioccolate con panna e… fragole, e una solo con panna», dissi.
«Certamente», annuì e si mise all’opera.
Mi voltai, appoggiandomi con la schiena al bancone per poter guardare attentamente Bill. Sembrò messo a disagio dal mio sguardo e infilò le mani nelle tasche della sua giacca.
«Ehm… come mai sembri sempre conoscere tutti?».
Lanciai un’occhiata ad Alfons che armeggiava dietro di me. «C’è stato un periodo in cui insegnavo a suonare il piano ad una ragazza che abita qui vicino. Dopo ogni lezione venivo qui, così sono diventata cliente di fiducia».
Annuì ma non disse altro, seguitando imperterrito a mantenere il suo adorabile musetto offeso.
Mi feci coraggio. «Posso azzardare a chiedere cosa ti ha preso stamattina?», domandai con tono casuale. «Tom è sempre il solito musone, niente di nuovo, ma tu sembri aver perso l’argento vivo».
Alzò le spalle. «Ho altre cose per la testa».
Mi morsi le labbra, torturata dalla voglia di chiedergli cosa lo preoccupasse tanto. Solitamente mi facevo gli affari miei, se una persona non aveva voglia di parlare, nemmeno mi azzardavo ad insistere. Odiavo quando qualcuno – cioè Didi e Bea, sempre – tartassava me, quindi non ripagavo mai con la stessa moneta.
Ma… ero maledettamente curiosa. «E cioè?».
Ecco. Non ce l’avevo proprio fatta a cucirmi la bocca.
«Ho litigato con mio fratello», rispose con disarmante sincerità. Forse questo apprezzavo di più in lui: la spontaneità, almeno entro i suoi ristretti confini. Sapere che avevo attraversato quei limiti mi faceva molto piacere… ma Bill non disse più nulla. Non aveva cominciato a parlare a raffica, quindi c’era qualcos’altro che si teneva dentro.
Inoltre, anche se non facevo che ripetermi di non essere presuntuosa, continuavo a credere di essere io la causa. Gustav me l’aveva detto, ma avevo davvero un potere così grande?
«Come mai?», chiesi.
Scosse la testa e mi guardò profondamente risentito. «Perché dovrei dirtelo? Ti riguarda?».
Non mi aspettavo una reazione così violenta, specie da lui. Aveva ragione.
Boccheggiai come un’idiota per qualche secondo. «No, ma…».
«Tu non ti rendi conto che così peggiori solo le cose. Quindi non fare finta di essere preoccupata per me, perché non me la bevo».
Ero allibita. E incredula. Era davvero Bill quello che mi stava parlando?
«Ma che stai dicendo? E’ ovvio che sono preoccupata per te». Cercai di tenere la voce bassa per non dare spettacolo davanti agli altri tre e al proprietario del bar, che continuava come se non stesse ascoltando la conversazione.
«Non ti credo». Bill fu risoluto, sicuro e lapidario. Mi ferì in un modo che mi ricordava tanto qualcun altro.
«Sembri un clone di tuo fratello adesso. Ti ha fatto il lavaggio del cervello?», chiesi.
Per tutta risposta, incrociò le braccia e mi restituì un’occhiata rabbiosa. «Credo che sarebbe più sincero di te in ogni caso».
Perché non riuscivo più a capirlo? Cos’avevo fatto di tanto atroce da far arrabbiare perfino lui?
In quel momento i due vassoi con le cinque cioccolate furono poggiati sul legno del bancone. Continuai a guardarlo, chiedendogli spiegazioni con lo sguardo, ma non durò a lungo la nostra conversazione univoca.
Afferrò uno dei vassoi e si diresse verso il nostro tavolo senza dire più nulla. Io presi tra le mani il mio stupido vassoio di plastica rossa e lo seguii ripetendomi solo una domanda: cosa stava succedendo?
 
Top
Monique;
view post Posted on 7/4/2010, 15:51




Ormai posto più per dovere morale che per altro XD. Un saluto a tutte quelle che passeranno di qui.

Capitolo 7, parte prima.

«Oh, Elsa! Ma guardati, sembri depressa!».
Bea poteva scalpitare quanto voleva, io ero depressa.
O forse no.
No, ero più preoccupata che depressa.
«Non è vero», mugugnai sovrappensiero, masticando un qualcosa dalla consistenza gommosa presa da un sacchetto aperto. Dovevano essere liquirizie salate. «Ma la situazione mi sta sfuggendo di mano».
Ero a casa di Bea, precisamente sul tavolo della sua cucina, dopo l’ennesima, estenuante giornata allo studio di registrazione. Da qualche giorno avevo l’impressione che le ore con i ragazzi si fossero dilatate.
La vidi risbucare dalla porta del corridoio mentre si legava i capelli in una coda disordinata, vestita di una maglia di flanella rosa e un paio di pantaloncini di cotone, perfettamente in linea con il suo paradossale stile d’abbigliamento.
«Mi spieghi perché, con tutte le sedie che ci sono, tu debba appollaiarti proprio sul mio tavolo?», mi chiese, marciando spedita verso il frigorifero.
Infilai in bocca un'altra liquirizia. «Solo quando tu mi spiegherai perché ti vesti come se fosse contemporaneamente inverno ed estate».
Chiuse il frigo con aria scocciata. «Allora spiegami un’altra cosa».
«Prego», dissi, masticando.
Si appoggiò al frigorifero, braccia incrociate ed espressione furba. «Come mai, se si tratta solo di lavoro, ti fai buttare giù così tanto?». Mi sfarfallò in faccia le lunghe ciglia bionde.
Ingoiai e deviai il suo sguardo. «Si tratta di lavoro, infatti. Non riesco a lavorare in un’atmosfera così negativa».
Annuì con aria pensosa e spense il televisore, poi si accomodò sul tavolo accanto a me, i piedi poggiati su una sedia. «Dopo l’episodio del bar, è successo qualcos’altro?», mi chiese.
«Sì», risposi. «È una settimana che Bill mi evita. Prima, bene o male, riuscivamo a parlare, adesso non si lascia più avvicinare. È sfuggente, scivoloso, e oggi era perfino reticente a farmi leggere un testo. Alla fine si è rifiutato. E non era mai successo, in…», feci velocemente il conto a mente, «un mese, praticamente». Sospirai, quasi schiacciata dal peso di quella situazione. Non riuscivo a crederci, ma mi faceva davvero, davvero male. «Non so cosa fare, di questo passo non riusciremo più a produrre un bel niente».
Bea mi sorrise, pescando una liquirizia salata dal pacchetto. «Bill sarebbe la diva dall’arruffamento facile?», mi chiese.
Sorrisi anche io al suo appellativo, mestamente. «Proprio lui».
«Mhm. E del fratello che mi dici?».
Oh, altra bella pelliccia. «È sempre più stronzo».
Ridacchiò. «Tutto qui?».
«Beh, forse no», dissi, pensandoci un attimo. «È successo qualcosa tra quei due, hanno litigato… poi non lo so, è tutto un casino…». Mi presi il viso tra le mani, mugolando lamentele in una lingua che non capivo nemmeno io.
Li odiavo, li odiavo per quanto mi stavano incasinando la vita. Quei due gemelli erano più complicati di un maledetto rebus!
«In poche parole, non sai cosa fare».
«Hai centrato il punto», biascicai, ancora seppellita nelle mie mani.
Bea me le strappò via dalla faccia, tirandomi dai polsi, e vidi il suo viso, la sua espressione compassionevole. Mi osservava come una madre che guarda la propria figlia alle prese con problemi di cuore. M’irritai a morte a quel pensiero, orgogliosa com’ero, ma avevo bisogno di un consiglio. Strano, ma proprio io, che mi ostinavo a fare tutto da sola, ero stata mandata in crisi da un paio di poppanti.
Mi concentrai sulle sfumature verdi dell’ombretto di Bea, per scacciare quei pensieri. Aveva messo anche la matita blu, per far risaltare il colore cristallino degli occhi grandi e azzurri. Le stava benissimo.
«Sei truccata malissimo», mugolai, ben conscia del fatto che rivolgermi in quel modo ai miei due amici più cari era il mio modo di fare i complimenti.
«Grazie. Ci serve un piano».
La fissai aggrottata, portandomi i capelli all’indietro con una mano che avevo liberato dalla presa di Bea. «Un piano?».
«Sì. Anzi, no».
«Deciditi…».
Balzò giù dal tavolo e si diresse alla dispensa della cucina, stramba quanto lei. Era rossa e bianca, una di quelle cucine ultramoderne che occupavano meno di un minuscolo spazio vitale, ma poco funzionali e difficili da pulire. Lei riusciva sempre a tenerla in ordine, comunque, e non avevo mai capito come facesse. Aprì uno sportello e ritirò il braccio impugnando una bottiglia di vodka dal collo, poi saltellò fino alla credenza. La aprì con due dita, ne tirò fuori due bicchierini rosa e posò con decisione sul tavolo il tutto.
«Stanotte dormi qui», decise, con un tono che non ammetteva repliche. La guardai sorridendo, mentre afferrava un telecomando grigio abbandonato sul divano. Tese il braccio verso l’impianto stereo incastrato nel mobile sotto la televisione, un sorriso che le circumnavigava la faccia. «Adesso, noi affrontiamo questa situazione per il verso giusto e risolleviamo il tuo morale».
Premette un pulsante e le note dell’intro di Apocalypse please dei Muse riempirono la cucina, prima a volume basso, poi sempre più alto, fino a bombardare le orecchie nostre e, con molta probabilità, anche dei vicini. Non importava che fossero le otto di sera.
«Sono d’accordo». Afferrai il collo della bottiglia e svitai il tappo, versando del liquido denso e trasparente nei due bicchierini. Gliene porsi uno e presi il mio.
Bea salì su una sedia e si mise una mano sul cuore, levando l’altro bicchiere in aria. «Elsa Gabriella Fränze…».
«Aspetta!», la interruppi. Mi tolsi le scarpe e mi misi in piedi sul tavolo, mentre lei mi guardava contrariata per aver interrotto il suo rituale. «Prima di dire qualche stupidaggine, accertiamoci di essere ubriache, così avremo una scusante se qualcuno ci sente o ci vede».
Mi guardò come se avessi avuto un’idea geniale. «Giusto! Allora, alla salute!», levò di più il bicchiere in alto.
«Per ora», precisai, ed entrambe bevemmo tutto d’un fiato.
L’alcool mi bruciò la gola, scese con difficoltà lungo l’esofago, togliendomi il fiato per un secondo. Mi diede dritto alla testa. «Cazzo, se è forte!», esclamai.
Bea aveva fatto lo stesso, e si teneva una mano sulla gola, tossendo leggermente. Si riprese quasi subito, scuotendo la testa.
«È una meraviglia. Ancora», e mi porse il bicchiere.
Un’ora e mezza dopo la bottiglia di vodka era quasi vuota, e noi avevamo abbondantemente superato la soglia della lucidità. Bea rideva come una forsennata, seduta per terra, usando il divano come schienale, io ero accanto a lei che la seguivo a ruota.
Tutto mi appariva ridicolo, la vista mi si appannava immediatamente anche se provavo a mettere a fuoco le cose più vicine. L’argomento di quel delirio etilico era virato sul deprimente, eravamo finite a parlare delle nostre vicende sentimentali andate male.
«Oddio, in quinta c’era stato quel coglione, quel Frederick…», Bea dovette interrompersi, scossa da un violento attacco di risa che la portò a piegarsi di lato, fino a toccare il pavimento. «Oddio, stavamo studiando insieme a casa sua, mi stava chiedendo di uscire…», si fece aria con le mani, il viso paonazzo, «e poi mi ha starnutito addosso!».
Ridemmo entrambe, a volume altissimo, tanto da soverchiare perfino Crying shame, la canzone che stavamo ascoltando.
«Ma che minchione!», risi così tanto forte che mi mancò l’aria, e dei puntini bianchi apparvero ad intermittenza nel mio campo visivo. «Mai come quel coglione di Tom, che prima mi bacia e poi vomita!», aggiunsi. Ubriaca marcia com’ero, ripensare a quella situazione mi faceva ridere tanto da sentire i crampi alla pancia.
Bea urlò, esultando, e alzò un pugno in aria, la maglia inzuppata della vodka con cui entrambe ci eravamo spruzzate, neanche fossimo state in estate. «Lo sapevo! Lo sapevo che vi eravate baciati!».
Ridemmo di nuovo, piegandoci in due. La mia guancia si poggiò su qualcosa di freddo e bagnato di un liquido appiccicoso, che scoprii essere il pavimento dopo qualche secondo di ragionamento.
«Oh!», esclamò Bea dopo un po’.
Mi spostai i capelli unti dal viso e la guardai, riuscendo finalmente a respirare. «Cosa?».
«Non abbiamo pensato alla tua soluzione!».
«Cazzo, è vero!».
«Ora ce ne occupiamo». Salì su una sedia, scalza, e riuscì a mettersi in equilibrio grazie ad un miracolo.
Il pensiero che potesse cadere e rompersi qualche osso mi fece ridere tanto da farmi salire le lacrime agli occhi, e la sua risata mi seguì, probabilmente perché ci stava pensando anche lei.
«No, facciamo le persone serie», disse poi, sforzandosi al massimo di non ridere.
Annuì e mi misi in piedi pure io, reggendomi allo schienale di una sedia.
«Prendimi quella».
Mi ci volle qualche secondo per capire che si riferiva alla bottiglia, ma l’afferrai e gliela passai. Come prima, Bea la levò in alto e si posò una mano sul cuore, cercando di simulare un’aria solenne. Non ci riusciva molto bene, perché la sua bocca si ostinava a deformarsi in un sorriso e gli occhi le si riempivano di lacrime.
«In virtù del…».
«Ma che cazzo di modo di dire è “in virtù”!?», la interruppi, ululando di nuovo dalle risate.
Anche lei si lasciò sfuggire un verso, ma cercò di rimanere seria. «Stai zitta, mi deconcentri! Dicevo, in virtù del sacro legame…».
«Il sacro legame!».
«…che ci lega all’alcool, tu, Elsa Gabriella Fränze, da lunedì ti farai solennemente i cazzi tuoi, ti toglierai dalla testa gemelli e costellazioni varie ed eventuali, e ti troverai un uomo normale, carino e, soprattutto, che sia adatto a te… anche se dovremo mandarti in orbita per trovarlo, perché di sicuro sulla Terra non esiste!».
Mi accasciai sul tavolo, battendo ritmicamente un pugno sulla superficie di marmo. Anche lei si mise seduta sulla sedia, ridendo, e si posò un braccio sugli occhi, l’altro abbandonato lungo il fianco. Lasciò cadere la bottiglia a terra, che rotolò in circolo.
Ebbi un flash. «Ma dobbiamo scrivercelo, altrimenti non lo ricorderemo domani!». Arrivai barcollando vicino al frigorifero, staccai la penna magnetica e scarabocchiai qualcosa sul primo post-it giallo del blocco, attaccato allo sportello.
In quel momento sentimmo un rumore metallico e aspro, che si ripeteva insistentemente e che nella mia testa si amplificava di diverse migliaia di volte.
«Chi minchia è?», domandò Bea.
«Abbassa quel volume e vediamo», biascicai, inciampando nelle parole. Mentre camminavo a passo malfermo verso la porta, il volume si abbassava. Il rumore metallico cessò quando la aprii, e mi trovai davanti una signora in camicia da notte, piuttosto anziana, bassa e tarchiata. La faccia tonda e rugosa era nascosta da una spessa sostanza verde pisello, e aveva inquietanti capelli rosso fuoco.
Mi faceva ridere. Trovavo ridicolo perfino il suo puntellarsi i fianchi con le mani rugose.
«Beh?! Cos’avete aperto qui, il circolo degli alcolisti anonimi? Cos’è, un’orgia di gruppo? Un nuovo colpo di testa?», urlò infuriata, la voce stridula.
La guardai per un secondo, cogitabonda. Poi scoppiai a ridere. «Oh, signora, se volessi fare un colpo di testa, andrei di filato dal suo parrucchiere!», mi premetti un braccio sulla pancia per le risa e chiusi la porta, spingendola con la schiena. Una volta chiusa, mi lasciai scivolare, nascondendo il viso tra le ginocchia.
Appena riuscii a respirare regolarmente, le strinsi al petto e cominciai a piangere.

Dolore. Dolore, dolore, dolore.
Non mi sentivo più la testa, ormai, tutto era un pulsare sordo e doloroso. Sensazione primaria.
Sensazione secondaria: sempre dolore, ovviamente, ma al fondoschiena e lungo tutto il fianco destro. Aprii gli occhi per capire da cosa fosse provocato almeno quello, dato che il primo era sicuramente dovuto all’alcool.
Ero per terra.
Quindi ero più a pezzi di un muratore perché avevo passato la notte sul pavimento. Biascicai qualcosa che assomigliava al rantolo di un cane bastonato e mi portai una mano al viso.
Ma ero tutta appiccicosa! E i miei capelli erano un ammasso di stoppa incatramata!
Mi misi in equilibrio sulle ginocchia e la stanza vorticò intorno a me. Dovevo aver bevuto oltre il limite la sera prima, perché mi sentivo più male del solito. Infatti, misi a fuoco tre bottiglie di vodka vuote, abbandonate sul pavimento. E misi a fuoco anche la figura di Bea, distesa sul divano.
Lurida egoista! Io mi ero spaccata la schiena e lei si era messa comoda sul divano.
«Prima che pensi che abbia passato la notte comoda comoda, ti informo che mi sono messa sul divano per pietà verso la mia spina dorsale solo mezz’ora fa», biascicò Bea con voce d’oltretomba.
«Troppo tardi, l’ho già pensato». Sbuffai e guardai l’orologio appeso accanto al frigorifero.
Cazzissimo! Erano le undici e mezza!
No, presentarmi in quello stato era fuori discussione.
Mi alzai a fatica e raggiunsi la borsa per prendere il cellulare. Dovevo avvisare, ma non avevo memorizzato il numero di Jost.
«Ma che cazzo…», stavo per continuare, ma… idea. Tom mi aveva telefonato quando eravamo usciti, quel sabato, sicuramente avevo memorizzato il suo numero.
Non fu necessario cercare, comunque, perché trovai otto chiamate perse, tutte da uno stesso numero sconosciuto. Premetti il tasto verde.
«Pronto?», mi rispose una voce dopo quattro squilli. Era acuta, morbida.
«Bill…?». Che voce strana mi era uscita. Sembrava quella di un deportato.
In quel momento mi soggiunse un problema a cui non avevo ancora pensato: che accidenti gli avrei detto?
«Elsa. Dove sei finita?».
Appunto.
«Ehm, io…».
«Stai bene?», chiese, ma non potevo esattamente dire che dal tono traboccasse sincero accoramento.
Mi sforzai di dare alla mia voce una parvenza di normalità e risposi: «non esattamente. Ehm… scusate se non ho avvisato prima, ma…», una scusa, una scusa, una scusa, «è capitato un imprevisto, oggi non posso venire».
Dall’altra parte, Bill tentennò qualche secondo. «Sicura di stare bene? Hai una voce strana».
«Ma hai sentito quello che ho detto?!», chiesi irritata.
«Sì, ma sono preoccupato per te».
«Ah, ora sei preoccupato per me. Mi eviti come la peste, ma sei preoccupato per me».
«Sì, sono preoccupato per te, perché nonostante tu sia stata una vera stronza nei miei confronti, io sono capace di andare oltre. E se tu non ti presenti al lavoro e avvisi solo dopo ore, con la voce di uno zombie, se permetti, mi sento un po’ in pena».
Ero allibita. Non ero mai, mai stata insultata da Bill. Anzi, per essere precisi, non si era mai rivolto a me in modo così scortese.
«Non hai ancora afferrato questo semplice concetto, Bill: non so a cosa ti riferisci, e vorrei tanto che me lo spiegassi, anche se non ora. Punto secondo: non sto bene, è vero, ma non ho potuto avvisare prima. Punto terzo: ciao». Riappesi, arrabbiata come una iena.
Normalmente avrei avuto più pazienza, specie trattandosi di Bill, invece avevo avuto una reazione acida e violenta. Meglio, in fondo: significava che gran parte dei postumi della sbronza era passata, ed era rimasta solo l’irritazione facile che mi caratterizzava. Solo, esponenzialmente accresciuta da un mal di testa torturatore.
Quando mi voltai, finalmente, vidi lo stato disastroso in cui versava la cucina di Bea: il pavimento, da bianco, era diventato di un grigiastro sporco, con grosse chiazze dall’aria appiccicaticcia, e sul tavolo erano sparse liquirizie salate, la cui busta era stata abbandonata a terra, vicino ad una sedia rovesciata.
Mi guardai. Ero vestita nello stesso modo della sera prima, jeans e maglioncino, avevo perfino le scarpe, e mi sentivo un ranocchio pieno zeppo di muco.
Doccia, subito.
Appena aprii la porta del corridoio, diretta verso il bagno, sentii un tonfo che mi fece trasalire.
«Bea?», chiamai incerta, indugiando.
Apparve dall’angolo che aveva svoltato e mi superò a velocità supersonica. Fu talmente veloce che a stento misi a fuoco tutti i suoi dettagli.
Capii ciò che voleva fare. «Non osare!!!», strillai.
Mi lanciai per rincorrerla, ma fu più veloce. Entrò in bagno e vi si chiuse a chiave.
«Mi aspetto che tu pulisca la cucina, mentre io mi lavo e mi rendo presentabile!», esclamò da dietro la porta.
Sgranai gli occhi, impalata a fissare quella dannatissima superficie in plastica.
«Sei… sei…», non riuscivo a trovare le parole per descrivere il suo gesto.
La sentii ridere di gusto. «Adorabilissima? Dolcissima? Amabilissima?».
«Bastarda!», urlai, i pugni stretti lungo i fianchi.
«Peccato, non hai fatto la rima…».
«Bastardissima!».
Udii la sua risata, e poi lo scroscio dell’acqua della doccia.
Io mi diressi spedita verso il ripostiglio in fondo al corridoio, in cerca dell’occorrente per pulire il disastro in cucina. La odiavo, in certi momenti.
Pulii la sua dannata cucina alla meno peggio, per ricambiarle lo smacco che mi aveva fatto soffiandomi il bagno in un momento di estrema necessità, e quando finalmente Bea venne fuori – dopo appena venti minuti – mi ripulii di tutto ciò che avevo addosso. Lasciai i vestiti nel suo lavandino perché me li lavasse – me lo doveva – e recuperai un paio di suoi jeans e una maglietta.
«Elsa?», sentii chiamare, mentre mi pettinavo davanti allo specchio.
«In bagno!».
Mi raggiunse, i capelli biondissimi spettinati e le labbra arrossate. Si appoggiò allo stipite e mi squadrò, la mano sinistra nascosta dietro la schiena.
«Dimmi».
«Niente appuntamento con i concentrati ambulanti di ferormoni, stamattina», affermò con espressione furba.
Mi venne voglia di lanciarle la spazzola in faccia. «È quasi l’una, secondo te devo presentarmi da loro all’orario in cui vado via?!».
«Non era una domanda, infatti», rispose tranquillamente, rimirandosi le unghie della mano destra. «Oh, posso stirarti i capelli?».
«No», risposi piccata. Posai la spazzola sul bordo del lavandino e cercai il phon e il suo diffusore.
«Ma hai uno stile monotono, cambia ogni tanto», ribatté.
Cercai nella cassettiera sotto il lavabo, ignorandola del tutto. Sfilai i cassetti uno per uno: non c’era.
«Dove hai messo il phon?», chiesi, sollevandomi.
Sollevò la mano sinistra che era stata nascosta fino a quel momento: impugnava il phon che cercavo, con il diffusore annesso e mi propinò l’espressione angelica ereditata da Didi: «mettiamola così, allora: tu, adesso, ti farai stirare i capelli dalla sottoscritta».
«Assolutamente no».
 
Top
Zoe989
view post Posted on 7/4/2010, 18:51




ciao, volvevo dirti che a me piace molto questa storia e spero che continui presto , mi piace davvero tanto. Scrivi molto bene ed è un piacere leggere questo tuo racconto!!
E' poi non dire che posti solo per un dovere morale , è un peccato ...io ti seguo anche se non scrivo sempre un commento! Apprezzo motlo cio che scrivi ..spero posti presto,
saluti ,
Zoe XD
cmq se nn l'hai capito mi piace un casino questa storia xD (sono ripetitiva lo so x) )
 
Top
Monique;
view post Posted on 14/4/2010, 09:54




Grazie Zoe.

«Sai che stai bene con i capelli così? Dovresti stirarli più spesso».
«Grazie, Didi», risposi a denti stretti. Alla fine quella strega aveva vinto.
Lanciai le chiavi nel piatto accanto alla porta e mi fiondai al frigo, ancor prima di togliermi il cappotto e la sciarpa. Tirai fuori una porzione di budino al cioccolato, presi un cucchiaino e cominciai a mangiarla nervosamente.
Erano le sette di sera ed ero appena tornata a casa, e la prima cosa che Didi mi aveva detto era stata quella simpatica frase, dopo che ero stata fuori tutta la notte e quasi tutto il giorno senza avvisare nessuno.
Grandioso.
Lo vidi sparire nel corridoio, in boxer – a fantasia grigia con delle macchinine rosse – e poi sentii la porta del bagno che si chiudeva.
Forse il budino e i gong che suonavano nella mia testa erano fattori influenzanti, ma decisi di non mettere piede fuori casa quella sera. Avrei lavorato, per non sprecare il tempo.
Lasciai il piattino sul tavolo, insieme al cucchiaino, estrassi il computer dalla borsa che avevo abbandonato sul divano e dopo averlo avviato, lo posizionai sul tavolo.
Mi presi la testa tra le mani. Mai più mi sarei sbronzata in quel modo.
«Sissi, io vado!». Didi risbucò dal corridoio, mentre si passava gli ultimi residui di gel nelle mani tra i capelli biondi.
Strizzai gli occhi a causa del volume della voce. «Okay».
«Sto bene così?». Mi si mise di fronte, per farsi guardare attentamente. Inclinai la testa e accarezzai la sua figura con gli occhi: una camicia bianca abbracciava il busto armonico, jeans molto scuri, ed insolitamente larghi, sostenuti sui fianchi da una cinta nera.
Tamburellai con la penna sul tavolo. «No, fai schifo».
«Okay, allora non mi preoccupo».
«Esattamente, perché indossi un paio dei miei pantaloni?», chiesi, sollevando al massimo il mio sopracciglio.
Vidi il suo adorabile visino corrucciarsi. «I miei sono tutti a lavare. A proposito, visto che rimani a casa, fai il bucato». Sfarfallò le ciglia, mentre io gli lanciavo un centinaio di saette con gli occhi.
«Ma dovevi farlo tu ieri! Toccava a te!», urlai. Nella testa l’eco della mia stessa voce si infranse contro le pareti del cervello come un ariete.
Guarda che te le vai a cercare…, disse la parte più ragionevole di me.
Zitta, tu.
«Hai tutto il mio cuore, piccola Sissi», diceva intanto Didi. Prese le chiavi dal piatto ed aprì la porta d’ingresso.
«E lo userò come cavia per il nuovo tritacarne». Parlai a volume più basso per pietà verso la mia testa.
Didi rise con leggerezza, s’infilò il cappotto, prese il borsello che aveva dimenticato sul divano ed uscì.
«Stronzo», mugugnai. Poi, ripensandoci, sorrisi tra me e me.
Prima di rendermi operativa di nuovo, decisi che dovevo quantomeno tentare di arginare il mal di testa, quindi mandai giù una compressa, aiutandomi con dell’acqua. Poi feci partire le registrazioni degli arrangiamenti sul computer, intanto che cercavo nella borsa il materiale cartaceo e tutti i post-it che Bill usava per scrivere i suoi appunti.
«Ma dove accidenti sono…», rovistai ancora per un po’, poi mi arresi. Mollai spazientita la cartella, che cadde sulla sedia, inerte.
Realizzare di averli dimenticati nella sala registrazioni dello studio fu come una stilettata alla mia voglia di lavorare. Imprecai molto poco finemente e per occupare il tempo decisi di mettere i panni sporchi di Didi in lavatrice. Riordinai la mia stanza e la sua, operazione che mi portò via circa un’ora. Le frustate al cervello intanto erano notevolmente diminuite, così decisi di tenermi occupata leggendo. Una volta in camera mia, scorsi i libri della libreria e vidi un dorso bianco più spesso degli altri, con degli inserti in velluto azzurro.
E feci una cosa molto stupida.
Lo sfilai lentamente e poi soffiai sulla parte superiore: una leggera nuvoletta grigia si librò in aria. Mi diressi verso il letto e mi ci lasciai cadere, con quell’album di fotografie davanti a me.
Accarezzai la copertina spessa.
L’avevo portato via all’insaputa di mio padre quando me n’ero andata da casa. Era l’album che conteneva tutte le fotografie di mia madre. Aaron le aveva raccolte, affidate a fotografi professionisti perché ne migliorassero la qualità e poi archiviate in quel grosso libro che era lì, sotto le mie mani. Probabilmente, se avesse saputo che ero stata io a portarlo via, mi avrebbe fatto causa.
Sollevai lo spesso strato della copertina ed osservai le prime due foto: una bambina, alta a malapena un metro, che si torceva le mani piene di fossette e guardava nell’obiettivo con due occhi grandi e spauriti, le guance piene e la boccuccia semiaperta. Accanto a lei, un tavolino con una semplice torta al cioccolato e tre candeline. Da sfondo, c’era solo un muro modificato dal bianco e nero della foto. Sorrisi e accarezzai la superficie liscia della fotografia.
Più in basso, la stessa bambina stava dando da mangiare ad una capra dall’altra parte di una grata metallica, il viso e il vestitino bianco illuminati dal sole. Accanto alla foto, c’era una data: 19 giugno 1956.
Mia madre aveva sei anni in quel periodo.
Sapevo poco, veramente poco di lei. Mio padre mi aveva detto che amava la natura, che era praticamente cresciuta in campagna. Mi venne da sorridere pensando che tutto ciò che sapevo di Gabriella, l’avevo dedotto dagli insulti e dalle frasi taglienti che mio padre mi aveva dedicato in diciannove anni di convivenza.
Non assomigli per niente a tua madre. Da dove hai preso tutta quell’arroganza? Sei troppo disordinata, non hai preso proprio nulla da tua madre. Vestiti con un po’ più di buongusto, un po’ come tua madre.
E così discorrendo.
Voltai pagina, sospirando. Io dovevo essere masochista, perché ogni foto, ogni ricordo, era la punta di un gatto a nove code che mi feriva.
Altre due foto: una bambina di poco più di sette anni, che cavalcava in un recinto, lo sguardo concentrato e le labbra pressate. Era stata immortalata poco prima di un salto. E poi la stessa bambina bionda dagli occhi scuri che inseguiva un cane bianco e nero, immortalata dall’alto di un balcone.
Sapevo che se avessi continuato così, sarebbe successo quello che accadeva tutte le volte: non sarei arrivata nemmeno a metà e avrei chiuso l’album, saltando tutte le foto degli ultimi anni della sua vita. Così, sollevai quasi tutte le pagine, risparmiando le ultime, e le voltai.
La bambina era diventata una donna. Ogni volta che guardavo quelle fotografie, mi rendevo conto di quanto effettivamente poco le somigliassi, non solo per carattere. Ero bionda come lei, avevo gli stessi capelli ondulati e gli stessi occhi, ma il mio viso era più allungato, le labbra più sottili ed ero anche più alta. I suoi lineamenti invece, non erano affilati quanto i miei.
Una foto la ritraeva mentre cucinava, i capelli ancora bagnati, in un’altra, così sdolcinata che in altre occasioni mi avrebbe fatto venire il voltastomaco, baciava mio padre e posava una delle sue mani sul ventre tondo e sporgente. Era incinta di Joseph, perché quando si seppe della mia esistenza il clima non era stato così goliardico. Cambiai foto: in quella successiva aveva la pancia ancora più grande ed era stata immortalata mentre preparava la borsa per il trasferimento in ospedale.
Delle foto con mio fratello neonato, il tutto in compagnia di mio padre, e poi… stop. Fine. L’album si fermava lì. C’erano delle fotografie dei primi anni di Joseph abbandonate tra l’ultima pagina e la copertina, ma nient’altro.
Stando a quell’album, mio padre e mia madre avevano avuto un solo figlio.
Mi sistemai seduta sul letto, le caviglie raccolte vicino al bacino, e ripensai a ciò che Didi mi aveva detto una delle volte in cui avevamo affrontato il discorso di mia madre: nonostante non l’avessi mai conosciuta, non avevo mai accettato la sua morte.
Era vero, cazzo, io non riuscivo a rassegnarmi. Non potevo accettare che una malattia o il troppo affetto potessero spegnere una persona e farle chiudere gli occhi per sempre. Non farla più sorridere, parlare, pensare. Non riuscivo ad accettare che delle variabili fuori dal controllo degli uomini potessero causare tanto dolore. Il mio dolore.
Mi resi conto di avere la vista appannata e di aver bagnato il piumone. Richiusi l’album e cercai un modo per scappare da quello stato d’animo. Era facile quando c’erano Didi, Bea, o quei quattro strampalati, ma da sola non avevo scampo. Tutto ciò che mi faceva male mi fronteggiava, più grande e più forte di me.
Mi recai in cucina, dove tamponai gli occhi e mi soffiai il naso con un fazzoletto.
Tutto mi sembrava opprimente, all’improvviso. La casa, i mobili, perfino l’aria che respiravo.
Senza pensarci, riposi in fretta il computer nella borsa, m’infilai le scarpe e il cappotto ed uscii da casa, le chiavi che tintinnavano in mano. Avevo una voglia disperata di urlare e prendere a pugni qualsiasi cosa, ma ero lucida quanto bastava a capire di dovermi trattenere. Dopotutto, io ero sempre stata abbastanza razionale e controllata da non avere nemmeno la scusa della pazzia o delle crisi di panico. Io vivevo il dolore in tutta la sua distruttiva interezza.
Uscii nel gelido vento di febbraio, che m’investì, potente. Mi sentii gelare fin dentro le ossa e mi infilai in macchina. Avviai il motore, partii.
Ovviamente, non avevo la più pallida idea di dove andare. Sapevo solo che non volevo vedere nessuno, la mia intenzione era allontanarmi da tutto ciò che potesse lontanamente ferirmi.
Didi mi avrebbe impedito di ridurmi così. Per questo spesso e volentieri mi portava in giro con lui. Io lo sapevo, ma ugualmente mi mostravo scocciata e scontrosa. E la complicità che c’era tra me e Bea mi avrebbe tenuta lontana da qualsiasi cattivo pensiero. Avevo bisogno di loro. Eppure, in quel momento, mostrarmi a loro in quelle condizioni, come la più immatura e fragile delle bambine, era l’ultima delle mie volontà.
Dovevo trovare qualcosa che mi occupasse la mente, così, in uno sprazzo di ragionevolezza, tornai al piano originario: lavorare. In fondo, se fossi andata allo studio di registrazione non se ne sarebbe accorto nessuno, erano sicuramente tutti via.
Guidai più velocemente del solito, nonostante il traffico, ed arrivai lì in venti minuti. Scesi in fretta, nascondendo le mani nelle tasche del cappotto e corsi fino alla porta. Avevo tenuto costantemente lo sguardo basso, fisso sulle punte delle mie scarpe e sul pietrisco, così mi stupii della luce accesa quando spalancai la porta con uno strattone violento ed entrai. Vidi Tom comparire in salotto con gli occhi sgranati.
«Cazzo, Elsa, pensavo fosse entrato un uomo armato!».
Non era nei programmi che ci fosse anche lui. Non ero preparata a farmi vedere in quello stato da nessuno, figurarsi da Tom. Boccheggiai nel panico, fissandolo con gli occhi spalancati, e mi odiai dal profondo per quanto mi sentivo stupida e vulnerabile.
Mi portai una mano sulla bocca per nascondere che era aperta mentre qualcosa mi diceva di scappare via.
Ma le mie gambe restarono inchiodate lì dov’erano, pesanti come macigni.
«Stai bene?», mi si avvicinò, guardandomi perplesso.
Riprenditi, accidenti!
Mi schiarii la voce e mi diedi un contegno. «Che ci fai qui?».
«Potrei farti la stessa domanda. Chiudi la porta? Tira una leggera brezzolina polare».
Obbedii semplicemente, non riuscii ad apprezzare l’umorismo. In quel momento riuscivo ad essere spiritosa quanto può esserlo un cadavere.
«Ho dimenticato le mie cose qui, ieri», dissi semplicemente. In me il desiderio di girare i tacchi e darmela a gambe era forte.
Alzò un sopracciglio e si sedette scompostamente sul divano. «Le uniche cose tue che ci sono qui dentro sono i fogli con gli appunti tuoi e di Bill e alcuni spartiti».
«Cercavo proprio quelli, infatti».
Voltò il busto per guardarmi accigliato. «Lavori il sabato sera?».
«Sì». Feci un salto nella sala registrazione, recuperai il materiale e tornai lì nel salotto. Avevo sperato di poter lavorare lì, in silenzio e senza nessun contatto con il mondo degli umani, ma evidentemente quella sera la sfiga ci si era messa proprio d’impegno.
«Dovresti trovarti un hobby, sai?», mi disse.
Non avevo le energie per rispondere. Infilai nella borsa tutto ciò che mi occupava le mani, così, alla rinfusa.
«E poi, non mi hai ancora risposto».
«A cosa?», domandai con voce incolore.
«Stai bene?».
«Fatti i cazzi tuoi». Chiusi tutto.
Si alzò ed aggirò il divano, in modo da fronteggiarmi apertamente. «Mi spieghi perché devi sempre, sempre comportarti come una zitella in menopausa?!».
Perché non capiva che non ero nelle condizioni di affrontarlo? Non volevo parlare con nessuno, era già tanto non scoppiargli di fronte.
«Ripeto: fatti i cazzi tuoi». Nonostante questo continuavo a parlare in modo lento e strascicato, come se avessi fatto venti vasche nuotando con una gamba sola. Provai a dirigermi verso la porta per andarmene, ma lui mi si mise davanti, sbarrandomi il passaggio.
«E se volessi farmi i tuoi?».
Assottigliai lo sguardo. «Dovresti trovarti un hobby, sai?».
«Tipo giocare con le persone, come te?».
La mia pazienza si esaurì. Ero satura. «Dovete smetterla con questa storia del giocare con le persone!», strillai. «Io non gioco e non inganno nessuno, e se avete qualcosa da dirmi, parlate apertamente e non fate i sibillini del cazzo!». Lo spintonai per andare via.
Reagì afferrandomi per un braccio. «Dimmi di che accidenti si può parlare con una persona asettica e incolore come te!».
Lo guardai e mi sentii ferita. Profondamente ferita.
«Tu non sai niente di me», venne fuori una sorta di vocina querula. Mi odiai visceralmente.
«Già, non fai che ripeterlo! Ma cosa credi, che la gente sia disposta a starti dietro per sempre?!».
«Non sono io quella che si nasconde dietro una facciata per ottenere l’approvazione altrui!». Tentai di liberare il braccio dalla sua stretta, ma non me lo permise. Anzi, mi afferrò anche l’altro, affondando i polpastrelli nella carne.
«Già, tu preferisci nasconderti dietro il tuo lavoro, il tuo sarcasmo e il tuo maledetto cinismo, vero? Tu non hai nemmeno il coraggio di metterti in discussione!».
Mi stava facendo seriamente male. «Almeno non propino agli altri qualcosa che non sono!».
«E cosa sarei? Sentiamo». Avvicinò il viso al mio, sibilando a pochi centimetri dalla mia faccia con aria minacciosa.
Sentii qualcosa che colava dai miei occhi e pregai con tutte le mie forze che non fossero lacrime. Ero crollata, avevo già ceduto rispondendo alle sue provocazioni, ma non volevo abbassarmi tanto da piangere di fronte a lui.
«Un moccioso immaturo, che si spaccia per adulto solo perchè ha plotoni di mocciose altrettanto immature che lo seguono per un bel faccino e qualche nota strimpellata», parlai a voce altrettanto bassa, più determinata che potei. Volevo ferirlo nel profondo, come lui aveva fatto con me. Svilire tutto ciò che era per fargli sentire l’amaro sulla lingua.
Acuì la stretta intorno alle mie braccia, e fu così forte che mi bloccò la circolazione. Forse era il suo modo di punirmi. Strizzai gli occhi per reazione e cercai di reagire sferrandogli pugni sul petto o ovunque riuscissi a colpire, ma la sua presa scese sui miei polsi e li immobilizzò.
Mi costrinse a guardarlo negli occhi. «Ma l’hai baciato, questo moccioso immaturo, non è così?».
Il mio battito sembrò fermarsi per qualche secondo. Mi lasciò senza parole, senza fiato. La realtà circostante si ridusse al suo viso e a quelle parole che rimbalzavano nella mia mente.
E così, Tom ricordava tutto.
«Lasciami, mi fai male», provai di nuovo a liberarmi.
«Non scappare, hai detto che volevi parlare, no?! E allora parliamo!». Alzò la voce.
«Non ho niente da dirti!». Voltai il viso per non guardarlo, in quel momento volevo solo andare via. Sentivo i lembi del mio autocontrollo scivolare via dalle mie dita, e più provavo ad afferrarli per ancorarmici, più si facevano scivolosi e lontani.
Tom intanto mi scuoteva come se fossi stata una bambola di pezza. «Dimmi perché hai preso in giro Bill e poi anche me! Dimmi perché gli hai fatto credere di provare qualcosa per lui, perché hai baciato me e perchè hai preteso di fare come se niente fosse successo! Dimmi come cazzo ragioni!». Stava urlando davvero, ed ebbi paura. Mi sentii cedere le ginocchia, tuttavia cercai con tutte le mie forze di restare in piedi.
«Io non ho fatto niente di tutto questo!». Senza volerlo, cominciai a singhiozzare e Tom mollò la presa sulle mie braccia.
Mi sentii sospinta leggermente all’indietro e per non cadere mi appoggiai allo schienale del divano. Lo guardai mentre indietreggiava, come se all’improvviso avessi avuto una malattia contagiosa.
Mi sentii annullata. Svuotata. Del tutto avvilita.
Mi massaggiai un polso dolorante, cercando di controllarmi, ma c’erano ferite che bruciavano molto più in profondità. Non riuscivo a riprendere il controllo.
Non avevo nemmeno la forza e la voglia di scappare, perché sapevo che non si sarebbe risolto niente in quel modo. Nessun colpo di spugna avrebbe cancellato ciò che era successo.
«Io non avevo cattive intenzioni», dissi a voce bassa, tenendo costantemente gli occhi sui brutti segni viola che stavano comparendo sui miei polsi. «Non volevo ferire né illudere nessuno».
Mi resi conto di stare tremando, nonostante questo trovai la forza di guardarlo.
Mi fissava, impassibile, ma la tensione nei suoi muscoli faceva capire che non aveva smaltito la rabbia. Rimase in silenzio, e questo mi permise di dire l’unica cosa che avrei detto se fossi stata in condizioni normali, senza lacrime né scene patetiche: «non è colpa mia se avete creduto nei vostri castelli in aria. È tutto». Feci un bel respiro e gli passai accanto, diretta verso la porta. Quando la aprii, vidi la figura di Bill, il suo viso sorpreso, mentre reggeva una busta di plastica con una mano.
«Elsa, ma…».
«Ciao, Bill», lo interruppi. Lo superai, senza curarmi di nulla e raggiunsi la macchina camminando a passo spedito. Una volta dentro, accesi il motore e mi allontanai da lì più in fretta che potei.
Quando mi accertai che abbastanza spazio dividesse me da loro, accostai nel buio della strada rettilinea.
Mi rannicchiai su me stessa e urlai. Urlai con tutte le mie forze.

Edited by Monique; - 14/4/2010, 15:39
 
Top
Zoe989
view post Posted on 14/4/2010, 13:56




oddioo è adessoo che succederà?? ma non puoi lasciarmi cosiii??...
cmq come sempre bel capitolo!!...si però ora hai l'obbligo di postare al più presto ù.ù non uoi lasciarmi schiattare cosi xD
un bacio ,
ancora complimenti ,
Zoe
 
Top
Fee1702
view post Posted on 16/5/2010, 17:15




QUesta FF è davvero stupenda, stupenda in tutto, credo sia una delle migliori che abbia mai letto e mi spiace non poter commmentarla come dovrei e come meriteresti, ma il tempo che ho a disposizione, proprio non me lo permette... non riesco nemmeno più a scrivere. Spero solo che continuerai a postare! Io leggerò tutto.
 
Top
Monique;
view post Posted on 25/5/2010, 13:40




Eccomi di nuovo con un chilometrico capitolo! Che dire, buona lettura, e se arrivate fino alla fine, di nuovo, complimenti.

Capitolo 8

Stronzo. Per prima cosa. Villano per seconda. Subdolo, prepotente, manesco ed irruento per tutto il resto.
Avrei benissimo continuato, perché ero così furiosa da riuscire a stendere quel moccioso autocompiaciuto altresì conosciuto come Tom Kaulitz a suon di insulti ed imprecazioni.
Trovavo che approfittare in quel modo meschino di un mio momento di vulnerabilità fosse stato oltre ogni umanità, perché, io lo sapevo, lui aveva capito che non ero in forma. Purtroppo, chiunque potrebbe capirlo vedendo una persona che piange.
Scalciai via le coperte del mio letto e mi diressi in cucina. Arraffai dal frigo il cartone del latte, presi una tazza dalla credenza e la riempii. Mentre la mettevo nel microonde, pensai che quel moccioso aveva perso tantissimi punti con quel comportamento. Non che prima ne avesse molti, comunque.
Sospirai, poggiandomi al banco della cucina.
La casa a quell’ora del mattino era silenziosa, pacifica, come ogni volta in cui mancava uno dei miei due compagni di vita. Didi, comunque, era ancora a letto in letargo, dopo essere rientrato alla solita ora indecente, come ogni sabato.
Preparai il caffè e pensai di svegliarlo con quello, altrimenti nemmeno per mezzogiorno sarei riuscita a buttarlo giù dal letto.
Stai tergiversando, mi disse la solita, stronza vocina nella mia testa. Per quanto possa insultarlo, tu hai baciato Tom, e di certo non perché si dà così tante arie che potrebbe volare.
Tirai fuori la tazza, scocciata, e la poggiai sul tavolo. D’un tratto mi era passata la fame.
Sì, l’avevo baciato, e allora? Ero un po’ brilla anche io.
E il fatto che baci da dio non significa niente, giusto?, continuò a sghignazzare quella.
Mi cadde il cartone dei cereali dalle mani e mi affrettai ad afferrarlo prima che potesse rovesciarsi. Stavo per rispondere a quella voce fastidiosa quanto un ronzio nelle orecchie, poi mi resi conto che conversare con se stessi non portava a niente e preferii evitare.
Decisi cosa fare per poter concludere qualcosa nel momento in cui portai a Didi il caffè. Entrai nella sua stanza, scansai gli indumenti disseminati sul pavimento e posai la tazzina sul comodino, stando attenta a non fare rumore.
Dormiva beato, sdraiato sulla pancia e con una mano chiusa a pugno accanto al viso sereno, i capelli arruffati. Dalle spalle nude capii che era tornato talmente stanco da non essere riuscito a infilarsi il pigiama.
Mi fece sorridere: era un amore quando dormiva.
Nonostante tutto, con un ghigno diabolico, premetti tutti gli interruttori che accendevano le luci e aprii la tapparella avendo cura di fare quanto più rumore possibile. Fuori il cielo era nuvoloso e grigio, e pioveva.
«Sveglia, Bell’addormentato!», urlai nella sua direzione, anche se di mattina la mia voglia di parlare spesso era pari a zero.
Lo vidi premersi con forza il cuscino sugli occhi e seppellirsi sotto il piumone, mugolando imprecazioni non definite. Non contenta, salii sul suo letto e cominciai a saltare leggermente, facendo ondeggiare il materasso.
«Non la smetterò finché non sarai sveglio», lo avvertii.
«Sono già fin troppo sveglio, strega», mi rispose con voce d’oltretomba, dandomi le spalle.
«Oh, adulatore!». Mi sedetti sulle ginocchia accanto a lui e lo dondolai per una spalla. «Didi, ho bisogno di te».
«Su questo non c’erano dubbi», bofonchiò. Poi si voltò verso di me, gli occhi ancora socchiusi dal sonno e un sorriso paziente, e alzò lo strato di coperte per far segno di raggiungerlo. Non appena fui sotto la calda flanella, mi rilassai di nuovo, poggiando la testa sul mio braccio piegato.
«Diamo inizio alla prima puntata de “I problemi di cuore di Elsa Gabriella Fränze”», disse con finta aria solenne.
«Come sai che sono problemi di cuore?», chiesi scettica.
«Elsa, andiamo, non essere ridicola. Da quando è comparsa una certa persona, la tua vita sentimentale è come un vulcano attivo».
Sbuffai, ma non provai più a contraddirlo, sarebbe stato inutile.
«Vedo che abbiamo superato la fase della negazione. Ti ci è voluto un bel po’, devo dire», sghignazzò.
Sorvolai sulla sua frase. «Il punto è che non c’è più in gioco solo una persona. Ora ce ne sono due», dissi.
Il volto di Didi si illuminò per lo stupore, gli occhi cerulei spalancati. «Dai. Davvero?».
«Sì».
«E chi?».
«Il fratello», ammisi poco entusiasta.
Didi rimase un attimo basito, giusto il tempo di assimilare la notizia. Poi si distese sulla schiena e rise sonoramente, nascondendosi il volto con le mani.
Ma cosa…?
Mi puntellai su un gomito e lo guardai spaesata. «Beh?».
«Oddio, Elsa», continuò a ridere, «Chitarrista e cantante in un colpo solo… adesso sì che ti stimo!».
Non arrossire. Non arrossire. Non arrossire. Limitati ad arrabbiarti, almeno provaci.
«Io non ci trovo niente di divertente!», inveii, fedele agli ordini di una delle tante vocine che blateravano indisturbate nella mia mente. «Nel caso non ti fosse chiaro, sono nei casini fino al collo».
«Ah, questo è poco ma sicuro», concordò una volta acquietato lo scroscio di risa. «Solo che è un bel traguardo, per una che non voleva instaurare nemmeno un legame d’amicizia».
«Già, anche se non vedo il lato comico di tutto questo», mormorai affranta. «E ora, non uno, ma entrambi i Kaulitz sono incazzati con me e io non so proprio che pesci prendere. E quel cazzo di bacio!», m’infervorai, «mi ha confusa più di prima e mi maledico ogni giorno per aver…».
«Aspetta, aspetta, frena», m’interruppe, tappandomi la bocca con una mano. «Perché dovrebbero essere arrabbiati con te? E di quale bacio parli?».
Sbuffai pesantemente e nella mia mente feci un’istantanea sintesi di tutte le sventure che mi erano capitate che riguardavano anche quel buzzurro.
«Tom è uno stronzo», affermai decisa, quando l’ebbi conclusa.
«D’accordo, questo è assodato da un pezzo. Non puoi… ampliare il concetto?».
«Va bene», ci pensai su. «Tom è un megastronzo».
Didi alzò pazientemente gli occhi al cielo. «Elsa, mi devi raccontare tutto».
Ovviamente ogni volta che Didi sentiva odore di pettegolezzi si comportava peggio di una comare, ma questa volta anche lui capiva che le cose andavano prese sul serio. Lo vedevo nella sua espressione accorata, seria. E ricordai di non averlo reso partecipe degli ultimi avvenimenti con i Kaulitz – nemmeno dei primi, in realtà – così presi il coraggio a quattro mani e gli spiegai a grandi linee la situazione, compreso il rovente – ma quest’aggettivo non l’avrei mai pronunciato – bacio con Tom nel corridoio del Mabou. Alla fine della (in)felice favoletta, Didi si stava sforzando per non scoppiare di nuovo a ridere.
Gli lanciai occhiate di fuoco, ma poi modificai la mia espressione e assunsi un cipiglio professionale e studiatamente calmo. «Caro il mio Diedrich, posso informarti dell’identità della vittima della mia prossima violenza?», domandai candidamente.
Mi lanciò un’occhiata obliqua. «Oddio, spero che non sia Bill, lo traumatizzeresti. A Tom invece potrebbe anche piacere… Non è che mi fai assistere?». Mi guardò con un’espressione così sfacciatamente maliziosa che gli premetti il cuscino sulla faccia, segretamente divertita, mentre lui continuava a ridere.
«Okay, okay, la smetto!», disse alla fine, cercando di togliersi il guanciale che gli opprimeva il viso.
Lo liberai, di nuovo seduta sulle ginocchia e gli scoccai un’ altra occhiataccia. «Non mi stai aiutando», borbottai offesa.
E Didi divenne stranamente serio.
Sospirò sonoramente, solito segno dell’arrivo dei discorsi importanti. Quel genere di discorsi che io evitavo come la peste, perché mi mettevano di fronte ai problemi, anzi, mi ci facevano sbattere contro e io non ero più in grado di ignorarli. Nonostante questo, non potevo impedirgli di parlare. Ero andata da lui per farmi aiutare, e probabilmente lo avrebbe fatto, anche se non con i metodi più delicati.
«Sai una cosa, Elsa? Io penso che tutto questo casino ti stia facendo bene, più di quanto tu non creda», affermò convinto.
«Cosa?!», esclamai allibita, «io non vedo l’ora che finisca, tutto questo casino!».
«E perché? Per ritornare a chiuderti nel tuo bozzolo di certezze incrollabili, per ingessarti di nuovo nei tuoi modi di fare scocciati e scorbutici come se vivendo facessi un favore al mondo?».
Più andava avanti, più tutto il mio coraggio e la mia rabbia scolorivano. Lo ascoltavo, lo ascoltavo davvero, e mi rendevo conto di quale terribile verità permeasse le sue parole di secondo in secondo.
«La felicità non è una cosa che ci è dovuta, Sissi. Sta a noi crearcela, e se non ci riusciamo, quando viene dobbiamo afferrarla», concluse, guardandomi estremamente serio.
Mi morsi un labbro, incerta. «Io… non mi sento affatto felice, però», annaspai.
«Perché guardi dal punto di vista sbagliato. Forse non sprizzi gioia da tutti i pori, ma non ti ho mai vista così viva come da un paio di mesi a questa parte. Ed è merito di quei quattro, non puoi negarlo».
Ero rimasta senza scuse. Spesso era inquietante sapere che c’erano due persone che mi conoscevano così a fondo, ma era altrettanto spaventosa la prospettiva di non avere nessuno con cui condividere i pensieri più intimi e chiedere aiuto in situazioni disperate.
Annuii e restituii un sorriso remissivo, debole, ma sincero. Era il mio modo per dire che, d’accordo, accettavo ciò che diceva e gli davo ragione.
Lo abbracciai stretto. «Ti voglio bene», sussurrai.
Da quanto non glielo dicevo? Uno, due anni? Mi sembrò un tempo infinitamente lungo.
«Anche io te ne voglio».

Dopo aver parlato con Didi, mi sentii subito meglio. Più leggera. Era come se il peso che mi opprimeva proprio al centro del petto fosse sparito.
Riuscii a fare colazione – alle undici e mezza del mattino – sentendomi quasi serena. Poi, riposi tutte le stoviglie sporche nel lavello e andai in camera, pensando a come occupare quella giornata. Avevo voglia di uscire, nonostante piovesse a dirotto. Avevo voglia di una di quelle lunghe passeggiate in solitudine che non mi concedevo da tempo, in cui pensavo fino ad annodarmi le cervella. Dopotutto, era ovvio che dopo il momento di apertura con Didi avessi voglia di stare da sola per raccogliere le idee.
Aprii la finestra per far entrare un po’ dell’aria di febbraio. Il freddo pungente m’investì, ma con esso arrivò anche l’odore della pioggia: pulito, fresco, denso. Amavo quell’odore, sapeva d’inverno. Sapeva di casa.
Decisi che mi sarei concessa un momento di pigrizia: mi gettai sul letto, presi il mio libro preferito, Jane Eyre, e mi immersi nel suo mondo. L’avevo letto decine di volte, ma non potevo far a meno di leggerlo di nuovo. Il personaggio di Jane era assolutamente affascinante: così determinato, a tratti impulsivo, diffidente, riflessivo, razionale…
La storia di una ragazza che, rigettata dalla sua stessa famiglia, trova la forza di farsi una vita lontana da casa sua, e trova l’amore in un uomo scorbutico e dal carattere rude, che si rivela poi essere la metà perfetta per lei.
Non ero così cieca da non ritrovarmi, se pur in piccola parte, in lei.
Certe volte mi chiedevo chi sarebbe stato il mio Signor Rochester. La mia vita non era così vuota da farmi sentire il bisogno pressante di qualcuno a cui legarmi in modo profondo, ma a volte guardavo al futuro, cercando di immaginare come sarebbe potuto essere. Non mi vedevo nei panni della casalinga perfetta che accoglie il marito con un bacio e una fetta di torta al cioccolato.
In quel momento mi tornarono in mente le esatte parole di Tom.
Dimmi di che accidenti si può parlare con una persona asettica e incolore come te!
In effetti, non ero proprio il simbolo del calore umano e della spontaneità. E mio padre mi aveva sempre ribadito che sarei rimasta sola, a causa del mio carattere spinoso.
Ma perché investire il proprio tempo e la propria fiducia in un’altra persona?
Me lo chiedevo spesso.
Ero fermamente convinta che le persone fossero tutte egoiste e che la trasparenza portasse solo guai. Il mio rapporto con Bea e Didi non costituiva un’eccezione. Entrambi condividevamo molte cose, ma in fin dei conti ognuno aveva la sua vita, coltivava parti di sé che erano personali e basta.
Quindi perché mettersi a nudo, se poi il risultato era solo altro dolore?
Una fitta di disperazione mi strizzò il cuore, come se una tenaglia dentata lo stesse mordendo e stritolando.
Mi dedicai alla lettura, cercando di scacciare la tristezza che era scesa ad opprimermi e riuscii ad accantonare pensieri che facevano troppo male per essere ricordati.
La pace non durò a lungo, perché sentii lo stridio fastidioso del citofono. Dovevamo cambiarlo, ma sia io che Didi dimenticavamo sempre di andarne a comprare un altro.
«Didi, vai tu!», urlai.
Sicuramente era Bea che aveva dimenticato le chiavi. Era anche ora che si facesse vedere, dato che c’era stato un silenzio stampa per tutto il giorno prima.
Ma la persona che comparve alla mia porta dopo sì e no un minuto non aveva affatto le caratteristiche di Bea. Bea non era così alta. Non aveva capelli neri e rasta bianchi, nemmeno indossava striminzite magliette con stampe gotiche che sbucavano da una felpa nera, e non portava cappellini da baseball.
«Bill!», esclamai, sorpresa. Di tutte le persone che sarebbero potute venire, lui era proprio l’ultima che mi aspettavo di vedere. E come accidenti aveva saputo dove abitavo?!
«Ciao…», pigolò lui. Si mordeva le labbra e si torceva le mani, seppur cercando di non darlo troppo a vedere. Non c’erano tracce di trucco sul suo viso.
Mi squadrò da capo a piedi al di sotto della visiera del cappellino nero.
«Ciao», riposi il libro sullo scaffale e lo guardai, stupita. Mi sembrava insensato alzarmi, o imbarazzarmi del fatto che fossi in un banalissimo pigiama blu, quindi non mi scomposi. «Che ci fai qui?».
«Ehm… volevo solo parlare. Posso?».
Tentennai meno di un secondo. «Certo… siediti». Indicai la sedia della scrivania di fronte al letto, miracolosamente libera dalle pile di vestiti abbandonati – ma solo perché avevo riordinato tutto il giorno prima.
Bill ubbidì, sfregandosi le braccia con le mani. «Fa freddo qui… come fai a resistere?».
Gli evitai tutta la spiegazione su quanto mi piacesse l’odore della pioggia e mi alzai per chiudere la finestra. Mi sedetti sul letto, sul bordo, in modo da essergli più vicina, ed incrociai le gambe. Il mio sguardo gli pesava addosso ed io ero curiosa di sapere cosa avesse da dirmi.
Prese un profondo respiro. «Tom mi ha… raccontato».
Alzai un sopracciglio.
«Riguardo a ieri sera», chiarì.
Oh. Allora aveva fatto una cosa giusta: aveva messo anche il fratello al corrente della loro illimitata stupidità gemellare.
Bill sospirò di nuovo. E la scarica a mitraglia di parole cominciò. «Io mi sento terribilmente in colpa. Mi sento anche uno stupido in realtà. Ti ho trattata male senza che te lo meritassi, ma mi succede spesso, quando sono arrabbiato vedo solo ciò che voglio vedere e sparo a raffica sulle persone, ma sono pentito, davvero! E ora mi sento un perfetto idiota, perché non solo ti ho trattata male senza un motivo ma ho anche pensato che tu fossi così meschina da prenderci in giro tutti e due, per cosa, poi? Me lo chiedo anche adesso, e davvero non vedo un motivo plausibile, però mentre…».
«Bill», lo interruppi per pietà verso il suo colorito che tendeva preoccupantemente verso il cianotico, «respira».
Annuì e fece come gli avevo detto. Soffiò fuori aria gonfiando le guance.
Ora ogni parola di Tom aveva un senso. Il malumore di Bill e le sue parole al vetriolo si spiegavano perfettamente. Senza che lo volessi si era andata a creare un’ingarbugliata matassa di equivoci e fraintendimenti, e un po’ era anche colpa mia. Avevo dato loro l’impressione sbagliata.
«Dì qualcosa», mi pregò Bill, incassando la testa nelle spalle.
Non mi risparmiai. «Beh, se sono chiamata a dire qualcosa, ti pregherei solo di pensare con la tua testa e di farti influenzare meno da tuo fratello».
«Hai ragione», concesse Bill, «ma io e lui abbiamo un rapporto speciale. Mi fido di lui… non guardarmi così, fammi spiegare». La mia espressione doveva avergli dimostrato tutto il mio scetticismo riguardo alla fiducia da riporre in Tom. «Lui non è come si vende, in realtà è molto diverso. Quella che propone agli altri è solo una maschera».
Stavolta non risposi. Capivo perfettamente cosa voleva dire Bill. Avevo visto degli squarci della personalità nascosta di Tom a casa di mio padre, quando era diventato insopportabile continuare a stare lì e lui mi aveva seguita, ma ugualmente non riuscivo a giustificarlo.
Che razza di scusa era?
«Io so che sono la persona meno adatta a fare questo tipo di discorsi, perché ufficialmente sono un egocentrico superficiale e viziato, ma… Elsa, conosco mio fratello. Si sente minacciato da te perché è raro che incontriamo una ragazza con del cervello, e per lui è una situazione nuova».
«Basta». Ero stanca di tutto quel parlare, di tutto quel difendere Tom ad oltranza. Per natura, le persone che parlano molto mi hanno sempre irritata. E poi, che razza di spiegazione era? Tom si sentiva minacciato da me e quindi aveva il permesso di rovesciarmi addosso tutta la sua rabbia solo perché gli tenevo testa?
Bill titubava. «E credo che tu gli piaccia». Da come lo diceva, sembrava una sconfitta personale.
Io risi di gusto. «Bill, sei passato dal difenderlo al dire baggianate assurde. Risparmiatele».
Rispose sbuffando. «Se solo gli prestassi un po’ più di attenzione, te ne accorgeresti anche tu».
Non risposi.
«Comunque… è tutto a posto?», cambiò argomento.
«È tutto a posto», concessi. Mi chiedevo solo perché Tom non si fosse degnato di farsi vedere, ma almeno con Bill potevo assodare di aver risolto.
«Ah, Tom non sa che sono qui, comunque».
Pure.
«Ehi, Bill!». Didi che comparve in camera stroncò ogni possibilità di risposta.
Entrambi ci voltammo verso di lui, che si stava avvicinando per sedersi accanto a me.
«Ciao, Didi», lo salutò Bill cortesemente, sorridendo. Ancora una volta, il suo sorriso sembrava tristemente plastico.
«Scusami per le condizioni in cui ti ho accolto prima, ma ero appena uscito dalla doccia».
Bill rise. «Non l’avevo capito!».
Io già temetti il peggio. «Sei andato ad aprire nudo?!».
«No, avevo l’asciugamano… quello azzurro puffo».
«Quello straccetto striminzito!?», protestai allibita, conscia dello shock che Bill avrebbe potuto subirne. Per carità, Didi era un ragazzo fin troppo bello – come la maggior parte degli omosessuali, che tristezza –, ma se Bill si fosse lamentato, la casa discografica avrebbe potuto farci causa per “traumi psicologici alla gallina dalle uova d’oro”.
«Non è successo niente, ho visto di peggio», ci interruppe ridendo.
Bill aveva visto di peggio?
Didi diede voce al mio pensiero: «in che senso?».
«Fans che si denudano ai concerti e comunicano tramite ultrasuoni isterici, o le sconcezze scritte a caratteri cubitali sui cartelloni… dopo un po’ diventi indifferente a tutto».
Ridemmo tutti.
«Oh, che maleducato!», esclamò Didi ad un certo punto. «Bill, non te l’ho chiesto, ma vuoi qualcosa da mangiare? Da bere?».
«La casalinga disperata assopita che è in lui ora riemerge», dissi, dando una spallata a Didi, a cui lui rispose ridendo.
Quando tornai a guardare Bill, lo sorpresi a fissarmi, stranamente serio.
«Sì, magari… non ho fatto colazione stamattina», rispose.
«Allora potremmo…», cominciò Didi.
«Elsa, Elsa, Elsa!».
Tutti e tre ci voltammo verso l’uscio di camera mia – era l’ultima stanza del corridoio, ma era da sempre un porto di mare – e vedemmo un razzo biondo comparire nell’arco di cinque secondi. Bea aveva le guance e il naso arrossati come al solito, i capelli scompigliati, un po’ umidi a causa della pioggia, e un gran bel sorriso.
Era forse una mia impressione, ma in quel periodo mi sembrava più serena e luminosa.
Posò la borsa sulla scrivania con l’intenzione di rovistare all’interno, ma quando vide Bill, che la fissava con la stessa espressione scettica che probabilmente avevamo anche io e Didi, si arrestò, come se qualcuno l’avesse spenta.
Voltò la testa verso di me, rimanendo con gli occhi fissi su Bill. «Elsa, ho le traveggole o c’è un Kaulitz seduto sulla tua sedia?».
Didi si schiacciò le labbra per non ridere.
«Sì, Bea, hai proprio le traveggole», dissi.
Bill si morse le labbra, divertito anche lui. «Ciao, Bea».
«Che ci fai qui?», gli chiese, ripetendo la domanda che gli avevo fatto io.
«Bea!», la riprese Didi.
«No, beh, è una domanda legittima», disse Bill. «Sono venuto a parlare con Elsa».
Ma perché, perché l’aveva detto? Non poteva inventare una scusa?
Non aveva idea di ciò che quelle poche parole avevano scatenato.
Non feci in tempo a contrarre il mio viso in un’espressione sofferente, che vidi il viso di Bea comunicarmi la frase “dopo mi racconterai tutto, vuoi o non vuoi”, anche senza l’uso del linguaggio verbale.
«Sono felice di vederti. Comunque», Bea riprese a cercare nella borsa e ne tirò fuori un foglio ripiegato, «ho una notizia sensazionale da darvi».
Mi alzai per prendere il foglio che mi porgeva. Lo aprii con Didi che sporgeva il viso oltre la mia spalla per vedere anche lui, e cominciai a leggere.
«Gentile Bea Bergmann, siamo lieti di informarla della vittoria del primo premio del corso di fotografia…», stavo cominciando a saltellare e l’entusiasmo si accendeva pian piano in me, «Die Aufregung der Reise…».
Didi mi strappò di mano il foglio: «da’ qua, fai leggere me. La mostra dei lavori avverrà il primo marzo duemilanove a Berlino!».
Saltai urlando insieme a Didi e corsi ad abbracciare Bea, che intanto stava spiegando a Bill di aver partecipato ad un concorso fotografico di paesaggistica. Bea non amava dirlo molto in giro, ma la fotografia era la sua passione.
Restituì il mio abbraccio saltellando insieme a me.
«Qual è il premio?», chiese Bill.
Didi rispose prima di noi, leggendo ancora: «tremila euro e un soggiorno di una settimana per due persone a Nizza, a metà marzo. Cazzo, non ci avevi detto che era così importante!».
Bea fece finta che la cosa non la toccasse. «Beh, sì, non è il primo concorso fotografico che passa», disse, controllandosi le unghie.
Mi sentivo così felice per lei, e sapevo che anche lei lo era, a dispetto delle apparenze. Ed ero curiosa di sapere con chi sarebbe andata a Nizza.
«Con chi ci andrai?», chiese Didi, che intanto era salito sul letto e ci guardava dall’alto.
Presi appunto mentale di controllare le doghe.
Bea guardò me e poi lui, finché Bill non intervenne. «Potresti andarci con Georg.», buttò lì con casualità. «A proposito, come è andata con lui ieri?».
Una decina di sirene d’allarme prese a suonare nella mia testa. Il mio sguardo congelato scattava da Didi a Bea.
«Ah, bene, a parte l’imbracatura antifan che portava, che complicava un po’ le cose, ma doveva, perché il posto era affollato… Comunque non lo so… è così impegnato con l’album, magari non vuole nemmeno venire», rispose lei.
«Non ti preoccupare, tanto la sua preoccupazione più grande è quella di suonare le note che Elsa gli dice».
Ecco spiegato il perché del silenzio di Bea per tutto il giorno prima.
Che razza di storia era quella?!
«Cosa c’entra Georg?», chiesi, chiamando in causa tutta la dignità e l’autocontrollo di cui disponevo.
Bea si mostrò indecisa e vacillante davanti a quella domanda. «Stiamo uscendo insieme, da qualche tempo…».
Stavano uscendo insieme?!
«Ah», esalai, spaesata.
Improvvisamente, mi sembrava che il mondo si fosse fermato. Mi sentivo congelata in quel frammento di tempo, sola con i miei pensieri che invece scorrevano veloci nella mia mente, come i fotogrammi di un film.
L’aria mi sembrava più pesante.
«Elsa, non farne una tragedia greca». Didi scese dal letto. «Bea, stavo per proporre di andare a mangiare fuori. Ti va di unirti, così festeggiamo?».
«Volentieri, ho proprio fame», rispose lei.
«Bene, allora lasciate che Elsa e io ci prepariamo, poi vi raggiungiamo», concluse lui.
Io ero paralizzata al mio posto.
Osservai Bea e Bill uscire dalla mia stanza chiacchierando, ed io ero soverchiata da tutte le paura che mi stavano sopraffacendo, secondo per secondo.
Bea e Georg. Georg e Bea. Insieme.
Questo significava che Bea sarebbe stata molto più tempo con lui, che con noi. Che con me.
E si stava già verificando: Bea che sorrideva più spesso, che usciva con Georg e non mi metteva al corrente di niente, che passava un’intera giornata senza farsi sentire.
«Finita la tragedia greca? Vedo i sottotitoli strappalacrime da qui», disse Didi, che aveva chiuso la porta e mi stava guardando, le braccia conserte.
Lo guardai e realizzai. «Tu lo sapevi».
«Sì, lo sapevo. Ed è proprio per questa tua reazione che sia io che lei non abbiamo voluto dirti niente».
«Quale reazione?», domandai offesa. Avevo alzato la voce un po’ troppo.
«Questa reazione da regina del dramma. E poi guardati, sembri un sarago lesso».
Didi poteva dire quello che voleva, ma io mi sentivo mancare la terra sotto i piedi. Mi ricomposi subito e presi a rovistare nell’armadio, alla ricerca di un paio di stracci da mettere addosso. Ma mi rendevo conto che guardavo, guardavo, e in realtà non vedevo.
Sentii Didi che sospirava. Mi si avvicinò e mi scansò, poi scorse i vari vestiti al posto mio. «Bea non è tua. Ha anche una vita al di fuori di noi, non possiamo impedirle di viverla».
Mi mise in mano un paio di jeans scuri, che io afferrai senza esserne cosciente. «Non voglio impedirle di vivere», sussurrai con un filo di voce. Ma mi sentivo ferita e messa da parte. Come se mi avessero strappato a forza qualcosa di prezioso dalle mani. Subito dopo aver formulato quei pensieri, mi resi conto dell’immane stupidità del mio comportamento. Mi stavo comportando come una bambina, ma non potevo farne a meno: la prospettiva di perdere Bea mi terrorizzava.
Svegliati, cocca. Non hai più bisogno della mammina che ti rimbocca le coperte.
Ignorai quella voce.
«No, ma ti comporti come se avessi l’esclusiva su di lei».
«Io non ho l’esclusiva su nessuno», berciai incattivita, cominciando a spogliarmi. «E non mi sto comportando in nessun modo, è libera di fare ciò che vuole».
Mentre mi spogliavo, sentivo lo sguardo di Didi pesarmi addosso, come se mi stesse respirando sul collo.
«Sarà…», concesse lui. «Vado a cambiarmi».
Non lo salutai nemmeno mentre usciva dalla porta e io mi vestivo. Lo feci con meccanicità, perché la mia mente era del tutto assente. Ma quando mi vidi allo specchio, quasi sussultai. Ero intrappolata in un paio di leggins marroni e una gonna di jeans lunga fino alle ginocchia che mi fasciava la vita e si allargava in morbide balze. E indossavo un maglioncino che riprendeva il beige delle rifiniture della gonna, dal cui scollo spuntava una camicia dello stesso punto di marrone dei leggins.
Oddio, vestita così sembri appena uscita da un film della Disney, strillò allarmata una voce nella mia testa.
Mi chiesi se fosse il caso di dare un nome a tutte le voci che popolavano il mio cervello, e contemporaneamente mi domandavo se fossi la principessa o la strega cattiva del film in questione.
La mia mente non aveva dubbi: non potevo affatto essere una principessa. Io le avevo sempre detestate, poi, le principesse Disney. Degli aborti di ragazze, tutte sorrisini, mani delicate e abitini cuciti da topi, persone che non sapevano far altro che credere nei sogni e aspettare il principe azzurro.
Biancaneve, al limite, puliva case immaginarie di nani sfigati e cantava specchiandosi nelle acque dei pozzi. Cenerentola, poi, aveva perso il padre buono ed affettuoso, era stata maltrattata in tutti i modi possibili dalle due sorelle racchie, dalla matrigna e perfino dal gatto, ed era rimasta uno zuccherino.
Perfino da bambina io avevo odiato le favole. Erano pure bugie, somministrazioni di una realtà inesistente in pillole dorate, ed ero riuscita a capirlo nonostante avessi una mente illusa come quella di ogni bambina.
Forse io non ero un esempio perfettamente calzante, dato che non ero mai stata obbligata ad inginocchiarmi per terra per pulire pavimenti, ma di soprusi ne avevo ricevuti a sufficienza, e non mi potevo definire esattamente l’incarnazione della dolcezza e della gentilezza. E poi non credevo nei sogni, tanto meno nel principe azzurro, e non avevo nemmeno l’aspetto impeccabile ed immacolato di una principessa.
Semmai potevo sembrare una sorta di virago schizzata sull’orlo di un esaurimento nervoso.
Ma guardandomi meglio mi resi conto che quasi non sembravo io. I capelli biondi ricadevano in lunghe e morbide ciocche sul petto, e senza i soliti ricci arrivavano fin sotto il seno. Gli occhi grandi e scuri erano risaltati dall’abbinamento con i colori dei vestiti, e conferivano dolcezza ai lineamenti del viso.
Forse potevo essere una principessa un po’ anomala…
Scossi la testa e impedii a quei pensieri stupidi di invadermi la mente un secondo di più. Infilai un paio di stivali beige – i colori neutri erano quelli che mi piacevano di più – e andai in bagno, non curandomi di chiudere la porta.
Mi lavai i denti e il viso, mi spazzolai i capelli e decisi di essere pronta.
«Elsa!», esclamò Bea quando feci il mio ingresso in cucina, gli occhi bassi per mascherare l’imbarazzo che provavo. «Ecco perché piove, hai deciso di vestirti come Dio comanda!».
Sbuffai senza risponderle e presi dell’acqua dal frigo e un bicchiere dalla credenza.
«Oh, Elsa!», proruppe Bill, all’improvviso.
Mi voltai dopo aver versato l’acqua e lo vidi seduto al tavolo, le braccia conserte. «Sì?».
«Ecco cos’hai di diverso, hai stirato i capelli! Non riuscivo a capire cosa avessi di strano, è tutta la mattina che cerco di arrivarci…».
Feci un sorriso stentato e bevvi, voltando loro di nuovo le spalle.
«Glieli ho stirati io venerdì, ci ho messo quasi tre quarti d’ora», disse Bea. «Però sono soddisfatta del risultato».
«Sì, infatti sta benissimo. Quando viene da noi allo studio li lega sempre, non mi ero nemmeno accorto che fossero così lunghi».
«Nemmeno io, prima. Da quanto tempo non li tagli, Elsa?».
Feci rapidamente il conto a mente e riposi il bicchiere nel lavandino, sempre dando loro le spalle. «L’ultima volta è stata a luglio», risposi asciutta. Odiavo che si parlasse di me, specie in terza persona.
«Non lo fare, sarebbe uno spreco», mi disse Bill.
Mi voltai, poggiandomi con i palmi delle mani al bancone dietro di me. «Didi non è ancora pronto?», glissai.
«Eccomi, eccomi, che impazienza», annunciò, comparendo sulla soglia. Era vestito sui toni del nero – si vestiva sempre di nero quando faceva particolarmente freddo – e si fermò a studiarmi con occhio critico.
«Però…», commentò, guardandomi dalla testa ai piedi.
Incrociai le braccia. «Quando hai finito la radiografia avvisami, passo a ritirarla», borbottai.
«Non pensavo avresti acconsentito a vestirti così», disse, ignorandomi del tutto. «Sei molto bella».
Strinsi i pugni. Io odiavo i complimenti, gentilezze e carinerie varie, perché non lo capiva?
Calmati, Elsa. E conta fino a dieci.
Feci un bel respiro profondo. «Dove andiamo?».
«Oh, io ho in mente un bel posticino. Offro io», rispose Bea.
Tutti acconsentimmo e decidemmo di andare con la sua macchina, per risparmiare carburante. Bea, tra le altre cose, era anche un’ambientalista.
C’infilammo i giubbotti.
«Faremo una bella corsetta sotto l’acqua», disse Bea, sorridendo.
«Non ci sono ombrelli?», chiese Didi, guardando me.
«Uno solo, quello nero e grande», risposi.
«Basterà».
Lo vidi prenderlo dal portaombrelli e seguire Bea al di fuori della porta. Stavo per fare la stessa cosa, quando sentii delle dita calde sfiorarmi il collo. M’immobilizzai, come se mi avessero tolto le batterie mentre ero in funzione. Percepii chiaramente le mani di Bill raccogliermi i capelli, sollevare il collo del mio cappotto e accomodarvi la coda all’interno con gesti lenti, come se un’operazione così semplice richiedesse un grande autocontrollo.
«Così non perdono la piega con l’umidità di fuori», disse con voce tranquilla. Mi affiancò e mi sorrise, un po’ imbarazzato.
«Grazie», dissi a denti stretti, poi seguii gli altri, che stavano aspettando l’ascensore.
Mi aveva spiazzata. Nessuno di loro prima – Tom a parte – aveva infranto la barriera del contatto fisico. E di certo non mi sarei aspettata che lo facesse Bill, che era, a dispetto delle apparenze, il più reticente a muovere i primi passi verso una persona che non conosceva bene.
Con il tempo avevo imparato a conoscere meglio ciascuno di loro, e Bill, oltre ad essere egocentrico, logorroico, perfezionista e assillante, aveva anche una gran paura di farsi conoscere.
In ascensore con gli altri, mi chiusi in un silenzio riflessivo. Una parte del mio cervello registrava i loro chiacchiericci, ma un buon ottanta percento era impegnato a rielaborare i dati, che sembravano cresciuti a dismisura. Bill mi aveva turbata e innervosita, con quel gesto. Ma non ero sicura che fosse una sensazione negativa.
«Okay, pronti per la corsa?».
La voce di Bea, la più alta, mi riportò alla realtà: eravamo usciti dal portone ed indugiavamo sotto la tettoia che sporgeva dal muro. Il cielo era plumbeo e pioveva a dirotto, i bordi della strada erano sommersi di spessi rivoli d’acqua.
Didi si aggrappò all’asta dell’ombrello che aveva aperto Bea. «Ci faremo la doccia».
«Stai bene?», mi chiese Bill a voce bassa, per quanto poteva consentire la vicinanza estrema di tutti.
Mi infilai il cappuccio e risposi automaticamente: «sì».
«Via!», esclamò Bea e ci esponemmo in gruppo al diluvio di quel giorno. I nostri piedi facevano schizzare l’acqua: cercavamo di camminare sulle punte, ma il risultato era che le goccioline zampillavano maggiormente.
Quando c’infilammo in macchina, avevamo tutti i piedi bagnati fino alle caviglie.
«Come cazzo ti è venuto di parcheggiare così lontano?», berciò Didi.
«Il tizio del carro attrezzi mi ha detto che non poteva spostare le macchine da sotto casa vostra, quindi Sua Maestà vorrà scusarmi!».
Riuscii a sorridere e Bill a ridacchiare, mentre Bea avviava il motore e il riscaldamento.
«Sei più schizzinoso del solito oggi», osservò lei.
«Ma se non ho detto niente!».
«Non è che sei andato in bianco ieri?», continuò Bea con un sorriso furbo.
Mi sporsi tra i sedili e osservai Didi sbattendogli in faccia le ciglia. «Al contrario, stamattina l’ho trovato a dormire quasi nudo. Pensa a quanto dev’essersi stancato, ieri, e quanto tardi è tornato…».
La sua espressione cambiò subito: sorriso scaltro, occhi turchini assottigliati, fissi su un punto impreciso nel vuoto, come se stessero contemplando altri panorami…
Mi schiacciai le labbra, soddisfatta, e mi appoggiai alla spalliera dei sedili. «Come volevasi dimostrare».
«Però contieniti, accidenti. Se devi immaginare film pornografici, fallo con discrezione», intervenne Bea, con la sua solita vena sarcastica.
Non aggiunsi niente al commento di Bea come invece avrei fatto di solito. Voltai il capo verso Bill, vidi che stava appuntando qualcosa su un blocco di post-it gialli. Immaginai che avesse tirato fuori carta e penna dalla sua firmatissima borsa Gucci.
«Cosa scrivi?», chiesi, avvicinandomi.
«Una frase che mi è venuta in mente adesso».
«Posso?». Sapevo che a Bill dava fastidio che qualcuno leggesse i suoi appunti senza il suo permesso.
Indugiò un attimo, rileggendo le poche righe che aveva scritto. Poi annuì.
Mi avvicinai con la testa, in modo da decifrare la sua scrittura spigolosa e lessi.
Rain falls, don’t touch the ground. You say I’m fixed, but I still feel broken. I’m not lettin’ go
Non chiedevo mai a Bill il significato dei suoi testi, né perché a volte preferisse scriverli direttamente in inglese. Tuttavia mi chiesi come mai gli fosse venuta in mente una frase del genere proprio in quel contesto.
«Ho solo appunti sparsi per questa canzone. Non riesco a ricomporli, ma so che fanno tutti parte di uno stesso testo», commentò, lo sguardo fisso sul foglietto.
«Possiamo lavorarci», concessi.
«Grazie per l’onore», ridacchiò, poi si fece subito di nuovo serio. «Sai, la casa discografica ci ha fatto sapere che vuole l’album per l’inizio della primavera. Non ce la faremo mai, abbiamo chiesto più tempo… e i fans sono già impazienti».
Si stava innervosendo, lo vedevo. Cominciava ad agitare le mani e a guardare fuori sbuffando. Lo lasciai parlare.
«Non lo so, certe volte penso che tutto questo sia più grande di noi, che finirà per inghiottirci. Da fuori è tutto bello e luccicante, ma quando ci sei dentro ti senti solo un viso pubblicato sui cartelloni, sulle cover dei CD, sui giornali… finisci per perdere il contatto con te stesso. Tom non ci pensa molto, lui si gode i momenti, e Gustav e Georg sono i meno sensibili a questo genere di cose… ma io ci penso spesso, e più ci penso, più sono spaventato. Certe volte arrivo anche a considerare che ciò che abbiamo non valga tutto quello che ci è stato tolto…».
«Bill», interruppi bruscamente quella serie di riflessioni primordiali, «tu credi che la vita quotidiana delle persone ordinarie sia tanto diversa?».
«Non lo so», sussurrò sinceramente, gli occhi fissi al di fuori del finestrino. «Non me lo ricordo».
«Gli stronzi ci sono dappertutto, nel mondo dello spettacolo, come in quello dei comuni mortali. Bisogna guardarsi le spalle ovunque, perché le persone sono tutte uguali, dappertutto».
Mi puntò gli occhi addosso, in un modo che raramente gli avevo visto usare. Quel modo di fissare la gente era più tipico di Gustav, che guardando riusciva a carpire gli stati d’animo e i pensieri dei suoi compagni. E miei.
«Tu non sei come tutte le altre persone», disse a voce bassa, come se non volesse farsi sentire.
Mi sentii di nuovo turbata, ma il mio istinto mi diceva di non indagare.
Non ringraziai, perché per me quello non era un complimento.
«A volte è meglio esserlo…», mi lasciai sfuggire, giocherellando con un anello della mia borsa.
«Perché dici questo?», indagò incuriosito.
«Perché quando tutte le brutture sfuggono si è più felici».
«Ma è una felicità falsa. È come essere ciechi», controbatté. «Non vedi le ombre, ma nemmeno i colori».
Sorrisi appena, pensando che certe volte le ombre erano più numerose dei colori.
«Ehi, voi due là dietro!». La voce di Didi che si era voltato a guardarci ci fece sobbalzare entrambi. «Non vi state deprimendo con discorsi sulla vita e il suo senso, vero?».
Bill simulò una risata breve.
«Di qualsiasi cosa stiano parlando, devono smettere perché siamo arrivati», ci informò Bea.
Sbirciai subito al di fuori del finestrino. Eravamo nella Börsenbrücke-Straße, una delle strade centrali di Amburgo. Bea stava parcheggiando proprio di fronte ad un rinomato pub irlandese, che nasceva accanto ad un supermercato aperto notte e giorno. Solo l’ingresso lo rendeva riconoscibile: in un palazzo quasi del tutto grigio e bianco, era l’unico con i battenti sporgenti e l’insegna in legno scuro, e dei vasi di piante curate stazionavano davanti alla vetrina.
«Finnegan’s Wake», lesse Bill, sull’insegna. «Non ci sono mai stato».
«È un pub molto carino», spiegò Bea. «La sera si ascolta musica dal vivo e si mangia anche bene».
«L’unica pecca è il personale un po’ scontroso. Non ci veniamo da una vita», commentò Didi.
«Pronti a ripetere la scena dell’entrata in macchina?», domandai.
«No», risposero tutti in coro.
«Bene, andiamo».
Ci armammo di buona volontà e replicammo esattamente i movimenti dell’andata, fino a trovarci all’interno del pub. Era un locale notturno, per lo più, ma serviva anche del cibo di giorno. Chiamarlo ristorante era eccessivo.
Bill si guardava intorno, e anche io. Erano cambiate un po’ di cose dall’ultima volta che c’ero stata. Ogni cosa era in legno. Dagli scaffali pieni di bottiglie colorate, al bancone dietro cui c’erano due ragazzi che pulivano bicchieri alti dalla forma allungata, al pavimento, perfino i tavoli e le sedie che occupavano la saletta alla nostra destra lo erano. Dal soffitto pendevano dei lampadari in ottone, che ricordavano vagamente le forme di una campana, e qua e là c’erano stemmi ed emblemi tipici dei locali d’oltremanica. Gli unici elementi che stonavano erano le televisioni al plasma che sovrastavano gli scaffali, fissate al muro, in modo che chi si appoggiasse al banco potesse vederle semplicemente alzando lo sguardo.
«Dobbiamo sederci?», chiese Bill.
«Vuoi mangiare in piedi?», chiese Bea, imbarazzandolo visibilmente.
Didi volse lo sguardo al cielo e gli fece segno di lasciar perdere. Nella saletta, scegliemmo il tavolo più appartato, in modo da non attirare l’attenzione su Bill, che con i rasta bianchi e la corporatura snella e molto slanciata non passava inosservato.
Sistemammo i cappotti e le borse sulle sedie e ritornammo al bancone per pagare. Io ordinai per prima, guidata dal menù che stava affisso dietro la cassa: optai per una porzione di Irish Stew, Didi preferii una porzione a base di pesce – ironia della sorte – con del pane alle noci, e Bea volle provare il Roastbeef. Ci sforzammo tutti e tre di non ridere quando Bill ebbe qualche problema su cosa prendere, a causa della sua dieta vegetariana, ma poi ripiegò su una zuppa di verdure fresche. Fu il turno delle bibite. Su quell’argomento ci trovavamo sempre tutti d’accordo: Weiss Dunkelweizen Bier, sempre. Saltammo a piè pari il secondo e ordinammo il dessert: per me un rotolino dolce al pandispagna e cioccolato, chiamato Pumpkin & Cream Cheese, un po’ di torta al Bailey’s per Bea, e per Bill e Didi un po’ di Whiskey Pie, una torta servita con crema di whiskey e panna.
Bea pagò, ricevemmo lo scontrino e riuscimmo ad avere le nostre ordinazioni, poi ci spostammo di nuovo al tavolo.
«Immagino che sia abituato a posti diversi, vero, Bill?», chiese Didi, staccando un pezzo del suo pane alle noci.
«No», rispose dopo aver assaggiato la zuppa. «Di solito mangiamo nel tourbus, pizza o pasta, quando ci va bene. Tom sa cucinare solo pasta al sugo, certe volte ne fa così tanta che il sugo ci esce dal naso. Oppure siamo costretti a mangiare in ristoranti superlussuosi, che ci costano quando un occhio della testa, solo per avere la sicurezza di non essere aggrediti dai fans, che ci scovano ovunque…».
Tutti lo ascoltavamo parlare in silenzio. Purtroppo io conoscevo quell’aspetto della loro vita. Mi era capitato un paio di volte di vedere ragazze che si aggiravano nei dintorni dello studio di registrazione, armate di macchine fotografiche, e Gustav mi aveva anche parlato degli episodi di stalking che si stavano verificando.
«E come fate quando dovete… che so, uscire, andare in giro?», azzardò Bea.
«Non usciamo», rispose semplicemente. «O lo facciamo per pochi minuti, sempre tallonati dalle guardie del corpo. Non c’è mai un momento in cui siamo realmente soli».
Sospirai, mentre masticavo. Ascoltare quei discorsi mi turbava sempre.
«Però con noi non ti hanno mai beccato», intervenne Didi.
«No, il che è strano. Solitamente ci riconoscono dappertutto, ad ogni ora del giorno. Certe volte vorrei… lasciare tutto, pur di ottenere un po’ di normalità, però d’altra parte so che non ce la farei. È come una dipendenza, fa male ma non si può vivere senza…».
«E basta!», sbottai, annoiata e vagamente nervosa.
Tutti gli occhi scattarono su di me.
«Non va bene essere troppo normali, esserlo troppo poco, essere troppo ricercati, non esserlo affatto… che lagna! Ma fatevi un giro nel mondo reale!».
Bill sbatté le ciglia, offeso. «Ma… come ti permetti? Parli come se fossi tanto più saggia di noi, come se conoscessi tutto del mondo!».
«Elsa…», cominciò Didi, per cercare preventivamente di trattenermi, ma non lo ascoltai.
«Non è questione di età o saggezza, il punto è che chiunque tu sia, ovunque tu sia e qualsiasi cosa faccia, lo prendi sempre in quel posto, prima poi. È così che gira il mondo. E non serve ad un accidente farsi le abluzioni nelle lacrime, si tira avanti cercando il più possibile di arginare i danni».
Anni e anni di presenze forzate e autocontrollo lo costrinsero a rimanere seduto al proprio posto, ma era lampante che volesse piantare tutto e andarsene.
«Beh, beata te che ci riesci!», mi rispose incattivito.
«E pensi che sia stato facile imparare? Ci facciamo i conti tutti, chi prima e chi dopo, e nessuno può permettersi di sprecare tanto tempo a piangersi addosso».
Strinse un pugno sulla tovaglia e si chiuse nel silenzio, gli occhi fissi sul piatto di zuppa.
Didi mi lanciò un’occhiataccia che non m’intimidì affatto, poi parlò: «quello che Elsa sta cercando di dire è che è normale avere momenti di sconforto, ma non dobbiamo farci abbattere».
Schioccai la lingua. Ero sempre stata contraria a quelle versioni edulcorate della realtà, pronte come le pappe per bambini.
Man mano che il nervosismo cresceva, la mia voglia di una sigaretta aumentava in modo direttamente proporzionale.
«Vado a fumare, scusate». Presi il pacchetto dalla borsa e uscii in strada, protetta dalla copertura dei battenti sporgenti del bar.
Me l’accesi e aspirai nervosamente.
Volevi tirarlo su di morale, no? Bel lavoro, ragazza.
 
Top
Monique;
view post Posted on 4/11/2010, 17:35




Capitolo 9

Pronta per la tua dose di veleno quotidiano?
Domanda stupida.
Era matematicamente impossibile che una come me arrivasse ad affrontare le situazioni preparata, posata e perfettamente razionale.
Okay, ero razionale, nonostante non fosse un’opinione condivisa, ma non ero affatto preparata e posata.
D’altronde, a che serviva?
La sfiga nella mia vita faceva sì che niente andasse mai secondo i piani, quindi perché preparasi le battute da dire, le argomentazioni da esporre, gli atteggiamenti da tenere?
Avrei improvvisato, in ogni caso le cose avrebbero seguito la legge di Murphy e se avessero potuto non andare per il verso giusto, l’avrebbero fatto senza scrupolo.
Entrai senza suonare, come al solito, e mi tolsi il soprabito.
«Buongiorno, bambini!».
Il salotto non era riempito dal quartetto delle meraviglie al completo. E c’era un piccolo imprevisto.
I ragazzi erano in stato semicomatoso.
Guardai Tom, seduto sul divano, il suo computer portatile sul tavolino davanti a lui e la testa abbandonata sullo schienale, gli occhi chiusi. Georg invece l’aveva proprio fatta sporca: era disteso su un fianco, sullo stesso divano su cui era addormentato Tom, e poggiava la testa sulle sue ginocchia.
Prima di lasciarmi toccare dalla tenerezza di quello spettacolo inconsueto, mi diressi in cucina per cercare l’altra metà della band.
Gustav era di spalle, vicino alla macchinetta del caffè e pigiava alcuni pulsanti.
«Cos’è successo stamattina?», chiesi, sperando di coglierlo di sorpresa.
Si voltò, purtroppo sorridendo tranquillamente e facendo sfoggio di tutto il notevole autocontrollo di cui disponeva. Che invidia.
«Buongiorno anche a te, Elsa. Sì, ho dormito bene, tu?».
Ridacchiammo entrambi.
«Scusami», dissi. «Sai che la socievolezza non è il mio forte».
«Io sono l’asociale per eccellenza, quindi chi meglio di me può capirti? In ogni caso, quei due sono così pigri che fanno concorrenza ai ghiri, riuscirebbero ad addormentarsi anche dopo dieci ore di sonno. Caffè?».
«Sì, grazie». Quella era la frase più lunga che ero riuscita ad estorcere a Gustav. Mi complimentai con me stessa.
Lui si voltò, prese la tazza che era appena stata riempita dalla macchinetta e me la porse. «E poi oggi c’è la rimpatriata di Benjamin e David, servono energie».
La presi, guardandolo confusa. «Tornano oggi?».
«Tra un’oretta, per la precisione».
Mi appoggiai al muro. I due produttori erano tornati dal loro viaggio negli States per far sì che la popolarità dei Tokio Hotel non scemasse, e avrebbero ricominciato a lavorare con noi. Ogni giorno, ogni mattina, fino a quando l’album non fosse stato terminato. Non più solo io e i ragazzi. Nessuna complicità…
«Non minacceranno il tuo territorio, se è questo che temi», sentii dire da Gustav. «Rilassati».
Non alzai lo sguardo su di lui e feci ruotare il caffè nel fondo di porcellana. «Non è il mio territorio».
Sorseggiò il caffè e rispose con un furbissimo sorrisino sghembo, che feci bellamente finta di ignorare.
«Bill?», domandai poi.
«Ah, non ci crederai. È deciso a tenere il muso a Tom, così oggi verrà con la sua macchina. Tom non sa come resistere all’impulso di strozzarlo».
Oh, no. Avevano litigato di nuovo.
«Probabilmente come tutti resistono allo stesso impulso verso Tom».
«Te compresa?».
«Ovviamente».
Ridacchiammo.
«Sinceramente, Gustav», cominciai, «come fate a convivere insieme? Siete tutti così diversi. E quei due sono davvero insopportabili, però sembra quasi che...».
«Che non possiamo fare a meno l’uno dell’altro», concluse lui per me.
«Già».
Gustav si sedette e si girò la tazza tra le mani, cercando con cura le parole da usare. «Vedi, è complicato. Ci conosciamo da dieci anni, lavoriamo insieme, dormiamo insieme nei tour... è quasi come essere in famiglia. Anche se Bill ha manie di perfezionismo esasperanti, Georg ti fa saltare i nervi per la sua pigrizia e Tom rischia ogni giorno la faccia per i suoi atteggiamenti, nessuno di noi può immaginare di esistere senza uno dei quattro». Mi guardò e mi concesse il raro dono di un sorriso aperto. «Tu sei insopportabile. Saccente, presuntuosa, ruvida. Ma pensi che il tuo amico Didi, tanto per fare un esempio, possa immaginare la sua vita senza di te?».
Ci pensai su, affascinata dal lungo filo di pensieri che Gustav aveva appena dipanato davanti a me. E compresi che non solo aveva capito il profondo legame che mi univa a Didi, malgrado ci avesse visti insieme solo un paio di volte, ma aveva anche la preziosa capacità di vedere le cose nei loro dettagli minimi, di cogliere le sfaccettature. Sapevo che era sensibile, ma non fino a questo punto. Inoltre, aveva perfettamente ragione.
«Attento, Gustav. Sono anche permalosa. Potrei non rivolgerti più la parola dopo quello che mi hai detto». Ricambiai il suo sorriso.
«Ma sapresti che ho ragione. E, in ogni caso, nonostante il tuo brutto carattere... ti vogliamo bene tutti».
Il mio cuore restò muto davanti a quella confessione.
Ma per favore. Rischi ogni giorno che il maggiore dei Kaulitz ti metta le mani al collo, e Bill dopo l’ultima volta ti guarda come se l’avessi preso a bastonate, facendoti sentire pure in colpa, per giunta. Non credo che sia esattamente come giurarsi amore eterno.
Odiavo quella stronza vocina. Aveva sempre ragione.
«Tutti?», chiesi ad alta voce.
Annuì. «Tutti, anche se in modi diversi».
Riuscii a sorridere, e d’un tratto ebbi voglia di abbracciare quel ragazzo che stava seduto davanti a me, e che accettava di parlarmi come si parla ad una vecchia amica. Un’altra piccola parte di me, invece, si domandava in quali diversi modi si potesse volermi bene. E d’un tratto immaginai che succedeva molto più di quanto non si desse a vedere, tra loro, quando io non c’ero.
«Sei... gentile», dissi.
«E tu sei allergica alle carinerie. Come me. Quindi basta con le dichiarazioni d’amore».
Prima che riuscissi a ridere, qualcuno entrò in cucina. «Infatti, perché c’è pubblico e io potrei vomitare». Tom si diresse alla macchinetta del caffè con il passo più ciondolante del solito, inserì la cialda e la azionò.
Non riuscii a rispondere. Avevo in mente ancora il nostro scontro del sabato sera, ma non riuscivo a capire che significato aveva per Tom. Purtroppo sapevo che non esistevano macchine del tempo.
«Finalmente sei uscito dal letargo», disse Gustav.
«Ma quale letargo. Anche in sogno voglio legare Bill per gli alluci ad un treno». Prese il suo bicchierone di caffè e si voltò verso di noi. Mi lanciò un lungo sguardo. «E non solo lui».
Mi fissai le unghie, evitando di guardarlo. Codarda, codarda, cantilenò la voce nella mia testa. «Non avevamo detto basta con le confessioni d’amore?».
«Ti vedo e non resisto, lo sai».
Gustav sbuffò, ma non ci interruppe: probabilmente i battibecchi tra me e Tom lo divertivano. Io, dal mio canto, non riuscivo a sopportare l’idea di non rispondere ad una provocazione, specie se del mio Kaulitz preferito.
«Sono colpita», alzai gli occhi al cielo.
«Magari», disse, dopo un sorso del suo caffè extrazuccherato. «Però con qualcosa di duro».
«Come la tua testa?».
«E dateci un taglio, voi. Vi sentivo dal salotto», Georg entrò stropicciandosi un occhio con la mano. «Perché non avete fatto il caffè per tutti?», sbadigliò, pigro, preparandosi anche lui il suo bravo caffè.
Istantaneamente ricordai. Georg e Bea. Quei due nomi, accoppiati, erano come scolpiti nella mia testa. Uscivano insieme, rammentai. Sapevo che non dovevo, che era del tutto irrazionale e ingiusto, ma ero... gelosa marcia. E spaventata.
I Tokio Hotel erano una parentesi della mia vita. Una parentesi che avevo imparato a guardare con affetto, che cresceva pian piano, ma pur sempre una parentesi. Bea e Didi erano tutto il resto. E vedevo che non solo la mia vita si stava intrecciando con quella di quei quattro ragazzi, ma anche quella dei miei amici. Proprio ciò che avevo sempre temuto. E se fosse cambiato qualcosa? Se me l’avessero portata via? Se anche Didi cominciasse a cercare la compagnia di uno di loro? E se Bea fosse rimasta ferita da Georg? Dopo tutto ciò che aveva passato, dopo i violentissimi colpi che aveva subito, era così strano che si fosse concessa di rischiare così tanto...
«Perché toccava a Bill oggi prepararlo, e invece ha dato forfait». La risposta giunta in ritardo di Tom mi strappò a quei pensieri e li diresse in un’altra direzione: Bill. Già. Magari gli era successo qualcosa con la macchina...
«Probabilmente ha preso in pieno qualche cartello stradale, conoscendolo», Gustav diede voce al mio pensiero.
Tom fece finta di nascondere la sua preoccupazione, ma tutti sapevamo che avrebbe dato un rene per suo fratello. La sua mascella era contratta.
Poi vedemmo dalla finestra in cucina una BMW grigia entrare e parcheggiare sulla ghiaia.
«Oh, eccolo», dissi.
Dopo il pranzo avvenuto il giorno prima e le mie parole violente, poco pensate ma non per questo meno vere, Bill non aveva fatto altro che rivolgermi sguardi feriti, ed ogni mio tentativo di conversare con lui era fallito. Il pensiero di dover passare un’intera giornata con lui e suo fratello fece crescere la tensione, che a sua volta fece crescere il mio bisogno di una sigaretta. Non avevo ancora fumato.
«Aspettiamo l’arrivo di David e Benji prima di cominciare?», proposi. «Tanto siete tutti catatonici, o quasi». La proposta venne accettata di buon grado, intanto Bill entrava dalla porta nel salone. Immaginai che si stesse liberando dei numerosi strati di sciarpe e vestiti sotto cui si seppelliva di solito.
«Ciao a tutti», salutò a voce alta. «Dove siete?».
«In cucina!», rispose Gustav.
Quando entrò, evitò accuratamente di guardarmi. Perfetto, era passato dal farmi sentire in colpa per aver urtato la sua sensibilità all’evitarmi spudoratamente.
Sei nociva, gioia. Ecco perché le zanzare non ti pungono mai.
Sbuffai, irritata, e Bill scambiò la mia impazienza per delusione: mi lanciò un’occhiata altezzosa.
«Chi ha fatto il caffè?», chiese.
«Dovevi farlo tu. E invece per dare sfogo alla tua indole drammatica sei venuto in ritardo», rispose Georg con un’occhiataccia.
«Me ne sono dimenticato!», si difese lui, portandosi automaticamente le mani al petto. «E non è colpa mia se ho un fratello coglione!».
«Scusa, chi sarebbe il coglione?», saltò su Tom, e Bill aprì subito la bocca per replicare con qualche frase stupida, ma Georg li interruppe entrambi: «Okay, basta. Però, Bill, ora il caffè te lo fai da solo. È il minimo».
Lo vidi sbuffare pesantemente, scambiarsi un’occhiata di fuoco con il suo consanguineo e dirigersi alla macchinetta.
Sorridendo sotto i baffi, estrassi il mio pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans e ne sfilai una. Cercai l’accendino, ma l’avevo dimenticato, e mi sentii ancora più nervosa.
«Sigaretta?», propose Tom. Mi stava guardando e sicuramente aveva notato che non avevo da accendere.
Gli lanciai un’occhiata scettica e incredula.
«Dopo il caffè è obbligatoria», continuò, come a giustificarsi.
Non mi giungeva nuova quella cortesia inaspettata, ed era una cosa... insolita. Accettai quasi senza accorgermene ed uscimmo in veranda. S’infilò una sigaretta tra le dita e la accese con l’accendino che poi mi lanciò. Lo presi al volo e dopo aver acceso la mia glielo restituii.
«Allora», cominciò dopo il primo tiro. «Ho saputo che ieri Bill ha fatto una piccola gita».
Sbuffai fumo, e mi sentii molto meglio. «Un giorno nel mondo della comune plebaglia...», dissi con tono enfatico. «Non sa tenersi proprio niente per sé, vero? Spiffera tutto a tutti».
«Solo le cose più importanti».
Sorrisi leggermente. «Quindi ti ha detto anche che abbiamo avuto un leggero attrito...».
«Leggero attrito? L’hai strigliato per bene, il suo umore era tra il semimorto e il defunto quando è tornato», disse sorridendo.
Già immaginavo Bill che piagnucolava con il fratello, dicendogli quanto fossi cattiva ed insensibile a prendere a bastonate il suo animo fragile.
«Non aspettatevi delle scuse», dissi, guardinga.
Aspirò ancora e scosse appena la testa, le labbra contratte prima di soffiare via il fumo. «No, in realtà hai fatto bene. Gli serviva qualcuno che non provasse una specie di strano istinto protettivo verso di lui».
Sull’ultima parte, Tom aveva ragione. Avevo notato che Bill godeva di una sorta di favore universale, probabilmente a causa del suo comportamento al limite dell’infantile e al suo faccino delicato. Parlare con Bill di massimi sistemi era come pensare di infliggere volontariamente dolore ad un bambino. Inconcepibile.
«Crede ancora all’amore a prima vista, al destino inciso nella pietra e stronzate del genere», continuò Tom.
Ero a metà della mia sigaretta. «Non c’è niente di male nel coraggio di credere che i rapporti tra le persone possano andare oltre il razionale».
Mi guardò curioso, un sopracciglio alzato. «Parla come mangi».
Fissai la ghiaia bagnata, spostandola con i piedi. M’imbarazzava moltissimo ciò che stavo per ammettere. Erano pensieri che tenevo solo per me, e parlarne con Tom mi creava una certa difficoltà. Era una parte di me molto fragile. «Voglio dire, è ammirevole che nonostante tutto lui riesca ancora a... che so, sperare, credere... non è da tutti».
Tom mi fissava scettico, appena incerto. Poi increspò le labbra e tornò a guardare avanti, fumando ancora. Probabilmente stava elaborando ciò che gli avevo appena detto, e sicuramente non l’avrebbe capito.
Il suo silenzio mi snervava. «Che stai pensando?», non mi trattenni dal chiedere.
Alzò le spalle e attese qualche secondo prima di rispondere. Magari era in difficoltà anche lui. «Mi ero fatto un’idea diversa del tuo concetto di...», fece una smorfia, «amore».
Tom che sprecava il suo preziosissimo tempo a farsi idee su ciò che potevo pensare io? Questa era nuova.
Ignorò la mia espressione sorpresa e continuò: «sì, pensavo fossi una che non crede in queste cose. Con i piedi per terra, ecco. Una frase come “l’amore non esiste” sarebbe stata più nei tuoi standard».
Non potevo credere alla direzione che stava prendendo il discorso. Ero lì a discutere di massimi sistemi con Tom Kaulitz. Assurdo.
«Dire che l’amore non esiste significa sparare un’enorme cazzata. Sarebbe più giusto ammettere che non c’è spazio per l’amore in questo mondo».
Ecco, l’avevo detto. Avevo scoperto il mio nervo dolente.
«Che significa?».
Presi un grosso respiro. L’istinto mi stava dicendo di troncare lì quella conversazione, che mi stavo spingendo troppo oltre il limite di ciò che mi era consentito rivelare di me stessa. Ma poi mi tornò in mente il fiume di parole di Didi, che mi accusava di essere troppo chiusa nel mio guscio impenetrabile, e scelsi di rischiare. Sperai solo di non pentirmene.
Tanto sai che te ne pentirai.
«Bill ti ha detto che mia madre è morta?».
Annuì.
«Mio padre amava mia madre più di se stesso. Io non ne so molto, ma quando vivevo ancora da lui mio fratello, nei suoi sparuti momenti di benevolenza, mi raccontava che era un tipo di amore raro, il loro. Avevano una vita sola, ma in due. Non so bene come spiegarlo. Era un rapporto solido e maturo, serio. Ebbene, mio padre ha perso mia madre. È stato come se gli fosse mancata la terra sotto i piedi. E da allora odia me».
«E questo che significa?».
«Significa che l’amore non dura. Esiste, ma non dura. O finisce, come la maggior parte delle giovani coppie di oggi, o ti viene portato via». Come l’amore che mia madre aveva per me. Come era successo a Bea...
«Stai facendo di un filo d’erba un fascio», obbiettò, la sigaretta quasi finita.
Risposi con un’alzata di spalle. «Traggo le mie conclusioni in base a ciò che vedo intorno a me».
«Che panorama desolante».
Ridacchiammo entrambi.
«Era a questo che pensavi sabato, quando sei venuta qui?».
Alt.
Cosa dovevo dirgli? Che ero andata in crisi a causa di uno stupido album di fotografie? Che in realtà avevo sempre voluto conoscere mia madre ed essere accettata da mio padre? Che trovavo profondamente ingiusta la stessa ingiustizia della vita? Come potevo spiegargli tutto questo senza una meritata risata in faccia o una smorfia disgustata?
«Qualcosa del genere», risposi evasiva. «Mi dispiace per quella scenata».
«Mi stai chiedendo scusa, Elsa?».
Lo guardai e vidi che sorrideva. L’atmosfera si era sensibilmente alleggerita, io stessa mi sentivo più sollevata. Come se qualcosa dentro di me si fosse sbloccato. Non fu difficile sorridergli di rimando.
«Sì, Kaulitz. Segnati questa data, perché non succederà più».
Ancora sorridente, annuì, in quel suo particolare modo ciondolante. «Scusa anche tu per ciò che ti ho detto».
Amaramente, gli sorrisi: tutto quello che mi aveva detto era vero.

Circa tre quarti d’ora dopo, una macchina discreta, nera, parcheggiò nel vialetto di ghiaia dello studio di registrazione. Ci avvicinammo alle vetrate del salotto e vedemmo smontare entrambi i produttori, parlando tra loro. Benjamin era, come al solito, biondo, sorridente e carinissimo, vestito dei soliti colori chiari, mentre David era un cupo tributo allo stile urban: jeans strategicamente sbiaditi nei punti giusti, maglioncino di lana marrone, dal cui scollo spuntava una maglia nera, accollata.
Possibile che non avessero freddo vestiti così, in pieno febbraio? Avevano qualche gene che li desensibilizzava al freddo?
I ragazzi erano seriamente felici di rivederli, dopo quasi un mese che erano stati lontani, e parlottavano tra loro chiedendosi cosa avessero combinato durante il “tempo libero”. Roba da ragazzi, che mi sforzai di non ascoltare.
Gustav aprì la porta per loro e li accolse con un sorriso. I saluti furono brevi e calorosi.
«Ti trovo bene», mi disse Benji, quando fu il mio turno.
Gli sorrisi. «Sono ancora viva».
«Sapevo di averli lasciati in buone mani». David mi salutò stringendomi la mano.
Ci sedemmo ignorando le deboli proteste offese di Bill, che sosteneva di non aver bisogno della babysitter. I convenevoli durarono poco, le battute furono poche e molto calibrate. Avevo il sospetto che la mia presenza, l’unica femminile, limitasse di parecchio gli argomenti di cui potevano parlare. Di nuovo, roba da ragazzi. Da una parte fui felice di essere tenuta fuori dalle loro questioni, e lusingata che si preoccupassero di non offendermi; una piccola parte di me, invece, vide quella cortesia come una mancanza di familiarità. Come se fossi un’estranea. Il risultato di quel conflitto fu un mutismo involontario che mi fece sorridere stentatamente due o tre volte e mi impedì di partecipare alla conversazione, limitandomi ad ascoltare, seduta sul divano con gli altri.
A quanto pare, la combinazione Tokio Hotel/educazione dà come risultato un broncio malinconico combinato a delusione perché ti hanno escluso dal settore “persone familiari”. Se invece si comportano da Tokio Hotel, parolacce, manate e provocazioni annesse, il risultato è un’incazzatura da ciclo mestruale, con te stessa, per giunta, perché ti ci stai affezionando. È interessante, dovresti farti studiare.
Ormai ero abituata a quel comizio di vocine che si facevano sentire costantemente nella mia testa, quindi non mi preoccupai più della mia psicopatia. Invece guardai Gustav, Bill e Georg, seduti sul divano affiancati da Benji, che stava raccontando loro dei nuovi progetti per l’America Latina. Poi il mio sguardo si spostò su David, appollaiato sul bracciolo della poltrona su cui era stravaccato Tom, che ascoltava sorridendo e annuendo, come al solito.
Sentii qualcosa al centro petto non appena intervenne, probabilmente per dire una delle sue solite cose stupide. Era una sensazione strana. Qualcosa a metà tra un dolore pungente e un forte affetto, non piacevole, ma nemmeno così fastidioso.
È una cotta, dolcezza. Questo spiega i brividini lungo la schiena che fai sempre finta di non sentire quando non sei troppo impegnata ad ignorare che pensi a lui.
Cotta? Brividini? Pensavo a lui!?
Certo, ma solo per immaginare di ucciderlo, possibilmente in maniera dolorosa.
Nemmeno in Star Trek sarebbe potuta accadere una cosa del genere. Era impossibile che mi prendessi una… – era difficile perfino pensarlo – cotta per un ragazzino appena diciannovenne. Che pena…
Proprio in quel momento Tom si accorse che lo stavo fissando.
Non riuscii a distogliere lo sguardo immediatamente, come invece avrei fatto se fossi stata in condizioni normali. Non mi canzonò dicendo che sembravo una carpa lessa con lo sguardo da sarago, non mi prese in giro sventolandomi una mano davanti, facendo una battuta stupida e possibilmente umiliante, no. Si limitò a guardarmi a sua volta, incatenando i suoi occhi ai miei, finché un brandello di dignità non mi costrinse a ridare la mia attenzione a Benji. Non avevo seguito una parola di tutti i loro discorsi. Cercai di seguire con attenzione.
«Cosa vuol dire?», stava chiedendo Georg a David. Chissà a cosa si riferiva.
«Che per realizzare questo progetto dobbiamo andare dov’è installata la strumentazione adatta. Farcela arrivare dall’America costerebbe il doppio, e poi avete già una specie di casa lì, no?».
«Stai dicendo che dobbiamo trasferirci a Los Angeles?», domandò Bill, gli occhi sgranati.
Los Angeles?!
«E Miami». Miami?! «Non dobbiamo passarci tutta la vita, solo fare delle capatine durante l’anno per rifinire le canzoni che volete includere questo nuovo sound. Elsa ovviamente verrà con noi per supervisionare la parte tecnica». Mi guardò, cercando nel mio sguardo un consenso. Non avevo capito niente.
«Ehm… quanto dureranno queste… visite, più o meno?». Era una risposta patetica, ne ero consapevole, ma non ero riuscita a trovare di meglio.
«Tutto il tempo che serve. Ovviamente mi metterò in contatto con l’Universal per far in modo che copra il più possibile le spese».
«Quelli sono già incazzati a morte perché non potremo pubblicare l’album entro la primavera», fece notare Tom. «Se chiedessimo anche questo ci darebbero il benservito».
«Devono aspettare, incassare e tacere», intervenne Benji. «Se vogliono un risultato eccezionale, è necessario del tempo. I fan sono nervosi, è vero, ma non moriranno per qualche mese in più di attesa».
«Ma diminuiranno…», intervenne Georg.
Nessuno gli rispose.
Li guardai in faccia uno ad uno: tutto lo stress che cercavano di nascondere ora era ben visibile nelle espressioni corrucciate e pensose.
«Martin in questo momento sta temporeggiando, vero?», chiese Gustav.
«Sta sparando panzane a raffica su Twitter e siti affini per tenere buoni i fan».
«Che stronzata», fece Bill schifato.
Certo, la situazione era difficile. Ma non critica. Benjamin aveva ragione, i fan erano secondari. Tenere buoni quelli della Universal, quello era il vero problema. I ragazzi si impegnavano, non c’era nessun dubbio, ma non potevamo andare più veloci. Bill scriveva solo quando sentiva di voler trasmettere qualcosa, non su commissione, e per correggere e mettere a posto tutti gli arrangiamenti per trasformali in una canzone completa occorreva tempo. Al momento, avevamo pronti solo cinque pezzi e il resto era tutto da rivedere.
David batté le mani una volta. «Così è come stanno le cose. Adesso dobbiamo regolarci di conseguenza». Il suo sguardo veleggiò su tutti e quattro i suoi pupilli.
Vidi che Georg si passò una mano tra i capelli in disordine, sospirando.
«Possiamo cominciare a vedere cosa abbiamo. Sette teste sono meglio di cinque», propose Benjamin.
Io e i ragazzi ci guardammo, trasmettendoci con gli occhi tutta la nostra voglia di lavorare: il lunedì era sempre traumatico.
Tuttavia, ci alzammo con la stessa grazia e prontezza di cinque zombie sotto sedativo, e con lo stesso entusiasmo, ci recammo nella stanza in cui di solito lavoravamo.
David diede due pacche d’incoraggiamento sulla spalla di Tom. «Sono sicuro che avete un sacco di energie!».
E che Dio ce la mandi buona...
 
Top
42 replies since 21/4/2009, 23:29   763 views
  Share